Opéra en trois actes su libretto di François-Bernad Hoffmann. Philippe Do (Adrien), Gabrielle Philiponet (Émirène), Jennifer Borghi (Sabine), Philippe Talbot (Pharnaspe), Marc Barrard (Cosroès), Nicolas Courjal (Rutile), Jean Teitgen (Flaminius), Katalin Szutrély (Une Romaine). Purcell Choir, Orfeo Orchestra, György Vashegyi (direttore). Registrazione: Palace of Arts – MUPA (Budapest), les 25 et 26 juin 2012. T.Time: 122′.37″. Produzione Palazzetto Bru Zane, 2014 in collaborazione con Ediciones Singulares. Disponibile solo in download
Étienne-Nicholas Mèhul è figura di primario interesse nel contesto della musica francese negli anni della Rivoluzione e del Primo impero. Nato nel 1763 a Givet nelle Ardenne all’interno di quell’area renana culturalmente ad un tempo francese e tedesca si era formato inizialmente con l’organista Wilhelm Hanser anch’egli tedesco che lo aveva portato verso una concezione musicale più prossima a quella germanica. Giunto a Parigi nel 1779 si perfeziona con un altro figlio del mondo renano, il clavicembalista alsaziano Jean-Frédéric Edelmann che grazie ai suoi buoni rapporti con le corti tedesche riuscirà a mettere il giovane allievo in contatto con Wolfgang Amadeus Mozart e Charl Philipp Emanuel Bach. Quest’apertura verso i fermenti musicali – e più generalmente culturali – che stavano interessando in quegli anni il mondo tedesco, molto più dinamico e stimolante di quello francese troppo irrigidito nelle sue istituzioni, resteranno fondamentali per tutta l’evoluzione di Mèhul come compositore. Fin dal primo tentativo con “Cora” nel 1789 i rapporti fra Mèhul e l’Academie royale de musique e le sue eredi rivoluzionarie saranno estremamente complicati di fatto chiudendo al compositore le porte dell’Opéra, di conseguenza Mèhul sposterà le sue attenzioni verso la più disponibile Opéra-comique di cui non solo sarà il principale protagonista nei decenni seguenti ma l’autentico artefice di una rivoluzione copernicana nella storia di quel teatro. Fin da “Stratonice” (1792) Mèhul propone soggetti di carattere eroico e dalla solidissima concezione teatrale che innovano profondamente la natura degli spettacoli del teatro trasformandolo da tempio dello spettacolo leggero a luogo di sperimentazione da cui nasceranno molti degli elementi che caratterizzeranno l’opera romantica francese del nuovo secolo. Negli anni seguenti questa dimensione sperimentale resterà un tratto caratterizzante le composizioni di Mèhul e raggiunge forse il culmine nel dramma “Uthal” del 1806 in cui le tinte fosche dell’epica ossianica sono evocate da un’originalissima orchestrazione che esclude i violini sostituendoli con sole viole per ricreare un colore più cupo e misterioso. La morte prematura per tubercolosi nel 1817 ha privato la Francia di uno dei suoi compositori più originali.
La genesi dell’”Adrien” è strettamente legata ai complessi rapporti con l’Opéra precedenti il definitivo accasamento all’Opéra-comique. Destinata ad essere rappresentata nel 1791 l’opera fu bloccata dalla censura e anche negli anni successivi continuo ad essere respinta dalle commissioni di verifica tanto da poter vedere la luce – dopo numerosi rifacimenti – solo nel 1799 quando parte della sua carica rivoluzionaria era andata ovviamente persa. “Adrien” rappresenta uno dei risultati più compiuti della cosiddetta “musica rivoluzionaria” ovvero l’adattamento alla realtà francese dei nuovi moduli espressivi di natura pre-romantica che si andavano affermando in Germania intorno al movimento dello Sturm und Drang. Il libretto di François-Bernad Hoffmann riprende sostanzialmente un vecchio testo di Metastasio, l’”Adriano in Siria” andato in scena la prima volta a Vienna nel 1732 con musiche di Caldara e successivamente ripreso da numerosi compositori fra cui Pergolesi. Il libretto di Hoffmann non si limita ovviamente ad una traduzione ma riscrive totalmente il testo adattandolo ai moduli teatrali della fine secolo anche se la vicenda nel suo andamento complessivo resta invariata e gli stessi nomi dei personaggi subiscono poche variazioni (il re dei Parti passa da un più corretto Osroa a Cosroe, nome decisamente più persiano che partico; Aquilio diventa Rutilo e si aggiungono i ruoli comprimari di Flaminio e di una romana). Sul piano drammaturgico si nota soprattutto uno spiccato interesse da parte di Mèhul per il recitativo e per le sue capacità espressive; gran parte del primo atto – chiamato a definire le coordinate drammaturgiche della vicenda – si articola sostanzialmente sui recitativi, specie secchi in quanto questi permettevano una maggior libertà espressiva al cantante, gli autentici pezzi chiusi sono solo due – i duetti Pharnaspe-Cosroe ed Emirena-Adriano – più le due arie di sortita di quest’ ultimo e di Emirena che appaiono però come più sviluppi melodici sorgenti dal recitativo che autentici pezzi chiusi. Negli atti successivi la vicenda può dipanarsi con maggior distensione lasciando più spazio alla melodia ma il recitativo continua ad avere una centralità drammaturgica evidente come attesta il riemergere di questa forma anche in spazi tradizionalmente legati al puro canto come il finale del I atto.
L’altro aspetto emergente è la ricerca di un rigoroso impianto drammaturgico ricondotto agli elementi fondamentali e sfrondato da tutti gli elementi accessori. Il balletto – componente essenziale della tragedie lyrique – è totalmente espunto almeno dalla definitiva versione del 1799 (non sappiamo se in origine avesse un maggior spazio poi scomparso con l’affermazione di una più matura idea teatrale) ciò che rimane è la pantomina del II atto con l’agguato partico ai soldati romani e il tentativo di questi di entrare ad Antiochia con le armature sottratte al nemico ma si tratta di un momento di autentico teatro mimico lontanissimo dalla dimensione sostanzialmente estetizzante del balletto operistico settecentesco. Nella stessa ottica di teatralità dell’insieme va letta l’originalissima struttura del finale primo che cessa di essere un momento di tensione statica come nell’opera settecentesca – dove a prevalere era principalmente il contrasto degli affetti – per divenire un momento dinamico e teatrale con ripetuti ribaltamenti dell’azione scenica tanto che alcuni hanno tentato di ravvisare in esso una sorta di archetipo dei finali d’atto del grand’opera meeyeberiano e che in quell’orizzonte cronologico trova confronti solo con quelli de “La clemenza di Tito” mozartiana (1791) e della “Lodoïska” di Cherubini (1791) create nel medesimo momento.
La scrittura orchestrale è estremamente ricca e almeno nel rifacimento del 1799 fa proprie tutte le forme più evolute della scrittura musicale sviluppatesi soprattutto in area germanica nella direzione di una forza espressiva decisamente protoromantica e quasi pre-beethoveniana. La vocalità si ricollega direttamente a quella in uso nelle opere contemporanee di Cherubini e Spontini con una prevalenza di una declamazione ampia e solenne sorretta da una scrittura orchestrale come detto molto ricca. La coloratura è limitata e non impone particolari difficoltà agli interpreti che di contro sono chiamati ad impegnarsi su estensioni vocali estese, spesso caratterizzate da ampi scarti vocali che possono creare agli interpreti non poche difficoltà ma che servono a rinforzare il tono eroico della partitura.
Registrata a Budapest nel 2012 questa produzione vede impegnata l’Orfeo Orchestra e il Purcell Choir diretti da György Vashegyi, l’ancor giovane clavicembalista e direttore ungherese (classe 1970) fondatore nel 1991 di entrambi i complessi. Allievo di Gardiner il direttore si mostra perfettamente a conoscenza della prassi esecutiva dell’epoca e l’orchestra magiara testimonia al meglio la fioritura di complessi specializzati in questo tipo di musica ormai in gran parte d’Europa accomunati dalla grande passione e da un livello medio ormai decisamente molto alto, quasi impensabile agli inizi dell’era della filologia musicale; fenomeno che rappresenta una dei fatti più salienti dell’attuale scena musicale. L’orchestra mostra infatti una grande compattezza di suono, superando con sicurezza le non poche difficoltà che la partitura pone agli esecutori e rendendo al pieno la lettura tesissima e decisamente proto-romantica offerta da Vashegyi. Il coro non è da meno contribuendo alla perfetta riuscita del grande finale del primo atto, uno dei momenti musicalmente più significativi della composizione.
La compagnia di canto è apprezzabilissima e fornisce una lettura attendibile della partitura. Tutti i cantanti mostrano un perfetto controllo dell’articolazione fonetica e della prosodia francese, elementi essenziali per la riuscita di questo repertorio.
Nel ruolo del titolo la prova di Philippe Do è ambivalente. Il tenore franco-vientamita dispone di una voce decisamente molto bella, chiara e luminosa e di un’ottima linea di canto capace di calzare come un guanto nei momenti più lirici e sognanti e brani come l’aria di entrata “Belle captive” o la splendida cabaletta “Allez! Allez! Belle Émirène” con il suo ondeggiante ritmo quasi di barcarola esprimono un inevitabile fascino; di contro la natura sostanzialmente lirica ed elegiaca di Do appare decisamente più in difficoltà nei momenti in cui Adriano è chiamato ad un canto eroico come l’aria del II atto “Oui, vous voyez mon trouble extrême” il cui piglio eroico e le salite di forza all’acuto mostrano qualche difficoltà così come in certi recitativi caratterizzati da una solennità retorica di pretta matrice raciniana in cui la voce manca del peso specifico e dell’autorevolezza che si auspicherebbero. Discorso analogo per la Sabine di Jennifer Borghi in cui ancora più evidenti appaiono certi limiti. Il soprano ha sicuramente una voce piacevole e una buona linea di canto ma anche nel suo caso siamo di fronte ad una voce essenzialmente lirica mentre la parte di Sabina richiederebbe una drammaticità della quale la Borghi è carente nonostante l’apprezzabile lavoro d’accento e di fraseggio. La figura di Sabina nei suoi sentimenti estremi fa propria una vocalità che ricorda quella della Medée di Cherubini fatta di declamati di forza su un tessuto orchestrale molto denso, scarti ampi e spesso violenti della linea vocale, acuti scagliati come lame che tendono ad evidenziare la natura non ideale della cantante per un ruolo di questo tipo. “De Rome craignez la colère…” è pagina di forza espressiva quasi parossistica e servirebbe il fraseggio di una Callas per renderla al meglio mentre la Borghi la canta con corretta professionalità lasciandone solo intravedere le possibilità espressive. Gabrielle Philiponet è un’ottima Émirène, voce morbida, carezzevole, con suggestive velature brunite e linea di canto rifinita ed elegante si dimostra perfettamente a suo agio nei panni della principessa partica il cui registro espressivo è principalmente indirizzato verso un patetismo lirico che si apprezza fin dal cantabile di sortita “Fidèle a mon amant” e che ritorna nei successivi duetti con Adriano e Pharnaspe ma risolve con proprietà anche l’aria del secondo atto “S’il périt, hélas!” dalla linea espressiva più mossa e drammatica, quasi cherubiniana. Molto positiva anche la prova del tenore Philippe Talbot (Pharnaspe) anche la sua parte è di natura più lirica che drammatica e la bella voce di autentico haute-contre del tenore francese ne esalta al meglio la natura patetica e sentimentale contribuendo alla riuscita dei duetti con Émirène così ricchi di poesia e abbandono poetico. Cantante di grande esperienza – anche nel repertorio più tradizionale – Marc Barrard è un Cosroès molto ben cantato e di grande spessore drammatico. La voce è relativamente chiara, autenticamente baritonale, quasi fin troppo chiara per una parte paterna come questa ma il cantante è preciso e molto musicale e soprattutto l’interprete mostra piena convinzione nelle ragioni espressive della parte riuscendo bene a rendere la statura eroica del personaggio sia nel finale del II atto che nell’aria di furore del III “Sur Corsoès encore”. Completano i cast Nicolas Courjal (Rutile), Jean Teitgen (Flaminius) e Katalin Szutrély (una romana) unica cantante non madre lingua del cast – è ungherese – ma anch’essa dotata di un’ottima pronuncia nel recitativo con Sabina che apre il III atto.