Sessantesimo Festival Puccini, Gran Teatro Puccini, Torre del Lago
“LA BOHÈME”
Scene liriche in quattro atti sul libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
Musica di Giacomo Puccini
Mimì DANIELA DESSÌ
Musetta ALIDA BERTI
Rodolfo FABIO ARMILIATO
Marcello ALESSANDRO LUONGO
Schaunard FEDERICO LONGHI
Colline MARCO SPOTTI
Benoit/Alcindoro ANGELO NARDINOCCHI
Parpignol UGO TARQUINI
Sergente dei doganieri MARCO SIMONELLI
Un doganiere JACOPO BIANCHINI
Orchestra del Festival Puccini
Coro del Festival Puccini
Coro delle voci bianche del Festival Puccini
Direttore e concertatore Valerio Galli
Maestro del coro Stefano Visconti
Maestro del coro delle voci bianche Sara Matteucci
Regia Ettore Scola
Scene Luciano Riccieri
Costumi Cristina Da Rold
Luci Valerio Alfieri
Nuovo allestimento
Torre del Lago, 26 luglio 2014
Questa edizione del Festival Puccini è stata concepita come quella della grande svolta, con ben quattro nuovi allestimenti, come già menzionato nella recensione di Madama Butterfly, tutti capolavori del padrone di casa, senza infiltrazioni di opere celeberrime di altri compositori (come è successo nelle passate edizioni per cercare di far cassetta); allestimenti per cui, al contrario di molti di quelli di stagioni recenti, la direzione del Festival sembra non aver badato a spese, almeno a giudicare dai due finora andati in scena. L’edizione della Bohème piuttosto recente di Maurizio di Mattia, andata in scena per l’ultima volta nel 2012, pur avendo riscosso successo di pubblico e di critica non può certo competere in termini di pura spettacolarità con quella che ora giunge a sostituirla. L’elemento che subito colpisce nella nuova produzione di Ettore Scola, anche alla sola vista della scenografia del primo atto ancor prima che abbia inizio l’opera, è l’ovvio riferimento alle varie fortunatissime messinscene che nel corso dei decenni Franco Zeffirelli ha allestito in alcuni dei più importanti teatri internazionali. Scola, celeberrimo e premiatissimo regista cinematografico responsabile di alcuni dei film italiani più memorabili degli ultimi cinquant’anni, qui alla sua prima esperienza operistica, ha infatti preferito – come del resto spiega nelle note di regia – affidarsi alla tradizione, resistendo alle forti tentazioni iniziali di “rivoluzionare impianti e concezioni adottati in altre edizioni rappresentate in tutti i teatri del mondo.” Il risultato è un allestimento sfarzoso senza eccessi o cadute di gusto (che non mancano al contrario nelle messinscene del sopraccitato regista fiorentino), ricco di dettagli, di comparse che molto cinematograficamente si muovono fra i protagonisti e ne fanno da complemento, di scene di massa ben coreografate, e soprattutto di un’attenzione alla recitazione che non si basava solo sui grandi gesti tipici di una rappresentazione teatrale, ma su un’attenzione (anche questa tutta cinematografica) alle espressioni del volto, talora persino troppo sottili per esser notate a distanza e visibili solo attraverso l’uso di un cannocchiale. Si tratta in poche parole di una produzione di sicura presa sul pubblico, che sarà indubbiamente destinata a durare nel tempo e financo diventare un classico. Le opulente scene di Luciano Ricceri e i curatissimi ed eleganti costumi di Cristina Da Rold si adattavano perfettamente alla concezione del regista, così come le belle luci di Valerio Alfieri, che in questo caso non hanno primeggiato come la sera precedente ma si sono amalgamate con le scene in modo sottile e meno appariscente.
La resa puramente musicale era per fortuna lontana anni luce dalla mediocrità che pervadeva Madama Butterfly. Il merito è da attribuirsi soprattutto a Valerio Galli, giovane direttore d’orchestra viareggino per una volta “profeta in patria”, artisticamente nato al Festival Puccini e che di Puccini è diventato in poco tempo un autentico specialista. Anche in quest’occasione Galli si è rivelato una presenza ispiratrice, sprizzante energia ritmica da ogni poro un po’ ovunque ma particolarmente nel secondo atto, dove riesce nell’ardua impresa di trovare e mantenere un perfetto equilibrio fra le voci dell’orchestra e quelle del palcoscenico, modellando e plasmando la gioiosità della musica al fine di ottenere un effetto cumulativo. L’energia e la precisione non schiacciano e non sopraffanno la “romance”, il lato schiettamente amoroso dell’opera, per non parlare di quello più tragico, la morte di Mimì, realistica senza esser troppo veristicamente calcata, con quel giusto grado di evanescenza necessaria a far capire che, come è ben noto, non muore solo una povera ragazza malata e indigente, bensì un concetto, un’idea. Tutto ciò è portato a termine dal direttore con piena padronanza di una tecnica superba, poiché le più sagaci intuizioni del mondo non prendono forma senza il possesso dei mezzi necessari a dar loro vita.
Anche qui, come in Butterfly, felicissima è stata la scelta dei ruoli di supporto, a cominciare da quelli di comprimario ( il Benoit/Alcindoro di Angelo Nardinocchi) a quelli ben più sostanziosi: Federico Longhi (Schaunard) ha evidenziato una voce rotonda e corposa, adatta senza dubbio anche a Marcello, oltre a notevoli doti attoriali; ottimo Marco Spotti che pur senza avere un timbro particolarmente ammaliante canta l’aria della zimarra con notevolissima delicatezza; Alida Berti (Musetta), dietro ovvie indicazioni del direttore d’orchestra, elimina ogni petulanza e ogni inflessione da “passeggiatrice” da pochi soldi, anche se la voce, piuttosto sicura in alto, non è fermissima nel registro centrale; e Alessandro Luongo ha impersonato un Marcello caldo, simpaticissimo, dal canto rifinito e omogeneo.
Daniela Dessì era in forma smagliante. In un ruolo come quello di Mimì, essenzialmente esente da “estremismi”, giocato principalmente sul registro centrale, il celebre soprano può ancora far sfoggio di un timbro da lirico puro che la natura ha dotato di bellezza come pochi altri, senza che la voce sia sottoposta a sforzi inflitti da scelte di repertorio ad essa estranee. Mimì le permette di mostrare tutta la bontà del suo armamentario tecnico, con esibizioni di pianissimi mozzafiato sui La naturali della prima aria; persino il Do acuto della fine del primo atto risultava ottimo e perlopiù scevro di quel sapore metallico che spesso e volentieri acquista il registro acuto del soprano. Senza il timore di incorrere in incidenti di percorso, la Dessì poteva inoltre concentrarsi sulla sua abilità di grande fraseggiatrice. Certo, in alcuni momenti i trentacinque anni di carriera facevano capolino, ma nel complesso è stata una prova di altissimo livello, la migliore, nella nostra esperienza di ascoltatori, da lei offerta da vari anni a questa parte. Fabio Armiliato (Rodolfo) ha evidenziato i pregi e i difetti di sempre, questi ultimi purtroppo sempre più prevalenti sui primi. Al suo attivo metteremo un’indubbia presenza scenica e un notevole volume vocale, che però non riescono a far dimenticare l’emissione ingolata di ogni nota sul passaggio di registro e al di sopra dello stesso, per cui gli acuti, benché potenti, risultano sordi e poveri di armonici. Per la cronaca, la romanza del primo atto era abbassata di un semitono: pratica ancora purtroppo abbastanza comune ma non per questo auspicabile. Il pubblico, che in entrambe le serate ha fortunatamente – e a dispetto del tempo inclemente – riempito il teatro come non accadeva da anni, ha decretato un enorme successo a questa Bohème, che avrebbe meritato appieno l’onere e l’onore dell’inaugurazione.