Torre del Lago, Sessantesimo Festival Puccini, Gran Teatro Giacomo Puccini
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti, libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
La Principessa Turandot LISE LINDSTROM
L’Imperatore Altoum MARCO VOLERI
Timur ING SUNG SIM
Il Principe Ignoto (Calaf) LORENZO DE CARO
Liù SERENA FARNOCCHIA
Ping PARK JOUNGMIN
Pang NICOLA PAMIO
Pong FRANCESCO PITTARI
Un mandarino CLAUDIO OTTINO
I Ancella MYRTO BOCOLINI
II Ancella MARINA GUBAREV
Principe di Persia SIMONE FREDIANI
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Coro delle voci bianche del Festival Puccini
Direttore Marco Balderi
Maestro del Coro Francesca Tosi
Voci bianche dirette da Sara Matteucci
Regia, scene e costumi Angelo Bertini
Disegno luci Valerio Alfieri
Assistente alla regia Luca Ramacciotti
Nuovo allestimento
Torre del Lago, 23 agosto 2014
Dopo anni di onorato servizio, il pur bell’allestimento dell’incompiuta pucciniana creato da Maurizio Scaparro è dovuto andare in pensione per far spazio a una nuova produzione affidata ad un versatile ed eclettico artista (nonché dentista!) viareggino, Angelo Bertini, curatore di regia, scene e costumi. Come spiega nelle note di regia, Bertini intende sottolineare l’interesse che Puccini aveva per le tendenze culturali a lui contemporanee, creando quindi una Turandot “Art Deco” fondata su un’enorme struttura scura, quasi nero laccata, ornata con le linee dorate baroccamente ondulanti e arricciate tipiche del periodo. Entro tale cornice sono situate strutture auree che ricordano gli interni di edifici come l’Empire State Building di New York. Lo spettacolo colpisce visivamente per la spettacolare bellezza dell’insieme, che riesce a stupire in continuazione grazie a trovate e colpi di scena uno più sorprendente dell’altro, e costumi estremamente ricchi e sfarzosi. Di grande effetto (anche se qualcosa di simile si era già visto altrove) l’idea di mostrare per la prima volta la Principessa seduta all’interno di una luna piena sospesa e rotante. Ogni gesto pareva curato nei minimi dettagli, troppi per elencarli tutti: ci ha colpito in particolare l’entrata di Turandot al terzo atto coperta da un velo bianco che tiene sulla testa con le braccia distese a forma di croce e che ricorda la celebre locandina dell’Esclarmonde massenetiana. Considerando che era al debutto come regista, Bertini ha saputo gestire con maestria l’enorme “materiale umano” che un’opera “kolossal “ come Turandot prevede, anche se forse avrebbe potuto muovere le masse corali, da sempre spina nel fianco dei registi, con maggiore scioltezza. L’unica nota stonata (almeno a livello visivo) si ha proprio alla fine, quando i coristi si tolgono i copricapo sventolandoli, come per augurare una felice luna di miele ai due novelli sposi.
Marco Balderi ha diretto con buon mestiere in maniera genericamente sciolta e fluida, trascurando però di far risaltare le preziosità timbriche e soprattutto le sonorità barbariche della partitura: tutto quello che è conflitto aspro, efferatezza, passione morbosa gli era sostanzialmente estraneo. Ottimo il coro preparato da Francesca Tosi, sempre coeso, mai sbavato e dotato di soprani con un registro acuto penetrante (di grande effetto il do diesis sopracuto alla fine di “dove regna Turandot” nel primo atto). Tra i ruoli secondari risaltava il bel timbro baritonale del Mandarino di Claudio Ottino; Ing Sung Sim era interessante abbastanza da desiderare di ascoltarlo in ruoli ben più impegnativi di quello di Timur. Troppo arruffata era la dizione del Ping di Park Joungmin, mentre senza infamia e senza lode erano le altre due maschere (o meglio veri e proprie marionette secondo questo allestimento), Nicola Pamio (Pang) e Francesco Pittari (Ping). Insolitamente giovanile e vigoroso era l’Altoum di Marco Voleri.Eccellente la Liù di Serena Farnocchia, dotata di una tecnica sicurissima che le permette un dosaggio dei fiati impeccabile ad ogni altezza, e un suono completamente immascherato; caratteristica, quest’ultima non riscontrabile nel Calaf di Lorenzo De Caro, tenore dal timbro piacevole, ma di volume non troppo generoso (almeno in un grande teatro all’aperto dall’acustica non favorevolissima). Il difetto principale è però, come accennato, un’emissione che non sfrutta la cosiddetta maschera, e che dà come risultato una povertà di armonici. L’estensione sarebbe di tutto rispetto: il Do opzionale di “ti voglio tutta ardente” era notevolmente lungo, ma di scarso effetto proprio perché privo di squillo; stesso discorso per il Si naturale di “Nessun dorma”, accolta per altro da applausi di circostanza. Di conseguenza De Caro, che per altro possiede una bella presenza scenica, veniva sommerso dall’orchestra e dalla voce della protagonista in tutti i loro confronti. La Principessa era Lise Lindstrom, che debuttava al Festival Puccini con un ruolo che le è servito da biglietto da visita nei teatri più importanti del mondo, fra cui il Metropolitan di New York, il Covent Garden di Londra e il Teatro alla Scala di Milano. Il soprano californiano non è la Principessa furiosa e digrignante che la tradizione imperante ci ha tramandato. Non può essere la tigre sempre pronta a fare a brani con ogni parola, con ogni sillaba chiunque le si avvicini. Il suo timbro algido, madreperlaceo e iridescente (che forse può deludere chi si aspetti una Turandot più italianamente “corposa”) fa intravedere una vena di natura patetica e sottile malinconia ed è comunque psicologicamente adattissimo al ruolo. La Lindstrom emerge vittoriosa dallo scontro con la brutale tessitura grazie alla propulsione, fluidità e brillantezza del registro acuto, sempre libero, cristallino e penetrante. La sua Turandot “canta” sempre, senza ricorrere ai parlati e alle grida cui spesso e volentieri si affidano molte interpreti; come un laser, il suo strumento è sempre a fuoco e non dà segni di fatica o cedimenti. A partire dal Si naturale di “quel grido” in “In questa reggia”, ogni acuto era sempre facilissimo e fulminante. La relativa snellezza del registro centrale le permette di ritrarre una Principessa psicologicamente più fragile, caratteristica che risalta bene nel canto più controllato e ondulato che emerge al ricordo della “ava dolce e serena”, una vera richiesta di pace piuttosto che desiderio di vendetta: una malinconia evasiva che pervade il personaggio nel corso di tutta l’opera, rendendo ancora più assurdi i feroci tagli nel finale, ridotto al solito moncherino. Sappiamo per esperienza che cosa può diventare “Del primo pianto” nelle sue mani: la chiave di lettura del personaggio. Fa anche piacere notare che negli anni la pronuncia italiana del soprano è notevolmente migliorata. Al di là delle pecche di alcuni esecutori, la recita è stata un successo, anche perché, mentre cantanti e direttore vanno e vengono, un allestimento in genere in questo tipo di Festival è creato per durare a lungo, e non vi è dubbio che questo saprà assolvere a questo compito. English Version