“Švanda dudák” al Teatro Massimo di Palermo

Teatro Massimo di Palermo – Stagione Lirica 2014
“ŠVANDA DUDÁK”
Volksoper in due atti
Libretto di Miloš Kareš liberamente tratto dal dramma fiabesco Strakonický dudák aneb Hody divých žen di Josef Kajetán Tyl
Editore proprietario Boosey & Hawkes, London
Rappresentante per l’Italia Casa Ricordi srl, Milano
Musica di Jaromír Weinberger
Švanda PAVOL KUBÁŇ
Dorotka MARJORIE OWENS
Babinský L’UDOVÍT LUDHA
La Regina Cuordighiaccio ANNA MARIA CHIURI
Lo Stregone ROBERTO ABBONDANZA
Il Giudice, Luogotenente dell’inferno e Primo Lanzichenecco ALFIO MARLETTA
Il Boia e Famulo del Diavolo TIMOTHY OLIVER
Il Diavolo MICHAEL EDER
Secondo Lanzichenecco GIANFRANCO GIORDANO
Orchestra, Coro e Corpo di ballo del Teatro Massimo
Direttore Mikhail Agrest
Maestro del Coro Piero Monti
Regia Axel Köhler
Scene Arne Walther
Costumi Henrike Bromber
Coreografo e assistente del regista Gaetano Posterino
Luci Fabio Antoci
Allestimento della Semperoper di Dresda
Palermo, 19 ottobre 2014
Da diversi anni il Teatro Massimo di Palermo sta sviluppando una lodevole politica culturale rivolta alla esplorazione di luoghi e momenti della storia del teatro musicale poco noti e di raro ascolto, ma pure meritevoli di attenzione. Dal 2005 abbiamo potuto ascoltare Król Ròger (Re Ruggero) di Szymanowski, Genoveva di Schumann, Medea di Cherubini, Mefistofele di Boito, Z mrtvého domu (Da una casa di morti) di Janáček, Die tote Stadt di Korngold, Die Gezeichneten di Schreker, The Greek Passion di Martinů, Der König Kandaules, di Zemlinsky, Feuersnot di Strauss all’inizio di quest’anno, e ora finalmente questo Švanda dudák (Švanda il suonatore di cornamusa) di Jaromír Weinberger.
Confessiamo che siamo arrivati all’appuntamento con Švanda dudák un poco sospettosi: certo per nostra ignoranza, ma questo Weinberger non l’avevamo mai nemmen sentito nominare; e cosa avrà mai da dirci quest’altro compositore venuto fuori dalla mitteleuropa fin de siècle? Ebbene, dobbiamo rimangiarci i nostri sospetti! Švanda dudák è un’opera de-li-zio-sa, rilucente di tutta la serena levità di una favola disimpegnata. Aveva anche conosciuto uno straordinario successo (più di 2000 rappresentazioni da Buenos Aires a Tokyo e traduzioni in tedesco, ungherese, spagnolo, italiano, turco e un’altra dozzina di lingue a partire dalla prima andata in scena a Praga nel 1927) fino a quando, con la tragica ascesa al potere dei nazionalsocialisti e la loro scellerata politica culturale (per tacer del resto), l’esecuzione delle opere di Weinberger non fu proibita a causa dell’origine cecoslovacca ed ebraica del compositore, costringendo Weinberger a rifugiarsi negli Stati Uniti (mentre i genitori e la sorella gemella finiranno deportati in un lager) dove nel 1967, forse sopraffatto dalla nostalgia per l’irrimediabilmente perduto «mondo di ieri», pose fine ai suoi giorni con un’overdose di sedativi: un’altra fra le molte vittime postume (Stefan Zweig, Paul Celan, Primo Levi solo per citare le prime che vengono alla mente) dell’orrore della guerra e dell’olocausto.
Ma nel 1926, quando Weinberger aveva vent’anni e completava Švanda dudák, tutto questo era ancora lontano.
Aveva studiato composizione al conservatorio di Praga, tra gli altri con Vitězlav Novák (un allievo di Dvořák), e si era poi perfezionato a Lipsia con Max Reger. Dopo alcune peregrinazioni e varie occupazioni musicali (dal conservatorio di Ithaca nello stato di New York, al teatro Nazionale Slovacco di Bratislava, alla scuola di musica di Eger in Ungheria) aveva deciso di stabilirsi a Praga e di dedicarsi esclusivamente alla composizione. Švanda dudák è la sua prima opera di teatro musicale.
Il 27 aprile del 1927 la prima rappresentazione dell’opera a Praga ricevette solo una modesta accoglienza, ma quella sera in sala vi era pure Max Brod. Scrittore, compositore, intellettuale attento e sensibilissimo, amico e biografo di Kafka (a lui dobbiamo la salvezza di molta parte della sua opera), mentore di Janáček (il suo contributo al successo internazionale di Jenůfa è stato determinante), Brod era un estimatore di Weinberger già dal 1919. È grazie al suo entusiasmo e alle sue pressioni che Švanda dudák, in una nuova traduzione tedesca da lui curata e con una riorganizzazione della struttura interna delle scene, venne pubblicata dalla Universal Edition di Vienna, fu quindi ripresa a Breslau in Polonia, poi al Teatro dell’Opera di Monaco, e di lì cominciò il suo viaggio intorno al mondo.
Weinberger è dunque della generazione dei Viktor Ullmann, Erich Korngold, Ervín Schulhoff, Berthold Goldschmidt, Ernst Krenek. Ma se la sua orchestra possiede tutta la ricchezza di colori del tardo romanticismo post-straussiano e post-mahleriano, non troverete in essa le contorsioni armoniche e le tortuosità melodiche di quelli, ché la smagliante orchestra di Švanda è invece ariosa e tutta trapunta di luce, anche se non mancano le tinte corrusche e i toni acidi, come nella scena della decapitazione di Švanda nel terzo quadro del primo atto, o in quella della partita a carte col diavolo nel quarto quadro del secondo atto (e un amico, che ha masticato molta musica nella sua vita e non si spaventa né davanti all’Orfeo di Monteverdi, né davanti a Intolleranza 1960 di Luigi Nono, mi ha chiesto nell’intervallo: «Ma è un’opera dell’Ottocento?» – «No, è del 1927.» – «Ah! Ma meglio questa comunque di molti mattoni tardo-romantici.»)
L’opera si svolge tra due poli: la tentazione dell’avventura nel vasto mondo e il conforto dell’intimo focolare domestico. Il contadino Švanda, novello sposo di Dorotka, è noto in tutto il paese per la sua eccezionale abilità nel suonare la cornamusa. Chiunque lo ascolti viene conquistato da una irrefrenabile gioia. Babinský, ladro e avventuriero convince Švanda a lasciare Dorotka (non senza secondi fini nei confronti di Dorotka) e a seguirlo alla conquista del mondo attraverso le sue capacità musicali. La prima tappa è il regno della Regina Cuordighiaccio dove l’incantesimo di un malefico Stregone ha soppresso ogni gioia. La trascinante musica di Švanda distrugge l’incantesimo e fa innamorare la Regina che all’istante vuole sposarlo. Švanda esita ma poi cede alle offerte della regina fin quando non arriva Dorotka a riaccendere il suo amore. La Regina delusa decreta la condanna a morte dei due innamorati, ma l’intervento provvidenziale di Babinský li salva. Nel successivo battibecco tra i due sposi Švanda spergiura sul diavolo di non aver mai baciato la Regina e in quel momento egli sprofonda direttamente all’inferno. Qui troviamo un Diavolo disperato per la noia, che cerca ripetutamente di convincere Švanda a suonare per rallegrare la vita dell’inferno. Švanda però, in preda alla nostalgia per Dorotka, non vuole saperne di suonare finché il Diavolo con un inganno gli ruba l’anima per costringerlo a obbedire. Ancora una volta il provvidenziale intervento di Babinský salva la situazione, riscatta l’anima di Švanda e lo riporta finalmente a casa.
La prova dei cantanti è stata nel complesso soddisfacente. Il giovane baritono slovacco Pavol Kubáň era un buon Švanda, convincente sia vocalmente che scenicamente. Un po’ affaticato ci è sembrato invece il Babinský del suo compatriota L’udovít Ludha che però aveva una efficace verve attoriale. Il soprano americano Marjorie Owens nella parte di Dorotka ha una bella voce rotonda, forse ogni tanto esitante nell’emissione. Buona la prova del mezzosoprano Anna Maria Chiuri nella parte della regina Cuordighiaccio, che ha saputo modulare il tono espressivo della sua voce dall’algore iniziale, allo slancio amoroso per Švanda, fino a una malinconica mezza voce dopo la sua delusione amorosa. La parte dello Stregone era affidata all’ottimo baritono Roberto Abbondanza, dalla voce ben timbrata e penetrante, che ci ha regalato forse la prova più convincente della serata. Un buon Diavolo è stato anche Michael Eder, forse di voce meno grande, ma pure di un bel tono caldo. Timothy Oliver nella parte del Famulo ha rivelato strepitose capacità attoriali. Efficaci nel loro ruolo anche i comprimari Alfio Marletta e Gianfranco Giordano.
L’allestimento della Semperoper di Dresda è scenograficamente bellissimo. Bella la regia di Axel Köhler, piena di brio e fantasia (qualche sbavatura c’è stata forse con un high five tra il Famulo del Diavolo e il Custode delle chiavi, con gli accendini usati dal coro di spiriti infernali per invitare Švanda a suonare la sua cornamusa, con lo scalpiccìo dei danzatori che troppo rigidamente segnava il ritmo all’inizio della fuga del secondo atto). Efficacissime le scene di Arne Walther in ottima sintonia con lo spettacolare apparato illuminotecnico di Fabio Antoci. Belli i costumi di Henrike Bromber (che hanno pure vinto il premio di Opernwelt per la categoria “Riscoperta” nella stagione 2011/12). Splendide le scene coreografiche corali di Gaetano Posterino.
Mikhail Agrest dirige con piglio energico sin dall’attacco della grande Ouverture, ottenendo una buona prova dall’orchestra del Teatro Massimo che tira fuori dalla turgida orchestrazione di Weinberger tutti i suoi colori e i molti intrecci contrappuntistici. Anche il coro, diretto da Piero Monti, è stato efficace e ha avuto dei momenti intensamente espressivi.
Il colpo di scena registico finale (che non vi sveleremo) è stato, da un punto di vista sonico, riuscitissimo ed emozionante.
Il pubblico, ingiustamente poco numeroso è uscito però soddisfatto, e scendendo dalla scalinata del teatro si poteva sentire anche qualcuno che fischiettava i motivi dell’opera appena finita. Si può voler bene a Švanda.