Teatro dell’Opera di Firenze
“IL CAMPIELLO”
Commedia in cinque atti di Carlo Goldoni
Riduzione in tre atti e adattamento di Mario Ghisalberti
Musica di Ermanno Wolf-Ferrari
Gasparina ALESSANDRA MARIANELLI
Dona Cate Panciana CRISTIANO OLIVIERI
Luçieta DIANA MIAN
Dona Pasqua Polegana LUCA CANONICI
Gnese BARBARA BARGNESI
Orsola PATRIZIA ORCIANI
Zorzeto ALESSANDRO SCOTTO DI LUZIO
Anzoleto FILIPPO MORACE
Il cavalier Astolfi CLEMENTE ANTONIO DALIOTTI
Fabrizio dei Ritorti LUCA DALL’AMICO
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Francesco Cilluffo
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Regia Leo Muscato
Scene Tiziano Santi
Costumi Silvia Aymonino
Luci Alessandro Verazzi
Nuovo allestimento in coproduzione con Fondazione Teatro Verdi di Trieste
Prima rappresentazione a Firenze
Firenze, 25 settembre 2014
Le quotazioni dell’opera buffa in Italia erano crollate vertiginosamente nella prima parte dell’Ottocento; già nei decenni precedenti il Don Pasquale, ultimo capolavoro appartenente al genere, il numero di opere buffe, spazzate via dal Romanticismo si era notevolmente affievolito, e a Rossini stesso, dopo La Cenerentola, in Italia non erano state più commissionate opere buffe. L’ultima stagione felice per questo genere sono stati i primi anni dell’Ottocento, quando una schiera di compositori e librettisti lavorava assiduamente in un clima ancora settecentesco prima di esser travolta dal ciclone di Pesaro. Vi è un filo sotterraneo che lega queste esperienze al secondo Ottocento e al primo Novecento: il libretto tratto da Goldoni. Il rappresentante principe della comicità settecentesca è rivissuto in un discreto numero di opere date anche dopo il 1843, l’anno del Don Pasquale in cui si fa terminare la fioritura dell’opera buffa. Dopo quarant’anni di vana ricerca del giusto libretto “non tragico” Verdi, torna – con la complicità di Boito, all’opera comica col Falstaff che per i decenni a venire sarà un modello inevitabile per chiunque voglia affrontare questo genere. E se è vero che era pressoché inevitabile che la scelta cadesse su Shakespeare, bisogna altresì ricordare che Goldoni faceva spesso capolino nella corrispondenza verdiana, con particolare riferimento al Bugiardo; inoltre, quando ormai la scelta era già caduta su Falstaff, Verdi “si era riletto il teatro di Goldoni come a farsi il buon palato”, per usare una celebre espressione di Franco Abbiati. Rotti gli argini, il fiume delle opere buffe ricominciò a sgorgare: se il titolo più importante è indubbiamente “Le maschere” di Mascagni, per quanto riguarda direttamene Goldoni, ebbero un certo successo Le baruffe chiozzotte di Tomaso Benvenuti (1895) e Un curioso incidente di Gaetano Coronaro (1903), ma è indubbio che gli esiti più fortunati e duraturi derivarono da Ermanno Wolf-Ferrari, che, concittadino del celebre drammaturgo, ne aveva, come si direbbe oggi, il DNA fin nel midollo. Ben cinque sono le opere goldoniane composte da Wolf-Ferrari, anche se sono soltanto due quelle che, presenti in ogni cartellone fino alla Seconda Guerra Mondiale, hanno poi vivacchiato ai margini del grande repertorio: I quatro rusteghi (1906) e Il campiello del 1936 (un saggio intero meriterebbe invece la questione della ben maggiore fortuna dell’intero canone del compositore italo-tedesco in Germania). La trama del Campiello, con libretto in veneziano con l’eccezione dei due napoletani che si esprimono in un impeccabile toscano, è ancor più esile di quella dell’opera precedente, in pratica soltanto un pretesto per un delizioso e satirico caleidoscopio di personaggi interessanti, tutti dimoranti nel Campiello del titolo, autentico protagonista dell’opera. Anche qui gli “indigeni” veneziani, tutti appartenenti al cosiddetto popolino, si incontrano e scontrano con i “forestieri” di classe sociale superiore dando vita a una “folle giornata” in cui le varie coppie di giovani innamorati si prendono, si lasciano e si riprendono, fino ad una conclusione del tipo “e tutti vissero felici e contenti” pervasa però da quell’ineffabile malinconia tipica di Wolf-Ferrari. Quasi tutte le qualità dei Quatro Rusteghi sono presenti anche in quest’opera, forse meno fresca e un po’ più prevedibile della precedente, anche se qui vi sono segni, nella scena della baruffa che esplode nel terzo atto, che Wolf-Ferrari, ove e quando la situazione lo esigesse, era più che disposto a impiegare ostiche dissonanze del ventesimo secolo che non vengono solitamente a lui associate, e che anzi potrebbero comodamente appartenere a opere come la Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Šostakovič. L’atmosfera prevalente fra i momenti di conflitto, e che è solo superficialmente da essa scalfita, è in ogni caso quella di una serenità profonda eppure quasi infantile.
L’orchestra del Maggio Musicale diretta Francesco Cilluffo esprimeva con maestria questo delicato equilibrio, sprigionava verve e brio, con un’impressionante tavolozza di colori: gli azzuffamenti nascevano e si scioglievano nel giro di un batter d’occhio, i ritmi scoppiettavano e si rilassavano con leggiadria, la tensione drammaturgica non dava mai segni di cedimenti; e nella baruffa “titanica” soprammenzionata il suono era sempre preciso e netto. Cilluffo eccelleva anche nel compito forse più arduo, quello di evitare sbavature di alcun tipo fra orchestra e palcoscenico. Giorgio Vigolo aveva centrato il bersaglio quando descriveva il canto di Wolf-Ferrari come vibrazione armonica e melodica del linguaggio veneziano, ed infatti la musica vocale del compositore pur avendo molti punti in comune con il canto di conversazione pucciniano, se ne differenzia notevolmente sotto molti punti di vista, inclinando spesso verso il cosiddetto “sillabato” della vecchia opera buffa; inoltre le sue melodie spesso iniziano innocentemente, con una serie di note ripetute o una semplice triade per poi muoversi ineluttabilmente verso una direzione armonica e melodica inaspettata. Il Campiello è più che altro un’opera di gruppo, di insieme, in cui ai molti personaggi (chi più chi meno) vengono affidate cellule melodiche di una certa importanza, magari anche tendenti ad acuti di sicuro effetto, che raramente sfociano in pezzi chiusi alla vecchia maniera. Più che vocalisti virtuosi sono necessari artisti dall’intonazione e senso ritmico impeccabile: una sola incertezza e una scena intera può frantumarsi in mille pezzi. L’Opera di Firenze ha riunito un cast formato da cantanti di varia esperienza, alcuni con voci più fresche e vibranti di altri, ma accomunati tutti da una musicalità ineccepibile. Alessandra Marianelli, Gasparina, ha voce morbida, rotonda (molto bello il Si naturale con cui si presenta nell’arioso iniziale), educata ed intonatissima, e risolve alla perfezione il problema più arduo della parte vocale dell’opera, quello di far percepire chiaramente all’ascoltatore la dizione caricaturale del personaggio. Molto brava anche Diana Mian, una Luçeta dal timbro un po’ più corposo, come del resto da tradizione, di quello di Gasparina, dato che Luçeta è la più sanguigna e focosa delle tre “pute” : stupendi i due Do acuti espostissimi della frase “aliegra magnarò che son novizza!”; più leggera, come si confà alla ingenua del gruppetto, la voce sempre impostatissima di Barbara Bargnesi nel ruolo di Gnese, che per la cronaca ha ricevuto l’unico applauso a scena aperta dopo il suo soliloquio del primo atto; un’autentica comediénne si è rivelata anche Patrizia Orciani (Orsola): possiamo ricordare che le prime interpreti di quest’opera furono pezzi da novanta come, rispettivamente, Mafalda Favero, Iris Adami Corradetti, Margherita Carosio e Giulia Tess? Nei panni delle due vecchie, retaggio secentesco, due tenori: Luca Canonici (Dona Pasqua) è riuscito, pur nello scatenamento comico, a mantenere maggior compostezza vocale di Cristiano Olivieri, che ha manifestato in alcune occasioni problemi in acuto, peccato veniale in un ruolo come questo ampiamente compensato dal totale coinvolgimento scenico. Alessandro Scotto di Luzio, tenore leggero con acuti non voluminosi ma squillanti, ha portato al ruolo di Zorzeto la freschezza vocale e fisica richiesta; Filippo Morace (Anzoleto) gli ha fatto da contraltare con la sua voce scura e le maniere irruenti. Avremmo forse desiderato un timbro più minacciosamente tenebroso di quello di Luca Dell’Amico nel ruolo di Fabrizio (è la stessa orchestrazione a suggerire il timbro ideale di questo personaggio, con l’immancabile presenza degli ottoni gravi ad ogni sua entrata), mentre ottimo, con emissione ben appoggiata, buon temperamento e incisività d’accento si è rivelato Clemente Antonio Daliotti nel ruolo pernio dell’opera, il Cavalier Astolfi.
Che Il campiello sia opera trascuratissima (con l’eccezione del Triveneto dove viene eseguita con una certa periodicità), lo dimostra il fatto che questa era la sua prima assoluta a Firenze. Una delle pecche dell’opera è forse il fatto che per ben tre atti l’azione si svolge esattamente nello stesso luogo, con la monotonia visiva che ciò può comportare. Il regista Leo Muscato ha avuto l’idea di ambientare i tre atti in epoche diverse: il primo nel 1756, anno della prima rappresentazione della commedia; il secondo nel 1936, quello della prima dell’opera; peccato che a questo punto lo spettatore avrà subito che il terzo sarà collocato ai giorni nostri. È comunque piacevole osservare i mutamenti grandi o piccoli fra un atto e l’altro; la locanda diventa un bed and breakfast, il pozzo viene coperto e sigillato, l’osteria si trasforma in un bar dai neon volgari, e così via. Ovviamente anche i costumi cambiano, e così il fil rouge che collega gli atti rimane la presenza, durante i tre preludi, dello stesso Goldoni che vaga guardandosi attorno con aria sorpresa se non proprio sconcertata. Di sicuro effetto il finale dell’opera quando, dopo un malinconicissimo “Bondì, Venezia cara” intonato con un bel legato dalla Marianelli, tutti i personaggi, sulle allegre note conclusive si ammassano gli uni sugli altri dietro Gasparina la quale, prima di partire, scatta l’ormai classico selfie: spettacolo divertente e godibilissimo, insomma, reso ancor più piacevole dai bei costumi di Silvia Aymonimo e dalle scene di Tiziano Santi. “Quanta pace dà questa musica”, si narra che abbia detto un anonimo spettatore durante la prova generale dell’opera nel 1936, e uscendo dal teatro era esattamente questa la sensazione provata dal sottoscritto, e ci si augura, anche dal resto del pubblico. English Version