Lucerne Festival – Im Sommer – LXXVI Edizione, Konzertsaal del KKL (Kultur- und Kongresszentrum Luzern)
City of Birmingham Symphony Orchestra
Direttore Andris Nelsons
Pianoforte Rudolf Buchbinder
Ludwig van Beethoven : Concerto per pianoforte e orchestra n. 5 in mi bemolle maggiore op. 73 “Imperatore”
Edward Elgar : Sinfonia n. 2 in mi bemolle maggiore op. 63
30 agosto 2014
City of Birmingham Symphony Orchestra
Direttore Andris Nelsons
Tenore Klaus Florian Vogt
Richard Wagner:da Parsifal: Incantesimo del Venerdì Santo; «Amfortas! Die Wunde!»; «Nur eine Waffe taugt» – da Lohengrin: Preludio al III atto; «Höchstes Vertraun hast du mir schon zu danken»; «In fernem Land»
Ludwig van Beethoven : Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92
31 agosto 2014
Arrivi a Lucerna in un luminoso pomeriggio di fine agosto, puoi godere dei meravigliosi colori della città, del lago, delle colline attorno, ti prepari a seguire per qualche giorno il lunghissimo Festival (15 agosto-14 settembre) che ha per tema “Psyche”, pensi già a quando entrerai nell’impareggiabile Konzertsaal del KKL (il Kultur- und Kongresszentrum progettato da Jean Nouvel), per seguire la tournée della City of Birmingham Symphony Orchestra diretta da Andris Nelsons. Eppure un senso di malinconia ti stringe il cuore, perché sai che questa volta non vedrai quell’artista eccezionale che negli ultimi anni aveva regalato emozioni uniche con Mozart, Schubert, Bruckner, e naturalmente con la sua Lucerne Festival Orchestra. Non c’è più Claudio Abbado, alla cui memoria è dedicata l’intera edizione 2014: ogni programma reca in frontespizio una sua fotografia, in camicia a righine azzurre, sorridente, abbronzato, ovviamente in mezzo agli orchestrali. Un’assenza che si fa sentire, dunque, ma senza clamore; forse il gesto più delicato è aver evitato accuratamente che nel vastissimo programma sinfonico comparisse proprio Bruckner; dopo tante frequentazioni che hanno mutato profondamente la conoscenza di questo compositore, è un segno di autentico rispetto per l’opera di Abbado permettere che il tempo sedimenti, che altri repertori giungano, che progetti differenti siano proposti. Ed è appunto il caso della City of Birmingham Symphony Orchestra, presente al Festival per due concerti che sanno coniugare il repertorio più mitteleuropeo (Beethoven e Wagner) con una pagina essenzialmente rappresentativa della musica inglese, come soltanto una sinfonia di Elgar riesce a essere. Il velluto di violoncelli e contrabbassi che apre il concerto Imperatore è certamente suggestivo, e il sound della CBSO risalta grazie alla spettacolare acustica della sala, ma ovviamente quel che si impone è il tinnire argentino del pianoforte di Rudolf Buchbinder; sin dalla prima ripresa è impressionante il legato delle frasi, sia in forte sia in piano. L’intensità di mano destra e sinistra del solista è perfettamente equilibrata da un senso di leggerezza che coinvolge l’intera orchestra, ma senza nulla di svenevole o dolciastro. Quello di Buchbinder e di Nelsons è un Beethoven il cui nervosismo si stempera nel corso di ciascun movimento, soprattutto grazie alla levità di numerosi ritenendo e ritardando. Il pianista decide d’altronde di lavorare sugli strumenti espressivi più elementari, come il legato e lo staccato (ancor più che sulla bellezza del suono; abbondano anzi le risonanze un poco metalliche, quasi spigolose); il finale della cadenza del I movimento (Allegro), assorta in un fluido di note bene sgranate, è avvolgente e ipnotico come il motivo di un carillon. Al di là della dolcezza dell’Adagio un poco mosso, è il Rondò finale (Allegro) a rivelarsi sorprendente, poiché il direttore prepara un’orchestra screziata e ironica a beneficio del solista, con sornione frasi dei fiati, di una goffaggine ricercata che non perde mai di compostezza. Certamente l’esecuzione non ha nulla di kaiserlich; la coda è anzi ai limiti della sfrontatezza, del piglio sbruffoncello: irriverente e modernissimo. Il risultato si traduce in un tale apprezzamento da parte del pubblico, che Buchbinder, dopo l’ennesima uscita da solo e con Nelsons, regala un bis beethoveniano, il Passionale dalla sonata Patetica: altra prova virtuosistica dell’arte del legato.
L’abbinamento del concerto Imperatore alla Sinfonia n. 2 di Elgar è illustrato da una notazione cronologica, oltre che dalla coincidenza di tonalità, dal momento che un secolo esatto separa le due composizioni: 1809-1810 la prima, 1909-1911 la seconda. Nell’economia del concerto, la sinfonia ha certamente il compito di esaltare le qualità e le particolarità dell’orchestra; e infatti, come all’inizio dell’Imperatore, un altro velluto sontuosissimo di ottoni definisce l’avvio dell’Allegro vivace e nobilmente. Nelsons parrebbe accentuare il debito elgariano nei confronti di Mahler, soprattutto nella ricerca su strutture accordali tipiche. Ma si tratta di un momento appena, perché sonorità e dolcezza del trascorrere da un elemento tematico a un altro sono tutte di Elgar; in effetti, il problema della sinfonia n. 2 è rappresentare un affresco complessivo, anche un po’ nostalgico, dell’età edoardiana, proprio nell’anno in cui Mahler muore (e un anno dopo la morte di Edoardo VII). Il direttore riesce benissimo a esaltare quel mellifluo (unito però al pulsare cupo del tamburo) e quegli slanci di entusiasmo, che per lo più in Mahler mancano. Altre volte, Nelsons rende percepibili le anticipazioni britteniane della partitura; e il risultato è una sorta di elegantissima marcia per l’incoronazione (al 1901 risale la celebre raccolta Pomp and Circumstance, il cui successo indusse il futuro re Edoardo a commissionare a Elgar un’ode per la sua incoronazione), ma il sentimento di tale marcia non deriva dalle teste coronate presenti alla cerimonia, bensì da sviscerato amore popolare per la corona e per la Casa. Con il Larghetto è poi la volta di una marcia funebre, il cui ritmo è rallentato in più punti. Ora la grandezza di Nelsons consiste nel saper trasformare la cupezza della marcia sepolcrale in un mare di luce e di celebrazione dell’eroe (non si dimentichi che Ein Heldenleben è del 1898, e le suggestioni straussiane si sentono), per mezzo di temi che oscillano tra Brahms e Villiers Stanford.
Il Rondò. Presto è un trionfo di colorismo e di resa espressiva. Se i temi sono praticamente inconsistenti, il direttore dimostra come la particolarità di questo movimento risieda nell’orchestrazione, in un crescendo martellante degno dei Pianeti di Holst. Ammiccante come non mai prima, il finale Moderato e maestoso è un’ulteriore variazione di stile e di temperatura affettiva: Nelsons vi trasfonde l’incalzare della conclusione come un ingrediente connaturato, al di là di una semplice marcia trionfale; è infatti accentuata una sorta di nostalgia – una disposizione d’animo che più edoardiana non potrebbe essere – sempre mescolata a godibilissima ironia. Il direttore non è alla ricerca di un suono indistinto, per omogeneo che possa essere, ma dei caratteri peculiari delle singole voci strumentali e della loro nitidezza. Certamente spiccano gli ottoni e i violoncelli, gli archi sono valorizzati nello spegnersi wagneriano del finale; le arpe e il loro colore lasciano l’impronta sonora sull’ultimo accordo, e Nelsons resta a lungo immobile, in un silenzio completo che si protrae per molti secondi. Poi lo scoppio di applausi irrefrenabili, a suggello della serata.
Lucerna è l’essenza di un grande festival internazionale, ma tutto raccolto nello spazio acquatico del centro città; e così ti può capitare di alloggiare nello stesso albergo degli orchestrali, dove già la prima colazione è una sinfonia di voci allegre, di emozioni in vista del concerto mattutino che comincerà alle ore 11, in un ordinatissimo trambusto (assai britannico) di croissants e caffè, di valigie e bagagli in partenza. Di nuovo al KKL, che meraviglia la prima parte con Klaus Florian Vogt che canta Parsifal e Lohengrin: voce ben sostenuta dal fiato, abbastanza squillante negli acuti, un timbro così equilibrato da non potersi definire né chiaro né scuro. Nelle note centrali un leggero effetto di velatura nell’emissione rende il suo Parsifal ancora più angosciato; sulle note del passaggio la voce risulta forse un po’ diafana, un po’ diversa rispetto al resto del registro, ma l’interpretazione è davvero eccellente. A volte Vogt ricerca un’emissione angelicata, che però lo avvicina a un tipo di personaggio più convenzionale; alla fine, comunque, ci si lascia incantare dalla bellezza della voce, tra le migliori wagneriane del momento. Ben riscaldato dalle due pagine parsifaliane, Vogt prosegue con un Lohengrin eroico, sicurissimo; forse non è molto espressivo o intimista nei momenti di declamato, ma l’attacco di «In fernem Land» è perfetto nella sua dolcezza: la voce diventa davvero quella di un angelo, e Vogt per primo ne sembra commosso, è visibilmente emozionato. Come per porre fine all’abbondanza emotiva, tenore e direttore accelerano un po’ sulle frasi centrali, per approdare alla puntatura acuta del finale: «ich bin Lohengrin genannt». E al nome di Lohengrin proferito con piglio eroico, non possono che venire in mente gli angelici cigni del lago di Lucerna, sempre lì fuori ad attendere chi esca dal KKL. Calorosissimi gli applausi del pubblico, sia per Vogt sia per Nelsons, che dà ottima prova di sé anche come concertatore wagneriano: se gli ottoni della sua orchestra spiccavano in Elgar, adesso sfolgorano nell’Incantesimo del Venerdì Santo dal Parsifal, e ancor più nel fastoso preludio al III atto di Lohengrin.
La CBSO si congeda dal pubblico di Lucerna tornando a Beethoven e schierandosi a forma di àncora sul palco circolare a più livelli per eseguire la sinfonia n. 7. Caratteristica notevole di Nelsons è la scelta di staccare i tempi con pacatezza, a differenza della maggior parte dei direttori della sua generazione (e di quelli ancor più giovani). Ma si intenda: non è mai lento nel procedere, perché il discorso musicale è sottoposto a continue azioni di ritenendo e di stringendo, con pause e battute vuote mai banali. Brillano nuovi colori nel Poco sostenuto. Vivace, mentre nella celebre marcia funebre dell’Allegretto il direttore sceglie la strada del legato, più che quella della dicotomia ritmica di dattilo e trocheo; e così la musica è affrancata anche dalla robusta gabbia ritmica in cui la tradizione esecutiva l’ha un po’ imprigionata. Le sottolineature del contrappunto, in alternanza ai colori di flauto e oboe, rendono il movimento più intenso e doloroso rispetto alla consueta cadenza di banale marcia. Il Presto è un’esplosione, ancora di colori: certamente con Nelsons si è di fronte a un direttore capace di plasmare il suono e l’allure orchestrali in modo riconoscibile; grazie alla sua direzione si è cioè di fronte a un’interpretazione non intellettualistica, ma basata su scelte tecniche semplici, di carattere artigianale (inteso nel senso più alto dell’ars di chi sa mettere insieme armonicamente il tutto). Praticamente collegato senza cesura allo scherzo è il finale, Allegro con brio, il movimento in cui Nelsons concentra un lavoro di esaltazione ritmica e di continuo stringendo del tempo. La sinfonia, prima marcatamente meditativa, ora è inebriata dall’incalzare delle frasi ribattute. Eppure, nella stretta i colori dei fiati punteggiano ancora la galoppata degli archi con squilli tenaci e pungenti. Di nuovo, come nel concerto Imperatore, non si tratta di un Beethoven tutto nervi, per nulla muscolare: è analiticamente sviscerata la natura pulsante, vitale e meditativa della partitura, ma su di un percorso che va dal colore al ritmo (e non viceversa). Il colore piega addirittura, e modifica, ritmo e sonorità, con un effetto tonale che entusiasma tutto il pubblico; di fronte a una platea acclamante e in piedi, e davanti a un’orchestra che non vuole alzarsi, ma tributa affetto e ammirazione al suo direttore, Nelsons brandisce la partitura e la mostra umilmente come l’origine di tanta gioia. Poi esci felice dal KKL, e anche se il cielo di oggi è grigio, i bianchissimi cigni del lago di Lucerna sono sempre lì, a sorriderti.