Torino, Teatro Regio, Stagione d’opera e di balletto 2014-2015
“GIULIO CESARE”
Dramma per musica in tre atti
Libretto di Nicola Francesco Haym (da Giacomo Francesco Bussani)
Musica di Georg Friedrich Händel
Giulio Cesare, primo imperatore dei Romani SONIA PRINA
Cleopatra, regina d’Egitto JESSICA PRATT
Cornelia, moglie di Pompeo SARA MINGARDO
Sesto, figlio di Pompeo e Cornelia MAITE BEAUMONT
Tolomeo, re d’Egitto, fratello di Cleopatra JUD PERRY
Achilla, duce generale dell’armi e consigliere di Tolomeo GUIDO LOCONSOLO
Nireno, confidente di Cleopatra e Tolomeo RICCARDO ANGELO STRANO
Curio, tribuno di Roma ANTONIO ABETE
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Alessandro De Marchi
Regia e costumi Laurent Pelly
Regia ripresa da Laurie Feldman
Scene Chantal Thomas
Luci Joël Adam
Assistente alla regia Anna Maria Bruzzese
Assistente ai costumi Victoria James
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Allestimento Opéra national de Paris
Torino, 25 novembre 2014
Quando, nel settembre 1997, fu rappresentato per la prima volta a Torino il Tamerlano di Händel, nelle recensioni dello spettacolo si rilevava come il Teatro Regio non fosse per nulla adatto a ospitare l’opera barocca: immenso il boccascena, sconfinata la fossa orchestrale, sproporzionata la volumetria della sala rispetto al suono dell’orchestra e alle voci dei cantanti. Considerazioni che appaiono oggi davvero remote, specie dopo avere assistito a un’altra première händeliana a Torino, con il Giulio Cesare diretto da Alessandro De Marchi, nell’allestimento parigino (ma ideato a suo tempo proprio in Torino, come ormai si favoleggia) di Laurent Pelly. Il Teatro Regio, come qualunque spazio pensato e collaudato per il melodramma, non solo si rivela funzionale a una concessione d’opera barocca all’interno delle sue stagioni, ma può addirittura realizzare una vocazione specifica, in esame da parte dell’attuale direzione artistica dell’ente lirico piemontese. Perché il Tamerlano del 1997 aveva negato al Regio la legittimità di rappresentare il Settecento, mentre il Giulio Cesare di oggi gliela restituisce? La ragione è, evidentemente, nella differenza d’impostazione con cui resa sonora e allestimento sono concepiti. A proposito delle opere di Händel e della generale difficoltà di metterle in scena, ha sintetizzato con invidiabile lucidità Philip Gossett: «I registi hanno inventato nuovi modi di riportarle in vita, non decostruendole al modo dei tedeschi, ma trattando il loro intreccio narrativo con ironica distanza – collocando le vicende in ambientazioni sceniche fantasiose o adottando un delicato umorismo nei confronti dei loro intrecci complicati -, pur continuando a prendere sul serio le emozioni dei personaggi» (Dive e maestri, Milano 2009 [2006]). È precisamente l’atteggiamento interpretativo scelto e perseguito sia da De Marchi sia da Pelly.
L’autore del libretto (meglio sarebbe dire: colui che ha revisionato il testo di Giacomo Francesco Bussani, risalente al 1677 e scritto per la musica di Antonio Sartorio) ostenta sin dalle prime righe dell’Argomento la sua propensione filo-repubblicana: «Giulio Cesare dittatore, […] si portò con tant’impeto all’eccidio della libertà latina che si dimostrò più nemico di Roma che cittadino romano. Il senato intimorito, per opprimer la sua potenza, opposegli il gran Pompeo». A un’attenta lettura del testo, dunque, il protagonista positivo non è tanto Cesare (anche a dispetto del titolo), quanto colei che riesce a sedurlo e a farlo innamorare di sé, Cleopatra. Cesare rappresenta l’ambizione sfrenata di potere (dittatore), Cleopatra la femme fatale in grado di modificare i progetti personalistici del dittatore a suo vantaggio (sulle sue bellezze molto insiste il librettista); questo il nocciolo dell’azione teatrale, questo il difficile rapporto da rendere al di là dell’inesausto splendore della musica. Il resto, ossia le disquisizioni su come impostare la regia dell’opera barocca, se in termini più tradizionali o innovativi, se con più o meno grandeur scenica, e così via, sono soltanto chiacchiere generiche. Riesce l’allestimento parigino a differenziare i personaggi e a farli interagire sulla base degli affetti contrapposti che testo e musica suggeriscono? Certamente sì, grazie alla regia studiatissima e all’accurata lettura delle indicazioni testuali.
Dopo il coro di apertura, due soli ottonari costituiscono la prima aria del protagonista («Presti omai l’egizia terra / le sue palme al vincitor!»). Il primo verso recitativo, che subito segue, è un bell’endecasillabo dall’inevitabile sapore citazionistico: «Curio, Cesare venne, e vide e vinse»; esso si deve a Bussani, e non rimanda soltanto alle fonti canoniche (Plut. Caes. 50, 6; Suet. I 37), ma anche al più recente e celebre (nonché manzoniano) sonetto di Claudio Achillini, Sudate, o fochi, a preparar metalli, scritto a elogio di Luigi XIII in occasione dell’assedio di Casale Monferrato del 1629. La terzina finale del sonetto è impagabile: «Ceda le palme pur Roma a Parigi: / ché se Cesare venne e vide e vinse, / venne, vinse e non vide il gran Luigi». Le palme della vittoria e la brachilogia già esaltata da Plutarco (Veni, vidi, vici) rendono dunque ragione di un libretto molto raffinato, tutto letterario e allusivo (a dispetto di quel che si scrive superficialmente sui testi del teatro musicale di tutti i tempi).
Ottimo e convincente il lavoro svolto da uno specialista come De Marchi con un’Orchestra, quella del Regio, che invece non è abituata al repertorio del Settecento: la concertazione è molto accurata, dall’inizio alla fine delle quasi quattro ore di musica, anche grazie a un gesto direttoriale misurato e preciso. Equilibrio dei volumi sonori, ricerca dei colori strumentali, studio del ritmo sono i valori più perseguiti; il direttore non è freddamente metronomico, anche se concede poche variazioni interne ai singoli tempi. Certo, a volte si pretenderebbe più polpa orchestrale (specie da una compagine come quella del Regio), mentre De Marchi resta fedele a un impianto complessivamente sobrio. Si mentirebbe, per esempio, a definire il suono terso o scintillante; esso è però bello perché schietto, appassionato, sempre coerente; e l’Orchestra del Regio fornisce una prova di straordinaria duttilità ed espressività.
Con le trenta arie distribuite ai sette personaggi, il Giulio Cesare è ovviamente un’opera affidata in primo luogo alle voci del belcanto. Sonia Prina è il contralto che interpreta l’impervio ruolo protagonistico (scritto nel 1724 per il castrato Francesco Bernardi, il celebre Senesino): grande professionista, si accosta nel modo più corretto possibile alla parte, e bisogna dire che fa anche troppo per sostenerne il peso. All’inizio la voce è fredda, priva di armonici, leggera e corta nei fiati; ed è un peccato, perché note basse e registro centrale sono solidi. Più acuto è il virtuosismo delle arie del I atto, più evidenti si fanno i difetti vocali (anche di intonazione), mentre riescono meglio le arie riflessive ed elegiache (come «Alma del gran Pompeo», la famosa «Va tacito e nascosto», pure nel I atto, o meglio ancora «Aure, deh, per pietà», nel III). È un Cesare in sedicesimo, quello della Prina, ma indubbiamente simpatetico; buon commilitone, stordito dalle generose curve di Cleopatra, più che marziale dittatore come suggerito dal libretto.
Jessica Pratt è la vera protagonista vocale dell’opera, molto convincente sia sotto il profilo attoriale sia sotto quello belcantistico: prima di tutto si differenzia molto bene nell’appeal e nella recitazione dal debosciato fratello Tolomeo. Ma da quando compare sulla scena, il personaggio di Cleopatra è sottoposto a un crescente sovraccarico di arie di ogni tipologia (di furore, di tempesta, di seduzione, di ribellione, di disperazione), cui non sempre l’arte della Pratt corrisponde appieno: nel I atto sembra avere una voce piccola rispetto alla parte (forse risparmia energia per II e III atto), e stancarsi nel corso delle agilità (non prive di qualche difetto di intonazione); nei momenti più lirici e musicalmente suadenti la voce del soprano è invece più a suo agio, si dispiega meglio, come in «Venere bella, / per un istante» del II atto (in cui si produce in un pregevole trillo), o in «Se pietà di me non senti» (brano privo di gorgheggi, che però la Pratt vuole concludere con puntatura sovracuta, al solito un poco stridula). Il numero più applaudito della serata è l’aria forse più bella dell’intera partitura, «Da tempeste il legno infranto», che è anche l’ultima di Cleopatra: è, in effetti, il fastigio della coloratura, che la Pratt riesce a porgere nel migliore dei modi.
La parte di Cornelia, come quella di Cesare, è affidata a un contralto, Sara Mingardo, le cui caratteristiche sono opposte a quelle della Prina: voce calda, anche se piccola, con buoni armonici, soprattutto espressiva nei momenti dolenti (che costituiscono la quasi totalità del ruolo): «Nel tuo seno, amico sasso», allorché Cornelia compiange l’urna funebre dell’assassinato sposo Pompeo, è uno dei momenti più belli di tutta l’opera, grazie all’intensità della Mingardo e dell’orchestra, entrambe tese al massimo.
Sesto è invece un mezzosoprano, Maite Beaumont, spagnola ma di formazione anche tedesca, che sintetizza bene la tipica voce dedita al repertorio barocco e neoclassico: agile, spigliata, molto corretta, piuttosto povera di colori, non certo prodiga di variazioni e di abbellimenti; il suo momento migliore è nel finale I, in duetto con la Mingardo.
Due sono i controtenori della compagnia: Jud Perry nel ruolo di Tolomeo e Riccardo Angelo Strano in quello di Nireno. Il primo realizza bene la parte dell’antagonista dal punto di vista attoriale, mentre vocalmente risulta debole (e anche un po’ stucchevole). Il secondo è ancora più convincente, nel corso dell’intreccio, quale attore “aiutante” positivo, e di Cleopatra e di Cornelia, ma i portamenti e i continui difetti d’intonazione inficiano quasi tutta la sua prestazione vocale. Ancora più deludente, perché peggiora via via, il baritono Guido Loconsolo nella parte di Achilla. Corretto nella sua austerità l’altro basso, Antonio Abete, nel ruolo di Curio (peccato che non sia prevista neppure un’aria per lui, ma solo interventi recitativi).
Il coro del Teatro Regio, istruito da Claudio Fenoglio, compare praticamente soltanto all’inizio dell’opera, e fa risuonare le acclamazioni a Cesare dal fondo della buca orchestrale.
Va registrato, prima ancora della disamina registica, il grande successo per tutti gli interpreti musicali: trionfo per il direttore De Marchi sin da quando ritorna sul podio, prima dell’inizio del III atto; e alla fine per tutti (e quasi unanime, se si eccettuano sparute voci discordi al termine dell’uscita dei protagonisti). Ma certamente il Giulio Cesare di Händel, per la prima volta eseguito a Torino (pare incredibile!) ha riscosso grande successo anche grazie all’intelligente spettacolo ideato dal regista. L’idea di fondo di Pelly riguarda l’ambientazione dell’opera: i magazzini di un museo egizio, probabilmente quello del Cairo, con i personaggi antichi che riemergono da teche e scaffalature, tra reperti e vestigia, e cantano in mezzo a custodi, inservienti, maestranze di conservatori. Niente polvere e nessuna mummia: per l’Egitto oleografico, di sfingi e fregi di geroglifici, non è spazio alcuno. Lo spettacolo di Pelly funziona perfettamente perché, comunque, non tradisce un’esigenza di base del Giulio Cesare (non del melodramma barocco in generale, ma di quest’opera in particolare): la monumentalità. Il libretto di Haym, come si è già osservato, non intende affatto esaltare Cesare, ma le capacità seduttive di Cleopatra, e la grandiosità della regina d’Egitto. Anche nei suoi sotterranei, anche nel buio degli anditi più riposti, lo spazio del museo resta pur sempre imponente, perché destinato ad accogliere i monumenti. Che poi si risponda alle accuse di polverosità dell’opera e ad altri pregiudizi del genere ambientando il melodramma proprio nei magazzini di un museo, è autentica e finissima provocazione, sobria, arguta, e soprattutto bene realizzata da Pelly (e da Chantal Thomas, cui si devono le scene). La presenza più significativa è infatti quella dell’opera d’arte: anziché il capo mozzato di Pompeo, per esempio, nel I atto è introdotto, sospeso a un pallet stacker, un’enorme riproduzione del ritratto di Pompeo conservato alla Ny Carlsberg Glyptothek di Copenaghen.
Certamente Pelly evita un’incongruenza forte, ossia che il gruppo dei personaggi cantanti e il manipolo di custodi del museo non comunichino tra loro, perché altrimenti Cesare, Cleopatra, Cornelia e gli altri sarebbero soltanto fantasmi, aleggianti in bui depositi. Invece il personale maschile subisce il fascino della regina d’Egitto, diventa “collaboratore” dell’intreccio, contribuendo alla coerenza di tutta la rappresentazione. La cui articolazione segue con scrupolo la divisione in tre atti dell’originale: se il I esalta statue di grandi dimensioni, il II costruisce una quadreria barocca di dipinti mobili che fa da sfondo alla scena di seduzione in Parnaso, con il concertino sul palcoscenico. Sfilano i quadri di Cabanel e di Gérôme e i paesaggi orientali, ma quando Cesare canta «Se in fiorito ameno prato / l’augellin tra fiori e fronde / si nasconde, / fa più grato / il suo cantar», compare in scena il grande ritratto di Händel eseguito da Thomas Hudson nel 1749 (ora all’Hamburger Stadtbibliothek). Ai versi «fa più grato il suo cantar», Cesare indica sorridente il volto del compositore: è il momento più raffinato e felice di tutto lo spettacolo. Dopo le statue e i quadri, nel III atto è la volta dei tappeti orientali, che ricoprono tutto, dagli scaffali alle teche; ma non è mancanza d’immaginazione, perché nell’ultima scena, quando il magazzino sembra diventato un molo portuale, con la vela della nave di Cesare sullo sfondo, Cleopatra fa capolino sana e salva, e raggiunge l’amato avvolta in un tappeto (per un attimo Jessica Pratt è novella Lyz Taylor, giusta le versione hollywoodiana del famoso racconto plutarchiano).
Con il Giulio Cesare il Teatro Regio di Torino ha compiuto una scelta coraggiosa e vincente: da tempo in Italia si attende un’innovazione nella confezione del repertorio, nelle abitudini del pubblico, insomma nell’educazione artistica e musicale; almeno da quando Eugenio Montale, recensendo appunto un Giulio Cesare dato alla Scala nel 1956 (Gianandrea Gavazzeni dirigeva; la coppia Nicola Rossi Lemeni e Virginia Zeani dava voce ai protagonisti), apriva il pezzo con una considerazione di ordine generale: «Se non esistesse la musica dell’età barocca – musica onnivora, che tende a fagocitare le altre arti – maggior credito avrebbe l’ipotesi, più volte affacciata, che la musica sia un’arte secondaria, minore». Con De Marchi e Pelly che le danno suono, forma e vita, la musica barocca esiste in tutta la sua lussureggiante pienezza.