Dramma per musica in tre atti su libretto di autore ignoto da Orlando di Carlo Sigismondo Capece. Bejun Mehta (Orlando), Sophie Kartäuser (Angelica), Kristina Hammarström (Medoro), Sunhae Im (Dorinda), Kostantin Wolff (Zoroastro), B’ Rock Orchestra Ghent, René Jacobs (direttore). Registrazione: Bruges, Concertgebouw, Luglio & Agosto 2013.2 CD Deutsche Grammophon “Archiv” 0289 479 2199.
Della prolifica mente di Händel, finalmente, ora come non mai, si possono apprezzare appieno i frutti: Orlando – la cui première avvenne al King’s Theatre, il 27-01-1733 −, dopo le recite d’apertura, cadde praticamente nell’oblio, fintantoché non fu recuperato nel 1922 (Händel-Fest di Halle). Ma la consacrazione effettiva a stabile opera di repertorio barocco, a seguito di quel timido battesimo, l’Orlando l’ebbe nel 1985 a La Fenice di Venezia, quando sotto la bacchetta di Sir Charles Mackerras rivisse per opera di artisti del calibro di Marilyn Horne, nel ruolo del titolo, e Lella Cuberli, nei panni di Angelica. Dopo quella data, vi fu la consacrazione effettiva: ben cinque edizioni, quattro in CD e una in DVD, dimostrarono l’amore per un’opera che oggettivamente presenta più di un momento di ottima musica.
In questo panorama s’inserisce la scelta editoriale della blasonata Deutsche Grammophon (Archiv), che propone l’incisione dell’Orlando con un cast già interamente testato sulla piattaforma belga del teatro de La Monnaie. Il risultato è eccellente: alla presenza di strumenti che tentano di riprodurre, il più fedelmente possibile, le sonorità volute dall’autore, avviene il restauro della compagine vocale, coll’utilizzo di un controtenore per la parte del castrato e un contralto per quella di Medoro.
René Jacobs, poliedrica figura musicale – a un’iniziale carriera da controtenore, con cui divenne celebre, oggi ha sostituito quella di direttore d’orchestra, specializzato quasi esclusivamente in repertorio barocco −, tiene perfettamente l’orchestra e sa consigliare al meglio i cantanti. Dal canto suo, l’orchestra risponde con una buona varietà di soluzioni sonore: la cosa è evidente fin dall’ouverture, dove a un movimento suggerente una sonnolenta e cupa stagnazione notturna fa capolino un altro più movimentato, una fuga, che si richiude nel primo. Proprio l’ouverture, dove Jacobs palesa senso del ritmo e un polso spigliato − quando vuole −, suggella, si può dire, la complessiva idea interpretativa della partitura: far scorrere il dettato musicale con la naturalezza più aderente alla sonorità squisitamente mimetica, idea che paga giacché evidenzia i momenti cupi, come quelli più bucolici, rifiutandosi di inserirli, però, in un’arcadica asetticità che li avrebbe appiattiti. Così emergono, nel loro smalto, il passaggio orchestrale della descrizione della reggia di Amore (I atto) e l’intermezzo orchestrale in cui l’aquila porta a Zoroastro il senno di Orlando.
Molto del successo discografico è da imputarsi alla salda presenza del talentuoso Bejun Mehta, figlio d’arte (la madre è un soprano, il padre un pianista, cugino del celebre direttore d’orchestra Zubin Mehta); la sua voce pastosamente duttile, dolcemente mielosa, ma che sa trovare sonorità brune, gli consente di affrontare tutte le sfaccettature di un canto che da stereotipato diviene più finemente psicologico, inconsueto per la maggior parte delle parti cantate dagli «evirati cantori», come li definiva sprezzantemente il Foscolo (Dei Sepolcri 74), tanto che, insoddisfatto, Francesco Bernardi (il “Senesino”), primo interprete del ruolo, si diede indisposto facendo cancellare l’opera. Mehta conferisce alle arie precedenti la follia (che arriva piena nel finale II) una fresca vigoria: l’arioso «Stimolato dalla gloria», dove la pura fermezza del suono si cristallizza in una messa di voce mozzafiato; l’aria «Non fu già men forte Alcide», ben cantata, con fraseggio invidiabile e sensuale (buone le variazioni, i portamenti, come pure i salti e i trilli); ancora l’aria d’impeto e d’assalto, classica nel panorama barocco, «Fammi combattere», irta di variazioni, cambi ritmici e difficoltà, resa in maniera assai convincente. La bravura di Mehta sta nello sfogliare la pazzia lentamente; l’aria dell’ira di Orlando (II atto), «Cielo! Se tu il consenti», lo vede confrontarsi con movenze vocali agitate, frammenti ripetuti e spericolate agilità, moduli classici di descrizione dell’incipiente follia (Orlando, «che per amor venne in furore e matto, / d’uom che sì saggio era stimato prima» − Ariosto, Orlando Furioso 1. 2. 3sg. − ha appena scoperto le incisioni dei nomi di Medoro e Angelica su un albero, cosa che scatena in lui la follia). Il tutto esplode nel finale II, che incomincia strutturalmente insolito (mancano forme classicamente chiuse) proprio a suggerire l’instabilità mentale, «Ah stigie larve! Ah scellerati spettri!», un complesso delirio visionario (una classica visione dell’Inferno), modernissimo per gli accenti e le movenze musicali; nel passo finale si regolarizza in un arioso lamentoso, «Vaghe pupille, non piangete, no», inframmezzato da una sezione più movimentata. Qui Mehta raggiunge l’acme della sua performance. Le ultime frecce della sua tripudiante faretra, Mehta le scaglia nella celebre ‘aria del sonno’, «Già l’ebro mio ciglio» (III atto), una perla drammaturgica, in cui progressivamente si assopisce – Händel si servì delle cosiddette ‘viole marine’, da poco inventate, per rendere l’effetto dell’addormentamento.
Gli altri cantanti sono tutti all’altezza. Sophie Kartäuser interpreta Angelica: voce corposa, squillante, timbricamente aggraziata, in possesso dell’appropriata tecnica. Lo dimostra durante tutta l’opera, nei pezzi d’assieme, il duetto con Medoro e il terzetto finale I (tra Angelica, Medoro, Dorinda: uno dei passi più belli della partitura, in cui in particolare le voci di Medoro e Angelica si armonizzano benissimo), come nella sua aria principale, «Verdi piante, erbette liete», un lunghissimo lamento che evolve una linea melodica semplice in differenti variazioni. I caratteri di Angelica e Medoro sono trattati spesso specularmente: Händel previde per questo personaggio una tessitura contraltile femminile, anche se oggi è per lo più affidato a controtenori. Ma, nella presente edizione, il ruolo è affidato a Kristina Hammarström: la sua aria più bella, una delicata elegia, «Verdi allori sempre unito», fa da pendant al lamento di Angelica. Le caratteristiche della sua voce, dall’aerea plasticità, di pèsca, tornita e polposa, si palesano pienamente nell’aria dell’inganno a Dorinda e nella successiva aria delle scuse («Vorrei poterti amar»), alla quale si unisce, oltre al connaturato animo erotico di Meodoro, il pathos e l’intensità descriventi il sincero dispiacere per la mancata reciprocità del sentimento. Deliziosa la Dorinda di Sunhae Im; ce ne accorgiamo fin dal recitativo «Quanto diletto avea tra questi boschi», con quelle curatissime allitterazioni cui fanno eco saltelli musicali imitanti il canto degli uccelli, e dalla sua aria successiva, «Ho un certo rossore», con pennellate di flauto. Voce liricissima, delicata, sobria e essenziale, la cui vetta più elevata è raggiunta durante il dolcissimo arioso che apre il II atto, «Quando spieghi i tuoi tormenti»: la cantante imita perfettamente il saltellio del verso dell’uccello, in una mimesi naturale, eterea e bucolica. Struggente nella melodiosa «Se mi rivolgo al prato»; addirittura spiritosa nell’anticonvenzionale aria (uno squarcio comico) sulla morale d’amore, «Amor è qual vento». Il motore dell’azione, elemento magico caro alla spettacolarità barocca e neoclassica, Zoroastro, è interpretato da Kostantin Wolff: la sua voce granulosa, baritonale, non gli rende facilissimo il compito nelle variazioni della sua parte (come in «Lascia amor e segui Marte»). La miglior performance la trova nell’aria «Sorge infausta una procella» (III atto) e nel recitativo d’apertura, in cui contempla un cielo stellato. L’opera si conclude, a lieto fine, con un classico coro tripudiante e inneggiante all’amore, cui Jacobs tenta di conferire vivacità sopra il manto di convenzionalità.