“Madama Butterfly” al Teatro Comunale di Sassari

Teatro Comunale – Stagione Lirica 2014
“MADAMA BUTTERFLY”
Tragedia giapponese in tre atti di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
(da John L. Long e David Belasco)
Musica di Giacomo Puccini
Madama Butterfly (Cio-Cio-San) CINZIA FORTE
Suzuki ALESSANDRA PALOMBA
Kate Pinkerton SARA ROSSINI
F.B. Pinkerton BRUNO RIBEIRO
Sharpless SIMONE DEL SAVIO
Goro GREGORY BONFATTI
Il Principe Yamadori GIANLUCA MARGHERI
Lo zio bonzo CARMINE MONACO
Yakusidé MANUEL PIERATTELLI
Il commissario imperiale FRANCESCO SOLINAS
Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Corale Luigi Canepa
Direttore Matteo Beltrami
Direttore del coro Luca Sirigu
Regia e scene Arnaud Bernard
Allestimento della Fondazione Teatro delle Muse di Ancona e Associazione Arena Sferisterio di Macerata
Sassari, 31 ottobre 2014

Il noto insuccesso di Madama Butterfly il giorno della sua prima esecuzione, 17 febbraio 1904, è sempre stato attribuito soprattutto al clima creato ad arte dai rivali di Puccini, non a caso anche legati alla casa editrice concorrente. Sicuramente l’atmosfera negativa contribuì, ma a un’attenta lettura delle cronache dell’epoca appare evidente la fondamentale incomprensione di un’opera che si poneva in maniera nuova di fronte al pubblico, almeno a quello italiano. L’utilizzo strutturale, e assai personale, del leitmotiv, la quasi assenza di brani chiusi, le linee melodiche varie e flessibili più funzionali alla recitazione espressiva che all’espansione melodica fine a se stessa, avevano creato più di una perplessità nel pubblico e nella critica di allora. Nuovo anche l’uso sistematico di strutture scalari e armoniche mediate dalla musica orientale che, pur essendo state già utilizzate nella coeva musica francese, furono sbeffeggiate dal pubblico della Scala, abituato generalmente a collegare l’esotismo a forme di teatro musicale più leggero.
Proprio l’ambientazione esotica è uno dei nodi da sciogliere nell’allestimento dell’opera: facile cadere nelle “cineserie” di maniera. D’altronde la proverbiale essenzialità giapponese ben si presta, in epoca di tagli e risparmi, ad allestimenti che fanno del minimalismo la loro cifra distintiva.
Questa è stata la strada scelta dal regista Arnaud Bernard, autore anche delle scene, per il secondo titolo della stagione lirica sassarese, con un risultato complessivamente contradditorio. L’allestimento, ripreso dal Teatro delle Muse di Ancona in collaborazione con lo Sferisterio di Macerata, si basa su una pedana centrale-isola cui si accede da due contorte passerelle laterali e da una scala che scompare nel sottopalco. Nient’altro, solo uno sfondo neutro per coprire la parete di fondo del palcoscenico. Pochi e semplici elementi di arredo scenico servono a connotare la casa di Cio-Cio-San nei vari momenti; inoltre nel primo atto galleggiano intorno alla casa-isola dei fiori rossi, nel secondo delle bandierine americane e la fredda assenza di qualunque elemento caratterizza la solitudine del terzo: il simbolismo è chiaro e anche funzionale nella sua semplicità. Innegabile, grazie alle belle luci e all’utilizzo di un velario, anche l’effetto di alcuni quadri, come il finale del secondo atto e quello del terzo: magari fine a se stessi, ma d’indubbia efficacia. Il tutto potrebbe anche alludere all’eleganza essenziale del teatro tradizionale giapponese (Nel No e nel Kabuki, tra l’altro, è proprio prevista la pedana centrale collegata da un ponte per l’ingresso degli attori) ma il tutto si trova poi a confliggere con una regia che non opera delle scelte coerenti con la filosofia dell’impianto scenico. È inutile costruire una semplicissima scenografia simbolica, allusiva, quando poi chi la occupa utilizza i soliti movimenti genericamente naturalistici della recitazione tradizionale: o si portano avanti delle scelte coraggiose che coinvolgano con rigore anche le abitudini sul palcoscenico, altrimenti il tutto appare come un’estetizzante corsa al risparmio.
Numerose in questo senso le incongruenze, specialmente nel primo atto, l’unico che richieda una certa vivacità di movimenti sul palcoscenico: veder mimare nel vuoto scenico gesti e atteggiamenti richiesti dal testo, o addirittura in contraddizione con esso, ha strappato più di un’ironia in sala. Evidente era poi l’impaccio, nel ristretto spazio della pedana, di cantanti e coro, alle prese con una situazione a metà tra la recita e l’esecuzione in forma di concerto corredata da abiti di scena. Nel secondo e specialmente nel terzo atto l’impostazione è apparsa più in linea con la logica dell’impianto, grazie fondamentalmente all’essenzialità drammaturgica insita nello sviluppo dell’opera.
La produzione ha visto il debutto come protagonista di Cinzia Forte, soprano lirico–leggero, che ricordiamo con piacere tanti anni fa ai suoi esordi, prima di una brillante carriera internazionale che ha sempre escluso i principali ruoli pucciniani. La Forte è riuscita prima di tutto a creare un personaggio credibile, cosa non semplice nella situazione, e a dargli l’intensità e la giusta evoluzione richieste dalla drammaturgia: buono il risultato specialmente nel finale, anche grazie a una regia più a proprio agio rispetto al resto dell’opera. Vocalmente il risultato è stato ambivalente: la Forte porge molte frasi idiomatiche del tessuto melodico in modo squisito, con espressione e accenti pienamente convincenti, specialmente quando è portata a seguire spontaneamente la propria natura. Chiaramente però non può dare la necessaria espansione negli acuti, specialmente nelle tessiture e con l’orchestrazione previste dall’autore. Tende inoltre a comparire nel registro medio-acuto un vibrato stretto che si accentua proporzionalmente alle dinamiche e anche i gravi appaiono poveri in rapporto ai centri. Comunque è interessante un confronto “filologico” con Rosina Storchio, creatrice del ruolo (almeno da quello che appare nelle pionieristiche registrazioni dell’epoca) e le caratteristiche comuni sono notevoli, nonostante le perplessità che possono essere sollevate da un taglio vocale sostanzialmente inadeguato al personaggio.
La coppia dei protagonisti in questo senso non è ben abbinata e il Pinkerton di Bruno Ribeiro presenta caratteristiche in pratica opposte a quelle della sua partner: i mezzi vocali sono notevoli ma il timbro non è molto seducente e gli acuti sono potenti ma talvolta fissi e disomogenei rispetto ai centri. Anche il fraseggio è poco raffinato e se aggiungiamo una certa rigidità nei movimenti scenici, è evidente che il ruolo sia ancora acerbo. Va però riconosciuto che proprio tale schematismo interpretativo finisce per caratterizzare adeguatamente un personaggio che tradizione vorrebbe superficiale e con poche sfumature. Comunque nel duetto finale del primo atto Ribeiro riesce a trovare l’abbandono e il tono lirico necessario e anche “Addio fiorito asil” è sbozzato con accenti nel complesso soddisfacenti.
Pienamente convincente invece Simone Del Savio nella parte di Sharpless, interpretata con nobiltà di accenti e una notevole varietà di sfumature che risolvono il ruolo da un punto di vista quasi puramente vocale. Ovviamente sono necessari un ottimo controllo tecnico e un’intelligenza artistica notevole per caratterizzare così un personaggio: ma a Del Savio non difettano né l’uno né l’altra, dimostrando una volta di più, se fosse necessario, come l’arte del canto non consista nello sviluppare semplicemente il maggior volume possibile della propria voce. In particolare in un ruolo difficile, senza grandi espansioni melodiche e che si trova ovviamente a dover utilizzare una tavolozza forzatamente limitata nella gamma delle espressioni.
Alessandra Palomba disegna una Suzuki nel complesso accettabile, più interessante sul piano espressivo e meno su quello vocale e buona la prestazione di Gregory Bonfatti nella caratteristica parte di Goro, vero motore drammaturgico di tutto il primo atto.
Adeguati all’impegno dei loro ruoli anche Sara Rossini, Carmine Monaco, Manuel Pierattelli e Francesco Solinas, con una citazione particolare per il bel timbro vocale sfoggiato da Gianluca Margheri nella parte del principe Yamadori.
La direzione di Matteo Beltrami appare consapevole della raffinatezza della partitura e l’orchestra dell’Ente suona con gusto seguendolo con prontezza in agogiche fondamentalmente congrue con la tradizione consolidata. I fraseggi, le dinamiche e la flessibilità dei tempi appaiono generalmente prudenti, probabilmente per la necessità di imbastire nel pochissimo tempo delle prove un insieme accettabile. Dopo uno sfortunato esordio proprio nel fugato iniziale, l’orchestra è riuscita a esprimersi sui suoi consueti buoni livelli mentre il coordinamento col palcoscenico non è sempre stato impeccabile, specialmente nel primo atto, dove l’unica scena veramente d’insieme appariva confusa oltre che sul piano registico anche su quello musicale.
Il coro in Puccini, si sa, non trova molte soddisfazioni: con l’eccezione di Turandot nelle opere del compositore è sempre poco impegnato, spesso in scene d’insieme ricche di frammentari e brevi interventi coloristici. Madama Butterfly non fa eccezione e va a onore della corale Luigi Canepa, preparata da Luca Sirigu, essersi districata nello scomodo primo atto nonostante un insieme non a punto. Espressivo il celebre finale del secondo atto “a bocca chiusa”, efficace nonostante l’organico risicato concesso dalla produzione. Discreto il successo da parte del pubblico che, commosso dalla sorte della protagonista, ha applaudito alla fine un po’ tutti ma che nel complesso è apparso assai poco convinto dell’allestimento e anche vagamente annoiato. Foto Sebastiano Piras