Christoph Willibald Gluck: “Iphigénie en Aulide”

Christoph Willibald Gluck (Erasback, Alto Palatinato 1714 – Vienna 1787)
La situazione di Gluck a Vienna comincia a cambiare con l’inizio degli anni ’70, dopo i trionfi dei decenni precedenti l’entusiasmo si era decisamente raffreddato
, il cambio del gusto e forse certe posizioni portate avanti in modo troppo dogmatico cominciavano ad allontanargli l’entusiasmo del pubblico. E’ in questo contesto che il compositore comincia a pensare ad una possibile scrittura a Parigi, punto di arrivo quasi naturale per un compositore che aveva sempre guardato all’opera francese come ad un modello di riferimento, il solo capace di offrire stimoli autonomi rispetto all’opera italiana dominante in tutto il continente all’interno di una visione in cui il modello francese avrebbe potuto contribuire a rinnovare per la creazione di un nuovo linguaggio comune europeo che superasse le varie scuole nazionali. Il matrimonio nel 1770 fra l’Arciduchessa Maria Antonietta e il delfino Louis – il futuro Luigi XVI – rappresentava inoltre per Gluck un’occasione da non lasciarsi sfuggire in quanto la principessa era stata allieva di musica dello steso Gluck e aveva sempre mantenuto con il compositore una sincera amicizia. Fu proprio il pressante interessamento dell’Arciduchessa a far ottenere per il maestro un corposo accordo con l’Opéra. Il compositore partì per la Francia nel 1773 con una nuova opera quasi completata, in attesa dell’evoluzione delle questioni francesi infatti Gluck si era messo al lavoro su un libretto fornitogli dall’amico Le Bally du Roullet, attaché all’ambasciata francese a Vienna e aspirante librettista di buon talento – sul tema di Ifigenia in Aulide dall’omonima tragedia di Racine.
Gluck sapeva benissimo che l’avventura parigina non sarebbe stata facile. Già la scelta di cimentarsi con una Tragédie lyrique offriva il fianco a numerosi affondi, gli illuministi avevano ripetutamente attaccato il genere per la sua convenzionalità inoltre a Parigi qualunque evento culturale aveva inevitabili strascichi di polemiche, spesso collegati alle fazioni politiche della corte e la nuova opera di Gluck non fece eccezione, il protegée della Delfina attirò subito l’appoggio del partito filo-austriaco mentre i gruppi ostili all’accordo con l’Impero si schierarono subito contro il compositore. Durante le prove si raccontava che in teatro si fosse vista la marchesa Du Barry, nuova favorita del Re e giurata nemica di Maria Antonietta, evidentemente intenta a tessere inganni per l’opinione pubblica del tempo; molto probabilmente la Du Berry non era al centro di congiure o complotti ma di certo si era subito schierata a favore di Piccinni nonostante il suo apostolato culturale a favore del neoclassicismo più rigoroso.
Quello che Gluck verosimilmente non si aspettava era il livello di spaventosa approssimazione dei complessi musicali parigini. Abituato alla qualità delle compagini viennesi che sotto la sua guida erano diventate un assoluto riferimento sulla scena europea l’incontro con la realtà parigina deve essere stato alquanto sconfortante. Da una lettera dello stesso Gluck possiamo farci un’idea delle difficoltà incontrate “I cantanti sapevano solo “urlare o salmodiare”, il coro era una massa di automi in guanti bianchi e l’orchestra sommersa dalla routine. I violinisti d’inverno suonavano con i guanti; i flauti suonavano un’ottava sotto gli ottavini ma con una differenza di quarto di tono; i corni da caccia e le trombe militari costituivano la sezione degli ottoni e una sezione dei violini suonava i tamburi. Sfumature di qualunque genere sembravano sconosciute. L’organico normalmente impiegato era di ventiquattro violini, cinque viole, diciassette tra violoncelli e contrabbassi, sei flauti e sei oboi, due clarinetti, otto fagotti, due corni, una tromba e un clavicembalo” e le cose non andavano meglio con i solisti e si ricordano scontri durissimi con la protagonista il soprano Sophie Arnould, con il tenore Joseph Legros destinatario del ruolo di Achille – rapporto all’inizio burrascoso ma poi appianato con la progressiva crescita artistica di Legros che diventerà abituale collaboratore di Gluck negli anni francesi – e con il ballerino Gaetano Vestris.
Le prove durarono sei mesi in un clima di continua tensione, il giorno fissato per la prima scoppiò una sospetta epidemia fra le maestranze e solo l’intervento personale di Maria Antonietta riuscì a far rimandare la recita. Alla fine l’opera andò in scena il 19 aprile 1774 con risultati contrastanti, se l’opera suscito l’entusiasmo negli ambienti più colti venendo lodata persino da Rousseau – giurato nemico della tragedie liryque – il pubblico più popolare resto abbastanza interdetto di fronte alle novità proposte da Gluck.
Le vicissitudini dell’opera non erano però cessate, dopo solo tre recite la malattia – e la successiva scomparta – di Luigi XV portarono alla chiusura di tutti i teatri e l’opera tornò in scena solo il 10 gennaio 1775 in una nuova versione con finale modificato e a alcuni spostamenti nei divertissement. Negli anni successivi si affermò invece come il maggior successo di Gluck in Francia contando più di quattrocento rappresentazioni fino al 1824.
Musicalmente Iphigénie en Aulide riprende tutti i moduli delle opere riformate del periodo viennese, il rifiuto francese nei confronti dei castrati porta ad una rigida corrispondenza fra sesso del personaggio e tipologia vocale che diverrà canonica nelle opere successive. Le scene si articolano come nelle opere precedenti in grandi blocchi musicalmente e drammaturgicamente compatti al cui interno i singoli pezzi chiusi collaborano alla costruzione di una struttura più ampia e complessa e in cui un ruolo centrale gioca il recitativo, ormai quasi sempre accompagnato e dotato di una dignità artistica analoga a quelle delle arie. Il tratto caratterizzante della partitura è un’assoluta chiarezza formale, le strutture armoniche e ritmiche sono spesso di una semplicità assoluta quasi eccessiva per il gusto moderno ma fu proprio questa composta semplicità ad affascinare maggiormente i contemporanei che vi vedevano il riflesso di una grecità più sognata e conosciuta, winckelmanianamente vista come regno di un ordine formale assoluto e trasparente; in questo modo Gluck otteneva inoltre il doppio risultato di ottenere il massimo possibile sul piano espressivo evitando che venissero alla luce in modo troppo evidente le lacune dei complessi a sua disposizione. In alcuni momenti però si accende in alcune delle pagine più geniali concepite da Gluck che di colpo aprivano uno spiraglio sui successivi decenni di evoluzione musicale, la grande scena conclusiva del II atto è in questo senso esemplare, il monologo di Agamennone cancella di un colpo tutto quanto composto fino a quel momento nel campo della teatralità drammatica del canto, il lungo declamato introduttivo “Tu decide son sorte” ( Atto 2 – scena 7) in cui le continue fluttuazioni formali – dal recitativo all’arioso melodico con tutte le possibili varianti intermedie – seguono l’ondivagare del protagonista di fronte all’inevitabile tragedia mentre il canto è chiamato a dare un rilievo senza precedenti alla parola e alla sua forza espressiva; non stupisce che Wagner si sia innamorato di quest’opera visto che è fin troppo facile vedere in certe soluzioni un’anticipazione della propria concezione del dramma musicale. La successiva aria “O toi, l’objet le plus amable” è più convenzionale ma fornisce un’ottima conclusione alla grande scena. Nell’atto successivo è la scena di Clitemnestra” Dieux puissant…Juppiter lance la foudre” (Atto 3 – scena 6) svolge le stesse funzioni con la grande aria di furore che anticipa da presso analoghe scene mozartiane nella capacità di rileggere in forme nuove un modulo sostanzialmente tradizionale.
Drammaturgicamente si nota uno slittamento verso un piano più intimo e privato, le figure pur tratte dal mito cessano di avere valore archetipico – com’era stato soprattutto in “Alcesti” – per mettere in maggior evidenza il loro aspetto umano e privato dando assoluta centralità ai sentimenti contrastanti che dilaniano i personaggi.
Come ricordato fra la prima del 1774 e le riprese del 1775 Gluck apportò notevoli modifiche alla partitura, oltre allo spostamento di alcuni ballabili le differenze di maggior conto riguardano il finale dell’opera. Nella prima versione era infatti Calcante ha rivelare la volontà della Dea mentre nella seconda Gluck introduce l’apparizione di Diana che scende dal cielo a risolvere la situazione riprendendo la soluzione prevista in Racine ed Euripide.
La trama
Atto I
L’esercito greco e accampato in Aulide mentre una bonaccia senza sosta impedisce la partenza per Troia, consultati gli oracoli si è scoperto che questo è dovuta all’ira di Diana nei confronti di Agamennone e che solo il sacrificio di Ifigenia, figlia del Re, potrà placare le ire della Dea. Con la promessa di un matrimonio con Achille la fanciulla viene invitata in Aulide. Agamennone straziato dai sensi di colpa ha tentato di impedire la partenza della fanciulla da Micene diffondendo false voci sull’infedeltà di Achille ma il messo è giunto in ritardo e ormai il corteo era partito, proprio in quel momento Calcante e il coro annunciano l’arrivo di Ifigenia e della madre Clitemnestra. Achille raggiunge la ragazza negando ogni infedeltà e giurandogli il proprio amore e rendendo così vano il piano di Agamennone per salvare la figlia.
Atto II
Ifigenia è incredula di quanto successo fra il padre e l’amato quando Clitemnestra la raggiunge per avvisarla che Agamennone a concesso alle sue nozze. Seguono i festeggiamenti per il prossimo matrimonio interrotti dall’arrivo di Calcante che comunica che Ifigenia sarà condotta al sacrificio e non all’altare. Lo sgomento scende sul campo greco, Clitemnestra si infuria pretendendo la salvezza della figlia e Achille giura di difendere in ogni modo la ragazza scontrandosi duramente con il futuro suocero. Agamennone rimasto solo chiama l’araldo Arcade per riportare le donne a Micene e quindi sfidando l’ira di Diana giura a se stesso di salvare Ifigenia.
Atto III
I soldati greci stremati dall’attesa chiedono ad Agamennone di sacrificare la figlia per consentire la partenza nel frattempo rientra Ifigenia che ha rifiutato di seguire Arcade ed è pronta di affrontare il suo destino per il bene della Grecia nonostante le suppliche della madre che stravolta dal dolore è sul punto di perdere il senno e implora gli Dei di vendicarla. Ifigenia è condotto sulla spiaggia dove si è eretta la pira e già Calcante è pronto a levare il coltello sacrificale quando compre in cielo la stessa Diana che perdona Agamennone per le sue colpe, destina Ifigenia in sposa ad Achille e annuncia il ritorno dei venti che condurranno la flotta greca a Troia.
L’incisione
Opera in tre atti su libretto di Le Bailly du Roullet da “Iphigénie” di Racine
Prima rappresentazione, Opéra de Paris, 19 aprile 1774
Agamennon José van Dam (basso)
Clytemnestre Anne Sophie von Otter (soprano)
Iphigénie Lynne Dawson (soprano)
Achille John Aler (haute-contre)
Patrocle Bernard Deletré (basso)
Calchas Gilles Cachemaille (basso)
Arcas René Schirrer (basso)
Diane Guillemette Laurens (soprano)
Une femme grecque/Une esclave Ann Monoyios (soprano)
Une femme grecque Isabelle Eschenbrenner (soprano)
Orchestre de l’Opéra de Lyon, Monteverdi Choir
Direttore: John Elliot Gardiner
Registrazione: Opéra de Lyon, luglio 1987
La storia della discografia è spesso strana tanto che si è dovuto attendere il 1987 per avere un’incisione attendibile di quest’opera che rappresenta non solo un punto centrale della carriera di Gluck ma uno snodo fondamentale nell’evoluzione del melodramma europeo. Fortunatamente a riempire questa lacuna è stato un direttore di grande sensibilità stilistica con John Elliot Gardiner che in quegli anni rappresentava la miglior garanzia di qualità in questo repertorio. Per prima cosa va sottolineata la scelta di utilizzare un’orchestra moderna, quella ottima dell’Opéra de Lyon, anziché un complesso specializzato su strumenti antichi e se questo può forse portare ad una certa pesantezza in alcuni passaggi permette di evitare quei limiti – soprattutto di intonazione – che all’epoca era ancora abituali nelle compagini specializzate nella musica antica. Gardiner è per altro bravissimo a piegare l’orchestra ad un rigore stilistico inappuntabile cui si unisce quella cura per i dettagli che è un tratto caratterizzante del maestro inglese. Sul piano espressivo troviamo poi un’edizione fortemente teatrale che esalta al meglio i contrasti drammatici che la partitura presenta pur nell’apparente uniformità di fondo ed appare evidente come Gardiner creda profondamente anche nei valori teatrali e non solo in quelli musicali di questa partitura. Ottima – come sempre – la prova del Monteverdi Choir.
L’ottima prestazione orchestrale trova poi il completamente in un cast musicale più che apprezzabile.  Domina l’Agamemnon di José Van Dam, certo la lunga e pesante carriera ha lasciato qualche segno sui mezzi del baritono fiammingo ma la voce ha ancora una pienezza che teme pochi confronti a cui si unisco le doti di uno dei più grandi fraseggiatori che il teatro lirico abbia avuto. La naturalezza linguistica gli permette di dominare con assoluta naturalezza la prosodia francese in una scansione tragicamente classica di assoluta suggestione inoltre non vi è un momento in cui una frase sia trascurata o risolta con solo mestiere ma sempre è tutto finalizzato alle ragioni espressive del personaggio ed è quasi inutile dire come un simile interprete esalti il grande monologo che chiude il II atto.
Brava anche se non altrettanto entusiasmante la Clitemnestre della Von Otter, alla quale  si può solo appuntare un timbro molto chiaro e decisamente sopranile ma è altrettanto vero che a quest’orizzonte cronologico la precisa definizione del mezzosoprano era ancora lungi dal venire – e regge con assoluta sicurezza una parte dalla tessitura decisamente alta – gli acuti di “Juppiter lance la foudre” si fanno decisamente apprezzare – mentre risulta più generica tanto nel fraseggio quanto nell’articolazione del fraseggio in cui viene a mancare quell’eloquenza tragica che rendeva esemplare la prova di Van Dam.
Discorso in parte analogo per la protagonista, Lynne Dawson canta infatti bene il ruolo di Iphigénie, la voce è decisamente molto bella, la linea di canto curata ed elegante con grande omogeneità su tutta la linea ma tende a dare del personaggio una lettura fin troppo uniforme riducendo tutta la parte ad un dolente lirismo che certo le è proprio ma non esclusivo riducendo così la portata complessiva della prestazione nonostante un livello di canto decisamente molto buono.
La parte di Achille è particolarmente impegnativa nel richiedere un tenore acutissimo e agile ma al contempo dotato di autorità e temperamento eroico. John Aler è sicuramente pienamente corrispondente alla prima componente con timbro chiaro e luminoso, acuti squillanti e risolti con naturalezza, ottimo controllo del fiato, lo è molto meno nella seconda così che momenti come “Calchas, d’une trait mortel” lo costringono a giocare sulla difensiva anche se bisogna riconoscere che conscio dei suoi limiti riesce a venirne a capo con intelligenza. Molte buone le numerose parti di fianco con Gilles Cachemaille (Calchas) di buona autorevolezza; Guillemette Laurens radiosa Diana e Bernard Deletré un  solido come Patroclo. Ottimi gli interventi di Ann Monoyios e Isabelle Eschenbrenner (Femme grecque e Une esclave).