Torino, Auditorium “Giovanni Agnelli”
I Concerti del Lingotto 2014-2015
WDR Sinfonieorchester Köln
WDR Rundfunkchor / NDR Chor
Direttore Jukka-Pekka Saraste
Maestri dei Cori Stefan Parkman (WDR), Philipp Ahmann (NDR)
Soprano Hanna-Elisabeth Müller
Baritono Andrè Schuen
Johannes Brahms : “Ein deutsches Requiem” (Un Requiem tedesco) op. 45 per soli, coro e orchestra, su testi biblici
Torino, 6 ottobre 2014
Contornate, e forse suggestionate, da ricorrenze centenarie di conflitti mondiali, anniversari di attività artistiche, rassegne di spiritualità, a Torino tre importanti stagioni musicali si sono inaugurate nel segno del sacro: quella dell’OSN RAI con la Missa solemnis di Ludwig van Beethoven (25 settembre), quella del Teatro Regio con la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi (30 settembre), quella dei Concerti del Lingotto con Ein deutsches Requiem di Johannes Brahms (6 ottobre). E si può dire che, di tutte e tre, l’ultima sia riuscita la migliore sul piano esecutivo. Orchestra Sinfonica e Coro della Radio di Köln (WDR), rinforzati dal Coro della Radio della Germania del Nord (NDR), propongono il capolavoro oratoriale di Brahms sotto la guida del finlandese Jukka-Pekka Saraste.
«Simile ad erba è l’uomo, e tutta la sua scienza come un fiore di campo». La celebre citazione dalla prima epistola di Pietro riassume bene non soltanto l’ispirazione letteraria e scritturale dell’intero Deutsches Requiem, ma anche l’atteggiamento esecutivo con cui Saraste si è accostato alla complessa partitura. Sin dall’apertura («Selig sind, die da Leid tragen», Beati quelli che soffrono) il suono nasce subito netto, nel senso che il direttore non cura quel passaggio dal silenzio alla materializzazione della sonorità per mezzo di sfumature via via più percettibili. Quella che potrebbe sembrare una trascuratezza, o una mancanza di attenzione, è in realtà un segnale chiaro dell’impostazione sobria, per nulla teatrale, per nulla mistica, con cui il direttore legge il Requiem di Brahms. Saraste fa comprendere come l’oratorio non racconti nulla, non abbia in sé alcuna invenzione narrativa, non debba sottostare alle consuetudini della creazione letteraria o drammatica; esso è piuttosto una meditazione accorata, traboccante di speranza, ma la cui origine prima è la sofferenza. Per questo motivo ogni suono è tagliente, scabro, affilato come la lama che ferisce, che provoca dolore e morte.
A questo proposito l’esecuzione del doppio coro si distingue per l’espressività della parola biblica, di volta in volta sussurrata, enunciata con la convinzione del fedele, oppure gridata con l’affanno di chi soffre e dispera. Ma va anche registrato come i due gruppi corali possano qualificare al meglio la propria preparazione grazie al profondo rispetto che il direttore d’orchestra nutre per le voci; al contrario di quel che fanno certi maniacali fautori della “megalofonia” e del decibel orchestrale, Saraste colloca i due solisti al suo fianco, davanti agli archi e protesi verso la sala, e il coro immediatamente dietro l’orchestra, anziché nel fondo. I volumi dell’orchestra, per contrapposizione, diventano in certi momenti quasi cameristici, e il bilanciamento con il comparto vocale è perfetto.
«Denn alles Fleisch es ist wir Gras» (Simile ad erba è l’uomo) non è caratterizzato da severità liturgica, ma è semplicemente composto; l’innesto delle voci sulla pasta omogenea del suono orchestrale è naturale completamento dell’espressione di fede. Che Brahms voglia proporre un parallelo con il Dies irae della messa latina si comprende con il lungo corale che ha per testo l’epistola di Giacomo; corno e ottoni equivalgono davvero all’espressione musicale del versetto Tuba, mirum spargens sonum.
Con «Herr, lehre doch mich» (Insegnami, o Signore) diventa protagonista la voce del baritono Andrè Schuen: fresca, giovane, omogenea, corretta. Gli acuti della breve parte risultano coperti quasi sempre in modo soddisfacente, anche se – in occasione del penultimo brano, quando il baritono interviene per la seconda volta – la voce appare un po’ leggera rispetto alla richiesta, perché deve sostenere un peso orchestrale nettamente superiore. Ma la parte più significativa del brano è il corale di chiusura: capolavoro di contrappunto e di equilibrio tra archi, pedale dei fiati, voci. La percezione di ogni singolo suono, come in trasparenza, diviene a questo punto la caratteristica emblematica dell’esecuzione.
L’umiltà di Saraste è accentuata dall’amabilità del quarto numero: «Wie lieblich sind die deine Wohnungen, Herr Zebaoth» (Quanto amabili sono le tue dimore, Signore dell’universo, Ps 84, 2) non ha nulla di posticcio né di smaccato: come in precedenza non ci si sentiva immessi in una marcia funebre, così ora non c’è nulla di banalmente danzante. La gioia della speranza è nella musica stessa, nei timbri strumentali e nella diteggiatura dei violini.
Il brano più struggente del Requiem è sempre stato considerato il n. 5 («Ihr habt nun Traurigkeit», Ora siete nella tristezza), in cui la voce sopranile inneggia alla consolazione, trasformandosi in ipostasi della madre di Brahms, morta nel 1865. Hanna Elisabeth Müller è soprano dalla voce pastosa e dall’emissione vibrante; dando voce alla rappresentazione musicale della consolazione, sa modulare molto bene la respirazione in funzione della sonorità; peccato che qualche acuto risulti leggermente aperto.
Il penultimo brano («Denn wir haben hie keine bleibende Statt», In questa terra siamo privi di una stabile dimora) si apre con uno straordinario pizzicato degli archi; ma il piccolo miracolo curato dal direttore è un altro: rilevare i discreti interventi del corno, che richiamano il celebre trio in mi bemolle maggiore per violino, pianoforte e corno delle Alpi dell’op. 40 (composto nel 1865), con cui Brahms rammemorò la sua pratica musicale fanciullesca a seguito della morte della madre Johanna. L’acutissimo ottavino (che si sente ancor più della tromba) e i feroci colpi di timpano non fanno che ribattere la fermezza della convinzione paolina («Morte, dov’è il tuo artiglio? Inferno, dove è la tua vittoria?», 1Co 15, 55).
«Selig sind die Toten», Beati coloro che sono morti, costituisce la benedizione finale con cui l’oratorio si chiude (Apocalisse 14, 13). Il suono quasi violento dei contrabbassi apre la pagina nel segno orchestrale, ma poi la voce corale torna protagonista, con la rara bellezza di ogni suo tono. Perché entrambi i cori fanno intendere ogni suono come un diverso tono (e perciò colore) vocale, costruendo un affresco molteplice a base di tessere bibliche. L’esecuzione è tutta quanta netta, concisa, sobria perfino negli ultimi accordi dell’arpa, prima della chiusa, a coronamento di una lettura lontanissima da ogni compiacimento retorico (e anche da autocompiacimenti personali, nel ritmo come nelle sonorità).
Bisognerebbe mozzare le mani a quello scriteriato ascoltatore che inizia subito ad applaudire (per di più con piglio stizzoso!), quando la musica è appena terminata e Saraste non ha ancora abbassato le braccia: è visibile il disappunto del direttore e del primo violino, che si scambiano un’occhiata un po’ compassionevole, forse pensando alla diseducazione del pubblico italiano. L’applauso attecchisce, poi si smorza, ondeggia, sembra spegnersi (segnale di tardiva resipiscenza; ma «Voce dal sen fuggita / più richiamar non vale»), poi scoppia deciso, per non arrestarsi più, se non dopo numerose chiamate.
Grande successo, com’era prevedibile, e di grande stile; ma bisogna concludere che a Torino, quando non è un atteggiamento direttoriale, la fretta si trasmette a qualcuno dell’uditorio?