Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2014-2015
Pianoforte Daniil Trifonov
Johann Sebastian Bach: Fantasia e Fuga in sol minore BWV 542
Ludwig van Beethoven: Sonata in do minore op. 111
Franz Liszt: Dodici studi d’esecuzione trascendentale S. 139
Roma, 14 novembre 2014
Dal giorno in cui Daniil Trifonov suonò per la prima volta all’Accademia di Santa Cecilia (correva l’anno 2012), fummo tutti colpiti dal suo talento e solo un miope non avrebbe scorto in lui l’alba di una fulgida carriera, che puntuale sta arrivando. E certo i ritmi di una moderna carriera pianistica sono estenuanti; sovente gli esecutori sono costretti a stancanti tour de force che li portano anche al rischio di sfibrarsi anzitempo. Ci si augura non sarà il destino del talentuoso russo. Il programma presentato per questo recital cameristico, proprio un perfetto esempio di tour de force, è vario e abbraccia quasi tre secoli di storia della musica: da Bach a Liszt, passando per Beethoven. Dei tre autori, quello che ha avuto l’onore dell’esecuzione migliore è stato Liszt, i cui Studi d’esecuzione trascendentale, vero avello di pianisti, sono di una difficoltà a tratti insormontabile.
Il Bach della Fantasia e Fuga in sol minore ha dei tratti di grande modernità, tratti che Trifonov mette in evidenza, forse anche troppo: rende la Fantasia, soprattutto, molto poco bachiana. La sua straripante personalità pianistica investe tutto ciò che suona; è, del resto, nell’età in cui − a ragione − poco si riflette e molto si agisce; in senso pianistico, ciò si traduce in un’energica irruenza: sé stesso tracima in tutto quello che suona. La Fantasia viene resa con un suono pastoso, intenso; l’uso abbondante del pedale (assai poco filologico, se mi si conceda l’espressione) suggerisce quasi un’atmosfera d’organo; l’esecuzione è molto vissuta, a tratti persino rude, volta anche a esaltare tutti gli inusuali particolarismi cromatici e tonali. La Fuga è di celeste compostezza. Trifonov sceglie la via della precisione matematica, cessando di usare il pedale: il tasto è appena pigiato, il suono si fa fluidamente limpido. Se il contrasto fra le due sezioni è evidente, i fili sono comunque tenuti assieme.
«La Sonata op. 111 rappresenta invece il compiuto testamento di Beethoven nel genere della sonata pianistica, trasformata nel volgere di un trentennio da genere di pubblico consumo in astratta meditazione personale; non è un caso che lo scenario avveniristico aperto nelle ultime variazioni sia rimasto sostanzialmente senza seguito per molti decenni, venendo colto nella sua profondità solamente nel corso del secolo scorso» (A. Quattrocchi, dal programma di sala). La particolare essenza dell’op. 111 di Beethoven la rende un brano che va oltre le difficoltà tecniche: vi si devono superare anche le difficoltà più intrinsecamente interpretative. Non si può pretendere da Trifonov (ventitreenne!) di dare sfoggio di compassato umanesimo: così di Beethoven abbiamo apprezzato l’energia vitale. Nel I tempo, dopo l’introduzione, con potenza attacca il celebre tema, e tra i suoi accordi indugia, si prende il suo tempo; dopo, una cascata di note, sovente in crescendo, si stemperano mano a mano; il terso tocco, il suono sinceramente virile, ne fanno una buona interpretazione. L’aria del II tempo è meditata prendendo ampi respiri, profondi, lasciando cantare il suono con delicatezza; con l’andare delle variazioni, il tema si deframmenta, fino a giungere a tali e tanti giochi di spostamenti di accenti e controtempi, da anticipare tanta musica del XX secolo (e Trifonov fa bene a giocare con lo spartito donandogli una patina jazzistica). Verso il finale, il russo incasella una mirabile serie di trilli ascendenti: ecco poi l’anabasi all’empireo luminoso dei suoni che conclude il brano. Finanche l’espressività sul volto di Trifonov segue tutto il processo.
È con Liszt, dicevo, che la sua energia propulsiva può sfociare e trascinare il pubblico per un’ora e più di musica. La sua perizia e il virtuosismo spericolato sono manifesti fin dal n. 1 (Preludio) e n. 2; dopo una pausa bucolico-contemplativa (n. 3, Paysage), ecco prorompere il celebre n. 4, Mazeppa, col galoppo del noto tema: Trifonov scandisce bene il pezzo, romantico, sublime. Il n. 5 (Feux follets) ci fa gustare tutto il suo virtuosismo, a tratti (è vero) robotico, ma di eccezionale qualità: lo staccato che usa nell’eseguire la miriade di noticine si unisce alla fluidità dell’esecuzione. Nella Vision (n. 6) fa emergere l’aspetto notturno, mantenendo costante la climax che conduce all’aurora; nel n. 7 (Eroica) si scorgono suggestioni ungheresi e Trifonov scandisce persino con virulenza la marcia. Si scatena anche nel Wilde Jagd (n. 8), uno dei pezzi indubbiamente meglio riusciti della serata, dov’è ferino; la parentesi elegiaca di Ricordanza (n. 9) lo vede incedere indugiando sui gruppetti che precedono il tema di cantabilità operistica − è invero lontano dalle atmosfere di languida dolcezza create da uno Cziffra. In Harmonies du soir (n. 11) si lascia sedurre dal timbro erotico-emotivo del brano: pare che il pezzo possieda lui, più che possederlo lui stesso; termina coll’impressionistico Chasse neige, dove ci regala una debussiana polvere di note (scale cromatiche con ampio uso della pedaliera), atta a ricreare le fulminee buriane di neve. Non avrà la lettura espressionista di Arrau, ma supera addirittura l’energia di Richter, meditata e mediata: la sua, quella di Trifonov, è invece più giovanilmente primigenia.