Torre del Lago, Sessantestimo Festival Puccini, Auditorio Enrico Caruso
“IL TRITTICO”
Musica di Giacomo Puccini
“IL TABARRO”
Dramma in un atto, libretto di Giuseppe Adami
Michele ALESSIO POTESTIO
Giorgetta VALENTINA BOI
Luigi MIRKO MATARAZZO
Il Tinca MANUEL PIERATTELLI
Il Talpa MARCO SIMONELLI
La Frugola LAURA BRIOLI
Un venditore di canzonette UGO TARQUINI
Due amanti UGO TARQUINI, FRANCESCA MARTINI
Le Midinette FEDERICA GRUMIRO, VITTORIA LAI, FRANCESCA ROMANA TIDDI, MARIACARLA SERAPONTE, PAOLA RONCOLATO, MARINA GUBAREV.
“SUOR ANGELICA”
Dramma in un atto, libretto di Giovacchino Forzano
Suor Angelica ANNA MARIA STELLA PANSINI
La Zia Principessa LAURA BRIOLI
La Badessa PAOLA RONCOLATO
La Suora Zelatrice MARINA GUBAREV
Suor Genovieffa FEDERICA MAROTTA
Suor Osmina HANYING TSO
Suor Dolcina FEDERICA GRUMIRO
La Suora Infermiera FRANCESCA CAPPELLETTI
Prima Cercatrice MARIACARLA SERAPONTE
Seconda Cercatrice / Ua Novizia FRANCESCA ROMANA TIDDI
Prima Conversa FEDERICA MARTINI
Seconda conversa MYRTO BOCOLINI
“GIANNI SCHICCHI”
Dramma in un atto, libretto di Giovacchino Forzano
Gianni Schicchi JACOPO BIANCHINI
Lauretta FRANCESCA CAPPELLETTI
Rinuccio MANUEL PIERATTELLI
La Zita SANDRA MELLACE
Gherardo UGO TARQUINI
Nella FRANCESCA ROMANA TIDDI
Betto PEDRO CARRILLO
Simone MARCO SIMONELLI
Marco VEIO TORCIGLIANI
La Ciesca MARINA GUBAREV
Maestro Spinelloccio/Ser Amantio di Nicolao VELTHUR TOGNONI
Pinellino GABOR KOVACS
Guccio SIMONE FREDIANI
Gherardino MATILDE SILICANI
Orchestra e Coro del Festival Puccini
Coro delle voci bianche del Festival Puccini
Direttore e concertatore Bruno Nicoli
Maestro del coro Francesca Tosi
Voci bianche dirette da Sara Matteucci
Regia Selene Farinelli (“Il Tabarro”), Vittoria Lai e Giorgia Guerra (“Suor Angelica”), Elena Marcelli (“Gianni Schicchi”)
Scene Monica Bernardi
Costumi Lorena Marin
Disegno luci Valerio Alfieri
Nuovo allestimento
Torre del Lago, 21 agosto 2014
La sorte del Trittico fu segnata sin dalla prima assoluta nel 1918 quando il pubblico del Metropolitan di New York accolse Il tabarro con un applauso di circostanza, provò indifferenza (con qualche punta di ostilità) di fronte a Suor Angelica e mostrò sincero entusiasmo soltanto per il terzo panello, Gianni Schicchi. Nonostante le veementi obiezioni del compositore, Il trittico iniziò ad esser smembrato, tanto è vero che persino il Festival Puccini ha di rado eseguito l’opera nella sue interezza; basti pensare che l’ultimo allestimento risaliva al 1974. Se alla prima di alcune settimane fa partecipavano alcuni cantanti di chiara fama e con ricca dimestichezza con i rispettivi ruoli quali Amarilli Nizza e Alberto Mastromarino, a questa recita, con l’eccezione del direttore d’orchestra, la stragrande maggioranza dei cantanti erano alle primissime esperienze professionali. Giovani professioniste sono anche le responsabili di regia, scene e costumi, vincitrici di un concorso bandito dal Festival allo scopo di selezionare esclusivamente artiste donne. La maggioranza dei cantanti proviene dall’Accademia di Alto Perfezionamento del Festival, istituzione nata nel 2009 con l’obiettivo di preparare giovani artisti all’esecuzione delle opere del maestro lucchese. E se scene e costumi sono stati assegnati rispettivamente a Monica Bernardi e Lorena Marin, ben quattro sono state le registe prescelte: Selene Farinelli (Il tabarro), Vittoria Lai e Giorgia Guerra (Suor Angelica) e Elena Marcelli per Gianni Schicchi. Infine, proprio per sottolineare la natura diversa di questo esperimento, le tre opere sono allestite non già nell’enorme teatro all’aperto, bensì nel minuscolo “Auditorio Enrico Caruso”, uno spazio di appena trecento posti, che ha reso possibile una relazione molto più intima fra palcoscenico e pubblico, impossibile nella consueta sede del Gran Teatro Giacomo Puccini di 3400 posti.
Il vero protagonista del Tabarro è, come indicato da Puccini stesso in una lettera indirizzata al librettista, il fiume, e Monica Bernardi ha appropriatamente creato delle scene in cui il costante luccichio della Senna non cessa mai di dominare l’atmosfera; la barca è quasi schiacciata dal fiume e da un alto muro che enfatizza il senso di claustrofobia congenito al dramma. Lo stesso fondale viene poi efficacemente impiegato per creare il convento di Suor Angelica: dopo tutto chiostro e claustrofobia hanno la stessa etimologia. Gianni Schicchi al contrario sorprende il pubblico con scene completamente diverse, formate da una tenda a strisce bianche e rosse, che comunque, in un autentico colpo di scena, si apre durante il duettino finale fra Lauretta e Rinuccio a mostrare un’enorme mappa della Firenze medioevale. Lavorando con un budget piuttosto contenuto, Bernardi è riuscita a creare una cornice essenziale e funzionale ma anche visivamente piacevolissima, in cui le registe potessero muoversi liberamente, assistita da Lorena Marin, creatrice di costumi ricchi e dettagliati (basti pensare alla minuta differenzazione gerarchica all’interno de convento) consoni al periodo in cui si è deciso di ambientare l’azione. Il tabarro si svolge come da libretto all’inizio del ventesimo secolo. La vita in un convento di clausura non cambia molto nel corso dei secoli per cui l’unico segno di spostamento di periodo in Suor Angelica è l’abito della Zia Principessa, che sembra appartenere più o meno al 1910. Schicchi è fermamente ancorato all’anno previsto dal libretto, il 1299. Il fil rouge che collega le tre opere è la presenza in palcoscenico di un bambino che rappresenta i figli morti di Giorgetta e Angelica da una parte e dall’altra Gherardino, che al contrario è sin troppo vivace. Il momento più pericoloso del Trittico è inevitabilmente la scena del miracolo in Suor Angelica: come descritta nel libretto, con una comparsa che appare vestita come una Madonna che spinge un bambino verso Angelica, ai giorni nostri rischierebbe di provocare risatine fra il pubblico. Come in altri allestimenti moderni, la presenza della Vergine è indicata dalla luce, che in questo caso filtrava attraverso alcune fessure del muro. Particolarmente delicato è stato il momento in cui il bambino, seduto su una cassapanca con le spalle rivolte al pubblico, lentamente va a sdraiarsi accanto alla mamma che si era trascinata agonizzante sul palcoscenico cercando di raggiungerlo, una soluzione che ha ottenuto il risultato sperato senza esser mielosa o stucchevole. Nella regia di Schicchi colpisce il perfetto tempismo comico, la naturalezza e levigatezza dei gesti degli attori che fluiscono senza interruzione dall’inizio alla fine: ogni movimento nasce dal precedente e si fonde nel successivo.
I cantanti, quasi tutti provenienti dalla summenzionata Accademia, erano quindi ragazzi senza molta esperienza sul campo, e le acerbità che spesso si percepivano erano pressoché inevitabili. L’unica cantante ad offrire una prova completamente positiva senza se e senza ma è stata Valentina Boi nei panni di Giorgetta; il soprano livornese ha un timbro da soprano lirico pieno con tendenza allo spinto, opulento, pastoso, sensuale nel registro centrale (dove in fin dei conti questo ruolo gioca le sue carte migliori), un registro grave dalle ombreggiature quasi mediosopranili e scatti verso l’alto piuttosto sicuri (notevoli i due Do acuti, soprattutto quello più rotondo del duetto con Michele); ha a disposizione un’ampia tavolozza dinamica e rispetta le indicazioni del compositore senza compromessi; ciliegina sulla torta, è di bella presenza e si muove in scena con spontaneità monopolizzando l’attenzione dello spettatore. Alessio Potestio al momento non sembra possedere il volume e il timbro tenebroso richiesti dalla parte di Michele e anche la presenza scenica aveva ben poco di minaccioso; volume a iosa invece offriva il tenore Mirko Matarazzo (Luigi), che scaglia al cielo tonnellaggi di suono scuro e gagliardo ma emesso con troppo sforzo, troppa presenza di contrazioni di gola, poco immascherato e quindi carente di armonici. L’unica veterana fra le parti principali, Laura Brioli, mezzosoprano acuto, si è trovata a proprio agio più nella parte della Frugola che in quella di Zia Principessa, la cui tessitura puramente contraltile l’ha costretta ad inventarsi suoni artefatti e intubati. Anna Maria Stella Pansini (Suor Angelica) ha dato il meglio di sé nei brani squisitamente lirici, con un “Senza mamma” quasi da manuale, mentre i momenti in cui l’atmosfera si fa tesa e la tessitura frastagliata la mettono a dura prova; tanto per fare un esempio, il do acuto di “O Madonna salvami”, emesso a piena voce alla fine di un brano concitato risultava opaco e leggermente ingolato, mentre quello preso pianissimo fuori scena era dolcissimo e tenuto a lungo. Il protagonista di Gianni Schicchi, Jacopo Bianchini, si trovava alle prese con un ruolo che pur non presentandogli problemi di ordine vocale, richiede maggior esperienza con il palcoscenico; il suo era uno Schicchi troppo serioso e inamidato, poco sciolto e rilassato. Manuel Pierattelli (che era stato un Tinca fresco e giovanile), ha evidenziato problemi di tenuta vocale nel ruolo di Rinuccio, mostrando soprattutto difficoltà a concludere ogni frase senza piccoli colpi di glottide, che rovinano il legato; i La diesis dell’aria erano aleatori. Francesca Cappelletti ha offerto una Lauretta più che dignitosa, ma con un’aria tanto inflazionata quanto “O mio babbino caro” è legittimo attendersi maggiori capacità di far galleggiare il suono su quei La bemolle. Sandra Mellace, pur vocalmente un po’ scomposta, era una Zita di rara efficacia comica (apprezzabile a tal proposito l’idea, certo non nuova, di far cantare gli artisti con la gorgia toscana). Non ce ne vogliano gli altri interpreti se non li menzioniamo tutti quanti, ma in queste tre opere le parti secondarie sono davvero tante e si rischierebbe di creare l’effetto “elenco telefonico”. Basti sottolineare che tanto lavoro d’insieme perfettamente riuscito era dovuto soprattutto all’eccellente direzione di Bruno Nicoli, spedita, senza svenevolezze o indugio compiaciuti sulle raffinatezze quasi debussyane della scrittura strumentale, senza dubbio presenti ma ben inserite in una narrazione robusta, che dà la rassicurante sensazione che ad ogni momento si stia svolgendo una vicenda in carne ed ossa e non un’analisi strutturale.