Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2014-2015
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Antonio Pappano
Maestro del Coro Ciro Visco
Soprani Anna Netrebko, Cristina Reale
Basso Vincenzo Serra
Giuseppe Verdi: brani da “Macbeth”: Preludio e Introduzione, Coro di streghe “Che faceste, dite su”; Scena e Cavatina “Nel dì della vittoria… Vieni t’affretta”; Coro delle Streghe “Tre volte miagola”; Ballabili; Coro di profughi scozzesi “Patria oppressa”; Gran scena del sonnambulismo “Vegliammo invan due notti”
Antonín Dvořák: “Othello” ouverture op. 93; “Canzone alla luna” dall’opera “Rusalka”
Richard Strauss: “Till Eulenspiegels lustige Streiche” (I tiri burloni di Till Eulenspiegels), poema sinfonico da un’antica melodia, in forma di rondò op. 28
Roma, 20 dicembre 2014
Dopo il suo recente debutto all’Opera di Roma (nel ruolo del titolo della pucciniana Manon Lescaut, sotto la direzione di Riccardo Muti), la star e diva del firmamento operistico contemporaneo, Anna Netrebko, ritorna a Roma all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. A accompagnarla sul palco, lo straordinario Antonio Pappano, che nella sala Santa Cecilia l’aveva già diretta nello Stabat rossiniano. Un connubio di personalità artistiche, a loro modo uniche e irripetibili: se ci si aggiunga l’eccellente orchestra e lo strepitoso coro dell’Accademia, il concerto non può che risultare di livello assoluto. Netrebko sceglie di cimentarsi soprattutto col personaggio di Lady Macbeth, che ha recentemente aggiunto al suo repertorio, debuttandovi in svariati teatri. Pappano le prepara, quindi, una prima parte di programma tutta verdiana, con brani tratti dal Macbeth: le due grandi arie di Lady (la cavatina “Nel dì della vittoria” e la Scena del sonnambulismo “Una macchia è qui tuttora”, cui Netrebko sceglie di non aggiungere la terza aria, “La luce langue” − scritta per la versione parigina del ‘65) vengono incorniciate dai brani corali delle streghe e dei profughi scozzesi, che articolano l’azione assieme all’esecuzione integrale degli splendidi ballabili (sempre scritti per la parigina del ’65) a mo’ di intermezzo sinfonico. Pappano svela immediatamente la sua chiave di lettura della partitura: il preludio è scandito con meditazione abbadiana (espanso), ma presenta taluni accenti, marziali, tipicamente mutiani (mortiferamente inesorabili). Il vero miracolo Pappano lo fa col coro, riuscendo a modellare, come madida argilla, le voci dei suoi straordinari coristi. Il coro femminile dona una magnifica interpretazione delle sue parti; la sua più pregevole caratteristica è sicuramente la perfetta dizione, che rende bene gli intrichi di parole, gli scioglilingua tipici della lingua delle streghe. Un colore tutto particolare, fenomenale, già palesano in “Che faceste? Dite su!” (I atto), toccando accenti satanici nel coro che apre il III atto, “Tre volte miagola la gatta in fregola”. Come giocano con i volumi! Filati, suoni in smorzando: tutto da manuale. Tetre e spettrali intonano l’incantesimo (“Tu rospo venefico”): accenti ben calibrati e intensità di volume, sotto gli ostinati orchestrali, sono gli ingredienti che rendono la loro performance praticamente perfetta. È la stessa attenzione ai particolari che si percepisce distintamente anche nel corale “Patria oppressa”: il tono sommesso e dolente impernia tragicamente tutta l’esecuzione. Insomma, un coro straordinario, non tanto (o non soltanto) per la perfetta intonazione, quanto per i sentimenti che riesce a far scaturire ascoltandolo. Risulta sempre pertinente al pezzo: e la pertinenza l’ha raggiunta anche grazie al minuzioso lavorio di un genio della direzione qual è Pappano.
Anna Netrebko fa il suo ingresso in sala con un elegante e sobrio abito da sera nero: la cinge solo una cintura dorata ad anelli. La lettura della lettera nella cavatina del I atto (“Nel dì della vittoria io le incontrai”) è a tratti imbarazzante: ma persino la divina Callas qui lasciava ampiamente a desiderare − e si pensi che Strehler, con un’altra diva del ruolo, la Verrett, nel suo celeberrimo Macbeth scaligero, scelse di recitare lui stesso la lettera (come fosse Macbeth) e mandarla registrata. Ma ecco che inizia a cantare. La voce è in forma smagliante, piena, vibrante; si potrà obiettare che è troppo tersa per un ruolo come Lady (verdi lamentava di volere la sua cantante «aspra, soffocata, cupa»), ma Netrebko le dona quel senso spettrale che in parte compensa la mancanza di allure timbrico − per un ruolo, inoltre, tradizionalmente demandato ai mezzisoprani. Tutto il cantabile (“Vieni! T’affretta! Accendere”) è ben calibrato: vere delizie sono lo smorzando con filato sull’ultimo verso. Nel tempo di mezzo, Pappano rallenta a dovere e su “Duncano sarà qui” Netrebko sfoggia dei pianissimo tetri, seguiti dal limpidissimo sovracuto su “notte”. La cabaletta è lievemente raffrenata da Pappano, che impone una concertazione che permette di muovervisi con relativo agio: la Netrebko si diletta in ombreggiature timbriche e variazioni volumetriche − nella ripresa sceglie, a tratti, di cantare sottovoce −, con tanto di noticine, senza tralasciare taluni accenti. I bassi sono ben torniti, godibili: nella cadenza finale è un fuoco d’artificio. Le due voci comprimarie della Gran scena del sonnambulismo sono notevoli: Vincenzo Serra (Medico) e Cristina Reale, una Dama di lusso − come cesella il fraseggio! Pappano crea con l’orchestra un vapore sonoro perfetto: la Netrebko canta con perizia (si ricordino, almeno, i bassi pieni dei versi “Banco è spento…ecc.”; o il filato su “Andiam, Macbetto”), eterea e surreale: avrebbe forse potuto caratterizzare con più nettezza taluni passaggi, ma l’interpretazione è, a prescindere, eccellente: il re bemolle sovracuto, da eseguirsi a fil di voce, è ottimo, sebbene abbia tremato impercettibilmente in un punto. Nell’intermezzo sinfonico, Pappano ci regala un’esecuzione dei ballabili del Macbeth assolutamente indimenticabile, conferendo singolarità a ogni pagina: a mo’ di esempio, l’inizio del secondo ballabile, in cui riesce a creare un’atmosfera irreale, dove fa capolino il tema di Ecate, e la successiva danse infernale, valzer a cui conferisce un’inarrestabile verve.
Il secondo tempo ha un programma curioso. Pappano deve aver basato le sue scelte sulla volontà della cantante di eseguire la “Canzone alla luna” di Rusalka; ecco spiegata la scelta del rarissimo poema Othello di Dvořák (al suo debutto nei concerti dell’Accademia, come del resto la stessa “Canzone alla luna”), variazione non verdiana − questa volta − su un tema shakespeariano. (E perché non eseguire, per esempio, gli stupendi ballabili parigini dell’Otello verdiano, brevi e di sicuro effetto? Gli si sarebbe potuto appaiare, volendo, una Netrebko al debutto in arie di Desdemona, ruolo che le calzerebbe bene). Al poema sinfonico dvořákiano Pappano infonde vita, sensualità, risaltando momenti di assoluta estasi musicale, senza obliare di evidenziare una serpeggiante tensione − evocativa della gelosia di Otello nei riguardi di Desdemona. Ecco, poi, che fa di nuovo il suo ingresso la Netrebko con un nuovo abito: sembra una sirena, con un colore grigio dai riflessi cerulei e un gran fiocco nella parte terminale. Una nereide, come Rusalka: la “Canzone alla luna” è un suo cavallo di battaglia, e qui ci regala infinite dolcezze vocali. Gli applausi sono fragorosissimi; fioccano «brava!» a gran voce. La Netrebko si congeda con un bis abbastanza prevedibile: il lied “Caëcilie” (op. 27 n. 2) di Richard Strauss, inizialmente previsto nel programma. Ottima esecuzione (nella versione per grande orchestra, ovviamente), poi il congedo fra gli applausi scroscianti. Il concerto si chiude, appunto, con Strauss. Pappano dipinge il Till Eulenspiegel grazie a un ottimo controllo dell’insieme orchestrale, come pure delle sortite dei singoli strumenti (primo fra tutti l’ottimo primo violino; o il corno, che incide degnamente il tema di Till): una partitura che ha nella descrizione bozzettistica la sua ragion d’essere, il suo nerbo. Pappano accoglie l’amore che il pubblico gli tributa con un sorriso smagliante, mentre si gode i meritati applausi, all’esito di un concerto come ve ne sono pochi. Foto © Riccardo Musacchio & Flavio Ianniello