Teatro dell’Opera di Firenze – Stagione Lirica 2014/2015
“FALSTAFF”
Commedia lirica in tre atti di Arrigo Boito
Musica di Giuseppe Verdi
Sir John Falstaff AMBROGIO MAESTRI
Ford ROBERTO DE CANDIA
Fenton YIJIE SHI
Dr. Cajus CARLO BOSI
Bardolfo GIANLUCA SORRENTINO
Pistola MARIO LUPERI
Mrs. Alice Ford EVA MEI
Nannetta EKATERINA SADOVNIKOVA
Mrs. Quickly ELENA ZILIO
Mrs. Meg Page LAURA POLVERELLI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Zubin Mehta
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Luca Ronconi
Scene Tiziano Santi
Costumi Maurizio Millenotti
Luci AJ Weissbard
Nuovo allestimento
In coproduzione con Fondazione Teatro Petruzzelli di Bari
Firenze, 29 novembre 2014
Dalle due alle tre. Non si tratta in questo caso dell’ora in cui l’allegra comare di Windsor Alice Ford può ricevere visite galanti, bensì del numero di produzioni dell’ultima opera verdiana che Luca Ronconi ha allestito nel corso degli anni. La seconda, commissionata dalla Fondazione Maggio Musicale Fiorentino nel 2006, sfarzosa, opulenta, molto tecnologica nell’uso di macchine teatrali (in particolare nel passaggio dalla prima alla seconda scena del terzo atto) fu un grande successo unanime di pubblico e di critica; con quest’ultima, inaugurata lo scorso anno al Teatro Petruzzelli di Bari, Ronconi fa una virata a 360 gradi verso una messinscena che si può tranquillamente definire “minimalista”; è lo stesso regista ad affermarlo nel programma di sala: “Anche sulla scena ci saranno pochissimi elementi; è talmente tutto scritto nella partitura che non c’è bisogno di aggiungere. E in più, mi è sempre sembrato che insistere sul carattere pittoresco di quest’opera non le faccia un buon servizio”. Ronconi sottolinea inoltre il fatto di non esser riuscito in precedenza a trovare nei teatri le dimensioni ideali per quest’opera “intima”. In parte ha ragione, soprattutto se ricordiamo le iniziali intenzioni di Verdi di voler allestire la prima assoluta all’interno della sua villa di Sant’Agata, ma così facendo dà l’impressione di voler in un certo qual senso rinnegare le due precedenti regie. I pochi elementi di cui Ronconi parla sono teloni bianchi (neri nell’ultima scena notturna) che fungono da pareti, e che nelle intenzioni del regista dovrebbero appunto ridurre lo spazio in cui si svolge l’azione. In scena, in mezzo a vari oggetti disordinatamente ammucchiati, troneggia il letto disfatto del protagonista, che vi si addormenta nel passaggio dalla seconda e terza scena dell’ultimo atto, suggerendo la possibilità che il rendez-vous nella foresta sia soltanto un sogno: mentre Falstaff dorme, la gigantesca quercia di Herne scende capovolta fino a sfiorargli la testa.
Poiché l’azione viene spostata all’epoca della creazione dell’opera, i personaggi femminili entrano ed escono alla guida di prototipi di eleganti velocipedi e biciclette di varie forme, mentre i maschietti prediligono una macchina-trattore in legno degna di una Fiera Internazionale dell’epoca. In contrasto con la quasi assenza di scene (firmate da Tiziano Santi), molto belli erano i costumi di Maurizio Millenotti, mentre le luci di AJ Weissbard si facevano cospicue soltanto nell’ultima scena. Considerata la natura spoglia dell’allestimento, sarebbe stata auspicabile una maggior concentrazione sulla recitazione dei cantanti, che al contrario sono stati quasi abbandonati a movimenti di routine; si discostava dalla tradizione soltanto Ambrogio Maestri che ha impersonato un Falstaff più fosco e ombroso del solito. Maestri, con più duecento recite all’attivo nei maggiori teatri internazionali, è ormai divenuto il Falstaff di riferimento dei nostri tempi. La voce è poderosa, torrenziale e di bella pasta. Il registro acuto, almeno nella recita in questione, ha talora dato segni di incertezza, come ad esempio il Sol leggermente calante del “no, no, no!” alla fine del monologo “dell’onore”. È soprattutto quando doveva cantare piano in acuto che Maestri si è trovato in difficoltà, ricorrendo a dei falsetti (sempre nello stesso monologo il mi naturale di ”C’è dell’aria che vola”, o ancor prima il Fa diesis della frase “Io sono ancora una piacente estate di San Martino, e in maniera più vistosa la stessa nota all’inizio del duetto con Alice frase “alfin t’ho colto raggiante fior!”). Eva Mei, soprano dalla tecnica sopraffina, gusto squisito e fino a non molto tempo fa una delle interpreti più acclamate nel repertorio di coloratura, era a disagio in un ruolo che insiste nella zona medio grave, che nel suo caso non è maturata o inscurita negli anni; inoltre da una belcantista come lei ci si sarebbe aspettato un bel trillo. Colore vocale scarsamente sensuale è anche quello di Laura Polverelli, una Meg dall’emissione angolosa e un po’ affaticata. Ekaterina Sadovnikova era una Nannetta corretta e nulla più: il timbro è carino ma tutto sommato terrestre, non dotato di quella qualità eterea e diafana necessaria a far vaporosamente galleggiare tutti quei La naturali. Elena Zilio, da decenni una delle maggiori professioniste della lirica italiana, brilla tuttora per il fraseggio elegantissimo che le permette di dar vita a una Quickly plausibile ed anzi convincente nonostante i vistosi segni di ossidazione vocale e l’assenza di un vero registro contraltile: non sono certo le note gravi emesse di petto in “Reverenza” a lasciare il segno, ma la classe e lo stile inappuntabili. Roberto de Candia non ha mai avuto uno strumento molto potente e voluminoso e il confronto diretto con Maestri nel duetto fra Ford e Falstaff in tal senso non deponeva certamente a suo favore: ne usciva schiacciato in ogni senso, anche e soprattutto fisicamente. In compenso possiede ottima tecnica, una voce omogenea e rotonda e, forte della lunga e proficua frequentazione con il repertorio buffo, è particolarmente divertente nei momenti di rabbia, come ad esempio il rapidissimo sillabato (“Chiudete le porte!, “etc…) eseguito alla perfezione. Il baritono pugliese, che ha creato il ruolo di Falstaff all’inaugurazione barese dell’allestimento, si calerà nuovamente dei panni del vecchio John in alcune di queste recite fiorentine. Yijie Shi si è rivelato un Fenton superlativo per facilità di emissione, controllo dei fiati, sicurezza del registro acuto: il sonetto del terzo atto, intessuto di pianissimi spettacolari (che meraviglia l’ascesa al Sol diesis nella frase “al suo fonte rivola”) è stato raramente eseguito con tanta soavità rispettando appieno la volontà di Verdi che scrive “dolcissimo” praticamente su ogni frase. Carlo Bosi è a buon diritto il Dr. Cajus attualmente più richiesto, ed è difficile immaginare una coppia più convincente, soprattutto a livello scenico, di Gianluca Sorrentino (Bardolfo) e Mario Luperi (Pistola).
Ma Falstaff è in fin dei conti un’opera da direttore d’orchestra più che da cantanti. Zubin Mehta ha offerto una squisita lettura di questa “rivoluzione in do maggiore” (secondo la felicissima definizione di Massimo Mila) che può apparire semplice a prima vista e che in realtà è un fine e puro e preziosissimo tessuto dalla trama intricata e complessa, ma sempre ordita in maniera razionalissima. Quel che più conta in Falstaff sono la precisione, il ritmo, la continuità della narrazione, tutte qualità che Zubin Mehta ha saputo esprimere, per non parlare del ferreo e calibrato equilibrio fra buca e palcoscenico. Certo, Mehta ha in alcuni momenti alzato la manopola del volume, tanto che in diversi momenti pareva di esser capitati a una rappresentazione dell’Otello. In ogni caso molte erano le gemme preziose della sua direzione, e un buon esempio si è avuto alla fine dell’Atto Primo, scena prima: dopo il monologo di Ford, il violento crescendo orchestrale improvvisamente si è mutato in un’incantevole melodia del violino, allorché Falstaff tornava in scena tutto in ghingheri. Mehta ha ottenuto che i violini fraseggiassero con larga espansione, con un accenno di glissando sulle quinte ascendenti nella terza e quarta battuta della melodia, ottenendo un effetto stupendo. Un altro esempio: nella scena finale, durante il finto esorcismo, Falstaff canta la frase “Ma salvagli l’addomine” quattro volte. Ogni volta la sua voce è raddoppiata da due flauti e due oboi; Mehta ha bilanciato questo passaggio in modo da dar enfasi agli oboi, e Maestri ha accordato il proprio timbro e il tipo di vibrato a questi strumenti: preziosità impagabile.
Leggere la parola “esaurito” all’ingresso del teatro è sempre rassicurante, soprattutto per una realtà travagliata come quella fiorentina. Questa volta infatti il pubblico è accorso numerosissimo, accogliendo lo spettacolo con molto calore, con punte di entusiasmo soprattutto per il protagonista. English version