Teatro Comunale – Stagione Lirica 2014
“LA SCALA DI SETA”
Farsa comica in un atto
Libretto di G. M. Foppa
Musica di Gioachino Rossini
Giulia CAROLINA LIPPO
Dorvil ENRICO IVIGLIA
Germano DAVIDE FERSINI
Blansac GIANLUCA MARGHERI
Lucilla FRANCESCA PIERPAOLI
Dormont MANUEL PIERATTELLI
Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Direttore Francesco Pasqualetti
Regia Bepi Morassi
Scene e costumi Accademia di Belle Arti di Venezia
Allestimento del Teatro La Fenice di Venezia
Sassari, 21 novembre 2014
Davvero la toppa è peggiore del buco? Non sempre, però il destino è spesso cinico e baro con chi è chiamato a mettere una pezza in una situazione non facile. È stato questo il caso de La scala di seta, allestita come terzo titolo nella stagione lirica sassarese dall’Ente Concerti de Carolis, in sostituzione della prevista Salomè. Difficile ovviamente per l’operina di Rossini soddisfare le attese degli appassionati, concentrate sul capolavoro straussiano: tuttavia era lecito attendersi almeno una miglior cura nella preparazione di un titolo che, per quanto minore, è stato evidentemente sottovalutato. Peccato, perché non mancavano i motivi d’interesse, a cominciare dalla prima esecuzione in città di un lavoro giovanile acerbo, in cui però è facile leggere le cifre stilistiche dell’artista più maturo. La scala di seta, definita “farsa comica in un atto”, fu scritta per il piccolo Teatro San Moisè di Venezia su libretto di Giuseppe Maria Foppa ed eseguita per la prima volta il 9 maggio 1812. Fa parte del gruppo similare di opere scritte in quel periodo dal compositore per lo stesso teatro: presto dimenticata, fu ripresa in epoca moderna grazie alla Rossini renaissance e, da allora, ha una certa presenza sui palcoscenici. Il macchinoso libretto, tra il solito campionario di tutori beffati, matrimoni combinati ed equivoci, fu giudicato stantio anche all’epoca: tuttavia riesce a riscattarsi dalle convenzioni del genere con un finale sicuramente più brioso e moderno del suo svolgimento. Interessante anche la concezione produttiva che sta alla base dell’allestimento originale, proveniente dal Teatro La Fenice di Venezia: è frutto di una locale collaborazione con l’Accademia di belle arti e con il Conservatorio di Musica Benedetto Marcello. La Fenice non è il primo ente lirico che con lungimiranza si apre a produzioni in comune con gli istituti di formazione artistica; fondamentale la possibilità per gli studenti di poter accedere a un tirocinio artistico di tale livello ed è superfluo rilevare i benefici che si possono trarre da collaborazioni simili, specialmente in tempi di riduzione della spesa pubblica per la cultura. Anche Sassari è una delle poche città d’Italia contemporaneamente sede di Conservatorio e Accademia: viste le costanti lamentele sui tagli dei contributi, il de Carolis potrebbe trarne ispirazione?
Il regista Bepi Morassi ha trasposto la vicenda apparentemente negli anni 30 del secolo scorso, ambientandola in un’atmosfera da night club, tra bulli, pupe e luci del varietà d’antan. Alcune cose funzionano, altre meno, ma il grosso merito registico sta nell’avere accuratamente evitato l’approccio realistico in favore di un’ironia surreale, fumettistica, ricca di citazioni e trovate spesso divertenti. A volte fin troppo ricca: la sovrabbondanza di situazioni e meccanismi scenici, non sempre originali, talvolta finisce per sovrapporsi e distrarre dai meccanismi della già contorta drammaturgia. Tra l’altro certi numeri, dove occorre un minimo di coordinamento tra i cantanti, avrebbero richiesto evidentemente un maggior numero di prove per essere a punto. Comunque lo spettacolo nel complesso funziona, grazie anche a un impianto scenografico colorato e ben illuminato, funzionale nel proporre una visione d’insieme attraverso pochi e indovinati luoghi deputati. Prima di tutto però quello rossiniano è fondamentalmente un teatro vocale: è soprattutto interessante notare quanto il ventenne compositore padroneggiasse già con disinvoltura l’utilizzo delle voci e il comparire degli stilemi che saranno sviluppati nelle sue opere più mature. Certamente è evidente la meccanicità di certe soluzioni o una generale rigidità cadenzale, ma l’irresistibile motricità nel finale della scena settima o l’espressione nell’aria di Dorvil “Vedrò qual sommo incanto” preludono già al Rossini migliore.
Il problema è che non ci troviamo di fronte a un’opera piccola, quindi più facile e accessibile rispetto ai capolavori della maturità: l’organico orchestrale è ridotto ma la scrittura è tutt’altro che agevole e, soprattutto, i personaggi richiedono una caratterizzazione vocale precisa, in nessun caso facilitata rispetto a quella tipica del belcantismo dell’epoca. In buona sostanza sarebbero stati necessari degli interpreti solidi, capaci di dominare una scrittura talvolta virtuosistica e stilisticamente vicini al repertorio. Purtroppo non è stato così, o lo è stato solo in parte. Ad aggravare la situazione un insieme buca – palcoscenico sconcertante: continue asincronie, imprecisioni, incidenti vari che sarebbero stati comprensibili solo in una prova.
Il direttore Francesco Pasqualetti ha avuto evidenti problemi, probabilmente per il poco tempo a disposizione, nel coordinare il tutto, pur davanti a difficoltà ritmiche tutt’altro che trascendentali. Pregevole come sempre la sicurezza tecnica degli orchestrali dell’Ente (una nota di merito agli interventi sicuri e puliti degli strumentini) ma anche nelle dinamiche piatte e nei fraseggi generici era evidente una fondamentale estraneità col palcoscenico. La parte di Giulia è stata interpretata da una corretta Carolina Lippo, ma la voce piccola, almeno per gli ampi spazi del Comunale, non le ha consentito le espansioni dinamiche necessarie per dare varietà alle proprie linee melodiche e rilievo al personaggio. Ha compensato con una certa vivacità attoriale, ma anche i recitativi apparivano nel complesso con poca elasticità nell’espressione. Non molto diverso il Dorvil di Enrico Iviglia, vocalmente evanescente e con un’impostazione poco gradevole; anche gli acuti erano forzati e disuguali rispetto al registro centrale, mentre i recitativi non erano incisi col dovuto risalto. Va detto però che ha mostrato almeno una certa consapevolezza stilistica e una buona espressione generale nel cantabile. Buona anche l’espressione di Davide Fersini, nella parte del servo Germano, che sia nei recitativi sia nei difficili articolati ha discretamente delineato il vero protagonista dell’opera. Il colore baritonale era bello e la vocalità nei centri ben proiettata, ma non è apparso del tutto adatto alla parte. Il ruolo, scritto per un basso buffo, non sembrava congruo col timbro e soprattutto con l’estensione dell’interprete: il registro grave è stato in pratica inesistente e anche quello acuto era in difficoltà nell’emissione e nelle colorature. Gianluca Margheri, a suo agio nella parte di Blansac, ha impostato bene, nel complesso, il personaggio più inverosimile dell’intreccio. La vocalità convincente e l’espressione l’hanno reso pienamente aderente al ruolo nei cantabili, mentre non sarebbe stata male una maggiore varietà d’accento nei recitativi. Affidabile anche Francesca Pierpaoli che ha disegnato una discreta Lucilla e altrettanto adeguato al ruolo è stato il Dormont di Manuel Pierattelli. Senza il solito titolo di richiamo, e nonostante la distribuzione di vari biglietti omaggio, il teatro comunale aveva solo la metà dei posti occupati: il pubblico nel complesso ha comunque apprezzato la rapida sintesi della vicenda e ha cortesemente applaudito con poche differenze tutti gli interpreti. Foto di Sebastiano Piras