Ballet eroïque in un prologo e quattro entrée su libretto di Louis Fuzelier. Valérie Gabail (Amour, Phani, Fatime, Zima), Stéphanie Révidat (Hébé, Emile, Zaïre), Reinoud Van Mechelen (Carlos, Damon), François-Nicolas Geslot (Valère, Tacmas), Aimery Lefèvre (Bellone, Osman, Huascar, Ali, Adario), Sidney Fierro (Alvar). La Simphonie du Marais, Le Choeur du Marais , Hugo Reyne (direttore). T.Time: 3 ore e 22′ Registrazione: Konzerthause, Wien. 26-27 gennaio 2013. 3 CD Musiques à la Chabotterie 605013 / 2014
Libretto dell’opera
“Les Indes galantes” sono uno fra i lavori più affascinanti della musica non solo francese del XVIII secolo; un capolavoro di ricchezza musicale, leggerezza e amore per lo spettacolo che non possono non incantare il pubblico e che meriterebbero di essere ben più conosciute. L’opera rappresenta uno dei vertici assoluti del Ballet eroïque, genere in gran voga nella Francia pre-rivoluzionaria e caratterizzato dalla compresenza di parti operistiche affidate a cantanti e coro ad altre in cui ad essere protagoniste sono il balletto e la pantomina, il tutto piegato ad un’unica ricerca di spettacolarità che rappresenta l’essenza stessa del classicismo barocco francese.
La struttura della partitura è poi alquanto originale componendosi di quattro entrée, di fatto quattro brevi opere in un atto assolutamente autonome fra loro e collegate solo dal comune tema della forza dell’amore inserite all’interno di una cornice simbolica rappresentata dal prologo in cui Hébé – simbolo della giovinezza – e Amore decidono di abbandonare l’Europa dominata dalla guerra per far sentire il loro benefico potere nelle altre parti del mondo. L’opera richiama fin dal titolo “L’Europe galante” andata in scena con musiche di Camprà nel 1697 di cui rappresenta una sorta di ripresa in chiave esotica e rococò.
La particolarità della composizione con i suoi molteplici salti di registro, le insolite caratterizzazioni ambientali, il gusto per l’esotico – così presente nella cultura del tempo, si pensi solo alle numerose rappresentazioni delle quattro parti del mondo che vengono a decorare un gran numero di palazzi in ogni angolo d’Europa nella prima metà del Settecento – permettono a Rameau di dar sfoggio alle straordinarie qualità di orchestratore e di creatore di ambienti sonori. La scrittura orchestrale è di straordinaria raffinatezza, gli impasti timbrici fondono con maestria assoluta le varie famiglie orchestrali – di assoluta suggestione le sonorità seriche degli archi; inoltre alcune situazioni sceniche offrono occasione di un trattamento spettacolare dei piani sonori di straordinaria efficacia, la grande tempesta della prima entrée e ancor più il terremoto della seconda sono fra i momenti più riusciti fra tutti i tentativi di creazione sonora di situazioni naturali della musica del Settecento.
La vocalità di Rameau è particolarmente ricca, se lo schema fondamentale resta quello della tradizione francese basato una declamazione ariosa strettamente legata al testo essa si arricchisce però di una dimensione più virtuosistica e spettacolare in cui sono evidenti i debiti con modelli italiani così come di derivazione italiana è l’abbandono melodico che caratterizza alcuni momenti dell’opera.
Un materiale quindi quanto mai eterogeneo, reso ancor più complesso dalla tormentata vicenda editoriale del lavoro. Nata nel 1735 come opera in un prologo e due entrée (“Le turc généreux” e “Les Incas du Pérou) vede quasi subito – alla terza recita del primo ciclo di rappresentazioni – una terza entrée “La fête des fleurs” mentre la quarta “Les sauvages d’Amerique” verrà aggiunta in occasione di una ripresa l’anno successivo. L’aggiunta delle successive entrée per altro non si limito a semplici giustapposizioni ma comportò modifiche e adattamento delle parti già composte anche in relazione alle reazioni del pubblico cui Rameau era sempre molto attento tanto.
Il risultato finale è stata una pluristratificazione che non pochi problemi a dato – e probabilmente continuerà a dare ai filologi. Ma su questa realtà così apparentemente disomogenea regna l’ordine assoluto con cui la maestria di Rameau sa manovrare i materiali, la gioia del fare musica e teatro – si pensi al rondeau “Forêts paisibles” della quarta entrée dove si evocano con soluzioni ritmiche insolite le danze dei nativi americani all’interno di un gusto che non potrebbe essere più francese e rocaille – e l’assoluto senso dell’ironia, un esempio fra tutti la parte di Bellone scritte per basso-baritono con evidentissima valenza comica, che dominano su tutto come vere divinità in questo mondo immaginifico.
A lungo dimenticato e frainteso questo fondamentale titolo ha avuto un’autentica rinascita a partire dal 1991 quanto William Christie presentò una versione corretta dell’opera – seppur priva di alcuni momenti ritrovati in seguito – e che metteva finalmente in soffitta le riscritture realizzate nel corso delle rare riprese otto-novecentesche – quella più nota fu curata da Dukas – per far riscoprire direttamente i meriti della scrittura di Rameau in un processo che ha raggiunto il suo apice nell’edizione parigina del 2003 sempre diretta da Christie con la regia di Serban fortunatamente documentata in DVD e che resta un paradigma esecutivo per questo repertorio. Restava però l’innegabile limite di una discografia assai scarsa e per di più centrata su un unico interprete (Christie appunto); non si può quindi che accogliere con piacere questa registrazione eseguita in occasione di alcune recite alla Konzerthause di Vienna per l’apertura delle celebrazioni del 250 anniversario della morte del compositore digionese.
Guidati da Hugo Reyne “La Simphonie du Marais” si dimostra complesso pienamente all’altezza delle richieste della partitura. Il suono non ha forse la brillantezza che in molti passaggi riuscivano ad esprimere “Les arts florissants” con Christie ma non si può non ammirare la pulizia e la trasparenza del suono specie quello degli archi così come pienamente riusciti sono gli effetti ambientali così significativi nell’insieme della partitura. Se si vuole trovare un limite questo sta forse nella non sempre precisissima intonazione di alcune sezioni dei fiati, ma questo è un problema quasi irrisolvibile con gli strumenti barocchi e non è certo questa la sede per un approfondimento sul tema. La direzione di Reyne mostra un pieno rigore filologico e stilistico mentre sul piano espressivo opta per atmosfere liriche e sentimentali che esaltano al meglio i momenti più lirici e melodici della partitura secondo una precisa scelta stilistica. Magistrale la prova offerta da Le Choeur du Marais nei fondamentali interventi corali soprattutto nella scena del sacrificio della II entrée e nel canto che accompagna la festa dei fiori nella terza.
La compagnia di canto non presenta nomi di particolare richiamo ma dimostra di essere un gruppo omogeneo e perfettamente affiatato capace di fornire una prestazione sostanzialmente convincente per quanto riguarda tutti i ruoli, qualche imprecisione sul piano prettamente musicale sono comprensibili in una registrazione dal vivo. A ciascun cantante sono affidati più ruoli e tutti riescono nell’importante compito di differenziarli in modo convincente e di evitare una certa ripetitività espressiva che questa scelta potrebbe comportare. Sul versante femminile il soprano Valérie Gabail affronta i ruoli di Amour, Phani, Fatime e Zima riuscendo a coglierne le differenze espressive. La voce è piacevole come timbro e colore nonostante qualche durezza in acuto e i passaggi di coloratura sono risolti con grande proprietà. I risultati migliori sono ottenuti nei ruoli più lirici specie nei panni di Phani di cui offre un’ottima lettura della sublime “Viens, hymen” colma di luminosa femminilità tratti che si ritrovano nella sua Fatime. Di contro Zima pur cantata con gusto e giustamente maliziosa nell’accento manca dell’autentico argento vivo che al ruolo sapeva infondere la Petibon nella già citata produzione parigina.
Stéphanie Révidat è sostanzialmente un soprano lirico anche se dotata di un buon corpo e di un registro grave sicuro, le sono affidati i ruoli di Hébé, Emile e Zaïre affidati in altre edizioni a mezzosoprani. La voce è piacevole e la linea di canto molto curata, i risultati migliori sono ottenuti nel ruolo lirico e sopranile di Zaïre la cui bellissima aria “Deviez-vous vous me prendre” è colma di poetica dolcezza e a cui si può forse contestare solo una scarsa differenziazione vocale con Fatime. Altrettanto buona è la prova come Hébé mentre in Emilie la voce appare decisamente troppo leggera.
Ottime le prove fornite da entrambi i tenori. François-Nicolas Geslot, autentico haute-contre dalla voce chiara e carezzevole e dalla naturale predisposizione alle atmosfere liriche e sognanti è un ragguardevole Valère ed uno splendido Tacmas esaltato nella sua dimensione di molle eleganza tutta orientale cui nuoce solo un’eccessiva distorsione della voce nei momenti del travestimento ma in sala queste soluzioni dovevano avere un più diretto effetto sul pubblico. Di temperamento più eroico – seppur sempre all’interno di un tipo di vocalità agile e luminosa – Reinoud Van Mechelen è perfetto nel ruolo del nobile gentiluomo Carlos contribuendo alla piena riuscita dal duetto con Phani mentre nei panni del governatore francese Damon coglie a pieno l’eleganza futile e manierata del personaggio.
Più alterna la prova di Aimery Lefèvre cui sono affidati quasi tutti i personaggi pensati per voce grave (Bellone, Osman, Huascar, Ali, Adario) in una sorta di autentico tour de force. Voce solida di baritono scuro o di bass-baritone accompagnata da un accento scandito e autorevole sembra trovarsi a suo agio soprattutto nei personaggi nobili per indole e vocalità riuscendo così a tratteggiare un Osman di sincera generosità, un Ali pienamente inserito nell’ovattato mondo dell’entrée persiana ed un Adario eroico ed elegantemente irruento. Meno congeniali sembrano invece risultargli i personaggi più negativi, la parte en-travesti di Bellone è sicuramente ben cantata e presenta la riapertura dell’aria assente nelle precedenti edizioni discografiche – compariva solo nel video parigino di Christie – ma il personaggio appare forse troppo serioso e privo della caricaturale ironia che dovrebbe accompagnarlo. Non convince nemmeno come Huascar, il grande sacerdote degli Incas; in primo luogo emergono qui limiti di tipo vocale, la scrittura è decisamente molto grave, da autentico basso mentre la voce di Lefèvre pur dotata di un solido registro grave è più baritonale così che la grande scena dell’invocazione del sole “Soleil, on a détruit tes superbes asiles” manca della sacralità richiesta mentre negli scontri con Phani la malvagità è forse troppo evidente per essere autenticamente credibile. Completa il cast un solido Sydney Fierro come Alvar. Consiglio finale per l’ascoltare, lasciate trascorrere gli applausi conclusivi in quanto dopo di essi è presente con funzione di bis una ripresa di “Forêts paisibles” riletta in chiave decisamente selvaggia.