Richard Strauss (Monaco di Baviera 1864 – Garmisch-Partenkirchen 1949)
Die schweigsame Frau (La donna silenziosa) op. 80, Komische Oper in tre atti su libretto di Stefan Zweig tratto dalla commedia “Epicoene, or the silent woman” di Ben Jonson
Prima rappresentazione: Dresda, Staatsoper, 24 giugno 1935.
“Dopo la morte del fedele e geniale Hugo von Hofmannsthal dovetti ammettere con rassegnazione che la mia produzione operistica si era conclusa… Hofmannsthal è stato l’unico poeta che oltre a forza poetica e talento scenico possedesse quel grado d’immedesimazione capace d’offrire a un compositore opere teatrali musicabili, di scrivere insomma un libretto adatto alla scena, di notevole valore letterario e, non meno, che si prestasse alla musica. Io ho fatto l’occhiolino ai migliori poeti tedeschi, perfino a D’Annunzio, e sono entrato in trattative con loro (ripetutamente con G. Hauptmann); ma in cinquant’anni ho trovato solo il meraviglioso Hofmannsthal. Egli non possedeva solo inventiva per soggetti musicali; sebbene poco musicale e, come Goethe, dotato solo di intuizione, egli aveva una sagacia davvero prodigiosa per ciò che rispondeva alle mie esigenze”.
Se la morte del meraviglioso Hofmannsthal, avvenuta il 15 luglio 1929, sembrava aver posto fine alla sua carriera di operista, i tarlo del teatro, tuttavia, continuava a roderlo tanto da spingere Strauss a rivolgersi ai migliori poeti tedeschi e perfino a D’Annunzio senza alcun esito positivo. Dopo due anni di infruttuosa ricerca, nel 1931 Strauss incontrò il suo nuovo librettista in circostanze del tutto casuali; quell’anno, infatti, ricevette per caso la visita dell’editore Anton Kippenberg, diretto a Salisburgo per incontrare lo scrittore Stefan Zweig, del quale il compositore aveva avuto modo di vedere a Vienna la versione moderna del Volpone di Ben Jonson e la divertentissima commedia L’agnello moderno.
Senza particolare convinzione Strauss, allora, disse, quasi per celia, a Kippenberg di chiedere a Zweig se aveva un soggetto da proporgli per una nuova opera; lusingato da questa proposta, Zweig non perse tempo e rispose subito con una lettera, nella quale affermava di avere alcune interessanti idee per dei soggetti che, tuttavia, non aveva osato proporgli forse per una forma di rispetto nei confronti del grande compositore. Fu lo stesso Zweig, nel suo libro di memorie, Il mondo di ieri, a raccontare con una certa dovizia di particolari la collaborazione con Strauss, iniziata dopo un incontro a Monaco avvenuto il 20 novembre 1931:
“Mi dichiarai pronto e subito al primo incontro proposi a Strauss di scegliere ad argomento di opera il tema «The silent woman» di Ben Jonson e fu una grata sorpresa per me vedere con quanta rapidità e limpidezza Strauss accolse tutte le mie proposte. Non avrei mai supposto in lui una così pronta intelligenza artistica ed una cosi stupefacente conoscenza drammaturgica.
Mentre gli stavo raccontando l’argomento egli lo plasmava drammaticamente e lo adattava anche subito, il che era ancora più straordinario, ai limiti della sua capacità creativa, di cui si rendeva conto con una chiaroveggenza quasi spaventosa. Ho conosciuto molti grandi artisti in vita mia, mai però uno che sapesse conservare in modo cosi astratto ed indefettibile l’oggettività di fronte a se stesso. Subito al primo colloquio, Strauss mi confessò apertamente di sapere benissimo come un musicista a settant’anni non possegga più l’energia originaria dell’ispirazione. Non gli sarebbero più riuscite opere sinfoniche come «Till Eulenspiegel» oppure «Morte e trasfgurazione», giacché appunto la musica pura esige un massimo di freschezza creativa.
Però la parola valeva ancor sempre ad ispirarlo. Si sentiva in grado di illustrare drammaticamente una sostanza già preesistente, perché dalle situazioni e dalle parole si sviluppavano in lui spontaneamente temi musicali: per questo si era dato ormai, nei suoi tardi anni, in modo esclusivo all’opera. Sapeva anche benissimo che l’opera è in fondo forma artistica superata. Wagner è tale vetta, che nessuno può andare al di là. «Però», aggiungeva con la sua ampia risata bavarica, «io me la son cavata facendogli un giro attorno. «A me non vengono in mente melodie lunghe come quelle di Mozart. Io non arrivo che a temi brevi, ma quel che so fare, è voltare e parafrasare poi un tema, cavandone tutto quanto contiene, e credo che in questo oggi nessuno mi superi.» Rimasi ancora una volta stupefatto da tanta sincerità, giacché è vero che in Strauss non si trovano quasi mai melodie che vadano oltre un paio di battute; ma con quanta perfezione e pienezza vengono poi – come nel valzer del «Cavaliere della rosa» – elaborate e sfruttate quelle poche battute! Ad ogni nuovo incontro dovevo ammirare la sicurezza e l’oggettività con cui il vecchio maestro si poneva di fronte a se stesso nella propria opera […]Non lo interessava troppo invece sapere quanto gli altri significassero in paragone a lui, ed ancor meno come lo giudicassero gli altri. Quel che gli dava gioia era il lavoro in sé.
Questo «lavorare» è un singolare processo in Richard Strauss. Nulla di demoniaco in lui, non conosce il raptus dell’artista, non le depressioni e le disperazioni note attraverso la biografia di Beethoven o di Wagner. Strauss lavora con calma e freddezza, compone – al pari di Johann Sebastian Bach e di tutti i sublimi artigiani della loro arte – calmo e regolare” (S. Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Mondadori, Milano, pp. 294-295)
Nel mese di giugno del 1932 Zweig consegnò l’abbozzo del libretto di Die schweigsame Frau (La donna silenziosa), tratto dalla commedia Epicoene, or the silent woman di Ben Jonson, il cui soggetto è simile al Don Pasquale di Donizetti; il libretto fu accolto con entusiasmo da Strauss che, pienamente soddisfatto del lavoro del suo poeta, ricevuto anche il testo dell’ultimo atto, il 24 gennaio 1934, lo ringraziò riprendendo i versi di un vecchio Lied che recitavano: “Sì, l’averti trovata, mia dolce creatura, fa lieto ogni giorno che a me sia concesso”.
L’opera, completata il 20 ottobre 1934 con una certa rapidità e soprattutto senza che Strauss chiedesse a Zweig alcuna modifica al libretto, andò in scena per la prima volta a Dresda il 24 giugno 1935 sotto la direzione di Karl Böhm con Maria Cebotari (Aminta), Friedrich Plaschke (Sir Morosus), Martin Kremer (Henry Morosus), Mathieu Ahlersmeyer (Barbiere), Kurt Böhme (VanuzzI), Erna Sack (Isotta), Ludwig Ermold (Farfallo); l’opera, tuttavia, fu accolta con una certa freddezza dovuta anche a ragioni di natura politica e razziale, in quanto Zweig fu colpito dall’antisemitismo del Reich che pretese la cancellazione del suo nome dai manifesti.
La stessa opera, del resto, fu cancellata dal cartellone alla terza replica e a Strauss fu tolta la presidenza del Reichsmusikkammer; gli era stata intercettata, infatti, dalla Gestapo una lettera indirizzata a Zweig in cui il compositore criticava l’antisemitismo affermando che non era importante a quale razza appartenesse il pubblico che pagava, quanto che comprendesse l’arte occidentale. Una certa tensione tra Germania e Italia e un tentativo, quindi, di fare un dispetto ad Hitler furono probabilmente alla base della decisione di mettere in scena l’opera alla Scala nel 1936 sotto la direzione di Gino Marinuzzi, fervente ammiratore di Strauss. In quest’occasione l’opera non riscosse un grande successo presso il pubblico, nonostante gli apprezzamenti da parte della critica.
Sul piano drammaturgico l’opera appariva troppo lunga e lo stesso Zweig notò, già subito dopo la prima, che la sua eccessiva lunghezza era ad essa di nocumento:
“Essa è ben troppo lunga e pazzamente difficile, proprio il contrario di quello che avevo sognato: non un’opera leggera, ma gravata di tutte le raffinatezze e quasi opprimente per la sua ricchezza”.
In virtù di queste considerazioni Böhm, riprendendo l’opera nel 1959 a Salisburgo, apportò dei tagli e Die schweigsame Frau si è affermata in una versione abbreviata.
Atto primo
L’opera è introdotta da un breve e brillante brano sinfonico intitolato Potpourri, in quanto costruito con alcuni dei suoi temi principali in una scrittura giocosa che fa dell’ambiguità ritmica tra il ¾ e il 6/8 il suo elemento fondante. In ¾ è il semplice moto perpetuo introdotto dal corno che intona un tema del terzo atto, mentre in 6/8 è il giocoso, quasi rossiniano tema, affidato ai primi violini.
Intorno al 1760 Sir Morosus (basso) , un vecchio capitano in pensione che odia ogni forma di rumore dopo essere sopravvissuto ad una paurosa esplosione avvenuta nella nave da lui comandata, vive nella sua casa situata in un sobborgo di Londra insieme con la sua governante (contralto), eccessivamente ciarliera. Nella scena iniziale, tutta giocata su uno dei brillanti temi già uditi nell’ouverture Potpourri, la donna apre la porta al Barbiere (baritono) con il quale ha un violento battibecco, ben sostenuto dalla brillante, leggera e onomatopeica orchestra. L’uomo, infatti, si prende gioco della governante che vorrebbe il suo l’aiuto per indurre Sir Morosus a sposarla. Il vecchio capitano, svegliato dall’alterco, entra in scena lanciando invettive, di origine marinaresca, contro la donna (Da eine in deine Takelage). Rimasti soli, i due uomini, in uno stile discorsivo al quale non sono estranee alcune interessanti incursioni nel parlato, discutono del matrimonio; il Barbiere tesse le lodi della vita coniugale accompagnato sempre da una scrittura leggera mentre Sir Morosus, appesantito e imbrigliato sia da temi che tendono al parlato sia da un accompagnamento orchestrale grottesco, afferma la sua contrarietà. Il Barbiere, al quale Strauss affida una deliziosa arietta (Es wird abend) che si segnala per un accompagnamento orchestrale leggero grazie anche all’uso dei legni, propone al suo interlocutore di sposare una donna silenziosa. Da parte sua anche Sir Morosus mostra di sapersi abbandonare a momenti di lirismo quali l’aria Irgenwen zu wissen in ¾, che ricorda il tema iniziale del corno del Potpourri, accompagnata dai soli archi in una scrittura omoritmica. In questa lunga scena c’è spazio anche per una Canzone affidata ad entrambi i personaggi (Mädchen nur), nella quale alla proposta del Barbiere di prendere moglie, Morosus risponde in modo negativo adducendo come scusa la sua vecchiaia.
Proprio quando l’uomo sembra quasi convinto dalle argomentazioni in favore del matrimonio addotte dal Barbiere, giunge Henry (tenore), nipote carissimo di Morosus da lui creduto morto e che riabbraccia con gioia. Le sorprese per Morosus non sono finite dal momento che l’anziano capitano apprende che il nipote, abbandonati gli studi, si è unito a una compagnia teatrale diretta da Cesare Vanuzzi; l’uomo non comprende subito che si tratta di una compagnia teatrale anche perché la parola «Truppen» può anche significare truppe e, ritenendo che il nipote si sia arruolato nell’esercito, si abbandona a una grottesca marcia. La sua gioia si tramuta in ira quando Henry svela l’equivoco aggiungendo di aver sposato una giovane attrice, Aminta (soprano); Morosus, dopo un breve concertato a cui partecipano gli altri attori della compagnia, caccia tutti non prima di aver ordinato al Barbiere di procurargli una sposina per l’indomani stesso in modo da diseredare lo snaturato nipote. Gli artisti, da parte loro, offesi, durante il concertato inveiscono contro Morosus accusandolo di essere arrogante. Il Barbiere, allora, trama insieme con gli artisti una vendetta ai danni di Morosus che intende beffare inscenando un finto matrimonio capace di sconvolgerlo al punto tale da perdonare il nipote. Nella scena si possono riscontrare momenti di soave e piacevole lirismo come: la canzoncina del Barbiere Da unten im keller, dalla quale hanno origine una serie di pezzi d’assieme; il tenero duettino tra Aminta ed Henry (Nicht an mich) e, infine, una stilizzata arietta settecentesca di Isotta, una delle attrici della compagnia (Ich würde lachen). Il Finale, aperto da Henry (Ja das wollen), è una pagina brillante di elevata fattura contrappuntistica nella quale ritornano i disegni in semicrome già uditi nel Potpourri.
Atto secondo
Un grottesco tema di Minuetto, falsamente elegante e stilizzato, introduce la scena iniziale dell’atto secondo durante la quale la governante veste in abiti da festa Morosus. Giunge il Barbiere che rassicura l’anziano capitano sul fatto che sta curando i dettagli delle nozze; a tale fine vengono presentate tre fanciulle, tutte attrici della compagnia. Per prima viene presentata Carlotta (mezzosoprano) che finge di essere Katherine, una semplice paesana, dalla quale Morosus non appare particolarmente colpito. Anche Isotta (soprano), la seconda fanciulla, che recita la parte di una nobildonna ben educata producendosi in un virtuosistico a solo in Prestissimo (Wie soll ich), non colpisce particolarmente Morosus che, anzi, appare insospettito dalla capacità della donna di suonare il liuto. Infine, Aminta, presentata sotto il falso nome di Timidia, accompagnata, dal discreto timbro dei legni (clarinetto e fagotto) prima e dal clarinetto e dagli archi (viole e violoncelli che si alternano) dopo, desta una certa impressione nell’anziano capitano grazie al suo comportamento pudico che, tuttavia, non le impedisce anche di prodursi in momenti d’intenso lirismo tal da marcare in modo ancor più netto la purezza del personaggio e sembrano alludere al sentimento amoroso senza deformazione comica. Effettuata la scelta, su un tema solenne che grottescamente richiama la celebrazione delle nozze, giungono i due attori Morbio (baritono) e Vanuzzi (basso), rispettivamente nelle vesti di notaio e prete, per celebrare le finte nozze, delle quali gran cerimoniere è il Barbiere. Nella scena si aprono degli interessanti squarci lirici, come lo splendido sestetto del matrimonio (Wünderbar), nel quale emerge, ancora una volta, la perizia contrappuntistica di Strauss. Alla fine fanno irruzione nella scena contadini e amici di Morosus che, capitanati da Farfallo, un altro commediante che si produce in una brillante canzone di carattere festoso, fanno eccessivo rumore, suscitando l’ira di Morosus che caccia i rumorosi amici i quali nel frattempo hanno dato vita a un coro piuttosto convenzionale.
Rimasto solo con Aminta-Timidia, Morosus cerca di fare, in una scrittura lirica che sembra rappresentare la sincerità del sentimento provato nei confronti della donna, delle prime tenere avances a quella che ritiene sia sua moglie; la donna, dopo aver schivato con un atteggiamento ritroso quegli approcci, esplode in una crisi isterica (Ruhe!) segnalata dagli ottoni e dagli archi in fortissimo che introducono un passo in Prestissimo che rappresenta con grande forza icastica il violento litigio verbale di cui sono protagonisti i due “sposi”. Giunge Henry che promette allo zio di tenere a bada la donna, rivelatasi una vera e propria vipera. Per Morosus non resta che andare a dormire, mentre in orchestra si ode un tema del corno che conduce alla scena conclusiva caratterizzata da un lirico duetto d’amore tra Henry e Aminta (Du süssester Engel); questa situazione stride con la voce assonnata di Morosus, che prima chiama il nipote e alla fine lo ringrazia quasi russando. L’atto si conclude con un incantato ed etereo accordo di re bemolle maggiore.
Atto terzo
Il terzo atto è preceduto da un preludio, formalmente un fugato, il cui soggetto costituisce il materiale musicale della scena iniziale dell’atto unito direttamente al preludio senza soluzione di continuità. Protagonista è Aminta la quale, già la mattina seguente alle nozze, ha preso possesso della casa rendendo la vita del povero Morosus un inferno. Oltre ad aver assunto dei rumorosi operai, ha messo in casa anche un pappagallo dalla voce stridula. Come se non bastasse vengono introdotti un pianista, Farfallo (basso) travestito, e un insegnante di canto, che altri non è se non Henry; con loro canta, accompagnata al cembalo, i duetti Sento un certo non so che dell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi e Dolce Amor, bendato, alato tratto da Eteocle e Polinice di Legrenzi. Dopo l’esibizione di Aminta la partitura è soggetta a tagli, in quanto si sarebbe dovuto sentire il corno con il tema iniziale del preludio per accompagnare la parte recitata del Barbiere sopraggiunto per procedere alla separazione dei due neosposi. Nell’edizione in ascolto e in genere nella versione abbreviata entrata nel repertorio si passa direttamente alla sesta scena nella quale il Barbiere è accompagnato da un falso giudice, anche in questo caso Vannuzzi travestito, il quale, su un accompagnamento grottescamente solenne con i corni, i fagotti e i tromboni che simulano il timbro di un organo, in modo perentorio afferma che non può essere causa di separazione l’aver sposato una donna che non risponde alle aspettative del marito. Tutto il passo diventa una parodia di un processo di separazione con un linguaggio che fa ricorso a un latino di circostanza utilizzato solo per confondere le idee al povero Morosus. Dal punto di vista drammaturgico la parodia del processo avviene anche con l’alternanza tra recitazione e canto con sottolineature orchestrali secondo una struttura ben sperimentata da Strauss in altri lavori e che richiama il mondo dell’operetta. In questo processo Farfallo funge da avvocato mentre Isotta e Carlotta da testimoni; le due donne, in particolar modo, attestano che Timidia-Aminta avrebbe avuto una relazione prima del matrimonio. Introdotto dal Barbiere, anche Henry, sempre travestito, testimonia di aver avuto una relazione con la donna, alla quale dedica un’aria da perfetto tenore amoroso in una scrittura intrisa di un lirismo liederistico. Nel contratto nuziale non si trova alcun codicillo che renda nullo il matrimonio in presenza di una relazione pregressa da parte della donna, come fa notare il falso avvocato Farfallo in una scrittura ancora una volta grottescamente solenne. Alla fine Morosus, resosi conto dell’impossibilità di separasi dalla moglie, appare avvilito come il lunghissimo si bemolle basso tenuto dai contrabbassi, dalla tuba, dai tromboni e dal controfagotto; proprio da questo si bemolle nasce il tema, prima esitante, del clarinetto del Finale, nel quale Henry svela la burla ai danni di Morosus che, lungi da offendersi, scoppia in una fragorosa risata. Nel Finale, dove, nell’edizione in ascolto sono operati alcuni tagli, si ricompone, dunque, la serenità familiare con Aminta ed Henry che resteranno a vivere per sempre con Morosus il quale si accende la pipa in un quadretto domestico reso da una musica composta e serena come il tema degli archi che caratterizza la scena Finale.