Teatro Malibran, Stagione sinfonica 2013-14
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Diego Matheuz
Mauro Lanza: “Anatra digeritrice” (Piccola Wunderkammer di automi oziosi) per orchestra
Maurice Ravel: “Ma mère l’Oye”, cinq pièces enfantines, suite pour orchestre
Elliott Carter:”Holiday Ouverture”
Manuel de Falla:”El amor brujo”: Danza ritual del fuego
Igor Stravinskij: Suite dal balletto “L’uccello di fuoco” (versione 1945)
Venezia, 6 giugno 2014
Dopo le prime assolute di Filippo Perocco, Paolo Marzocchi e Giovanni Mancuso (Stagione 2011-2012), di Edoardo Micheli, Federico Costanza e Stefano Alessandretti (Stagione 2012-2013), anche nella corrente Stagione sinfonica sono stati proposti lavori appositamente commissionati a giovani compositori nell’ambito del progetto “Nuova musica alla Fenice”, dedicato nella sua terza edizione a Giovanni Morelli: alle nuove opere strumentali di Luigi Sammarchi e Vittorio Montalti ha fatto seguito, in apertura del concerto di cui ci occupiamo, la prima esecuzione assoluta di Anatra digeritrice (Piccola Wunderkammer di automi oziosi) di Mauro Lanza. Per l’occasione, all’inizio del concerto, il direttore artistico del Teatro Fortunato Ortombina e il socio della Fondazione Amici della Fenice Marino Golinelli (sponsor della nuova composizione assieme alla moglie Paola) hanno ricordato gli obiettivi di “Nuova musica alla Fenice” e presentato il trentanovenne compositore veneziano. Per la sua Anatra digeritrice Lanza si è ispirato, tra l’altro, all’automa meccanico, progettato da Jacques de Vaucanson nella prima metà del Settecento, che suscitò tanto interesse – persino in Voltaire – per le sue presunte capacità di adempiere alle funzioni fisiologiche dell’animale. Dire che rapporto ci sia tra il marchingegno di Vaucanson e la composizione di Lanza non è facile. Certamente – come ha spiegato lo stesso autore in un incontro con il pubblico, propedeutico al concerto – gli strumenti musicali, in quanto organismi meccanici, sono assimilati all’automa, e indagati nelle loro possibilità “fisiologiche”. Questo lavoro può essere, dunque, considerato una piccola collezione di automi sonori, accomunati dalla dimensione aforistica (ciascuno dura tra i 50 secondi e un minuto): cinque pezzettini che si succedono senza soluzione di continuità, e che sono altrettante “macchinette”, costituite da ingranaggi, funzionanti in modo meccanico, ripetitivo. Ottima la prestazione dell’orchestra, in formazione ridotta, a rendere il pointillisme che caratterizza il primo pezzettino, che termina con una sorta di singhiozzo della tromba, oppure il clima misterioso del secondo percorso da note tenute. Particolarmente brillante il quarto, dove primeggiavano le percussioni, tra cui la campana, oltre alle trombe, ai tromboni (questi ultimi con sordina) e agli archi, impegnati in glissando e note sovracute.
Ancora un animale, questa volta di derivazione fiabesca, nel secondo titolo in programma: si tratta della celeberrima suite per orchestra Ma mère l’Oye, costituita da cinq pièces enfantines, ispirate ad altrettante illustrazioni contenute in una raccolta di fiabe di Perrault (tratte dai Contes de Ma mère l’Oye, donde il titolo assegnato alla suite da Ravel), di Madame d’Aulnoy e Madame Leprince de Beaumont. Originariamente composta per pianoforte a quattro mani (per le piccole mani dei figli di Ida e Cipa Godebski, Mimie e Jean, di sei e sette anni rispettivamente, che però poi non furono in grado di eseguirla), Ma mère l’Oye, nella sua versione orchestrale, è un chiaro esempio delle grandi doti di orchestratore per cui il raffinato compositore francese è famoso in tutto il mondo. Nello strumentare lo spartito per pianoforte, egli è riuscito a rendere la sobrietà della prima versione attraverso una scrittura di cristallina purezza, che prevede una ridotta compagine orchestrale. La nuova veste strumentale rivela – com’è tipico in Ravel – una spiccata sensibilità timbrica, che gli consente, tra l’altro, di mettere in evidenza inusitate possibilità coloristiche degli strumenti, proprio attraverso un uso “minimalista” dell’orchestra (con l’eccezione della nutrita schiera delle percussioni, funzionale ad arricchire la tavolozza dei colori orchestrali). Forse l’interpretazione di Matheuz – il giovane maestro venezuelano, direttore principale dell’Orchestra del Teatro La Fenice – ha in qualche tratto rivelato dei toni un po’ troppo decisi, dovuti anche ad un’agogica generalmente un po’ troppo stringata, sicché– a nostro modesto avviso – l’interpretazione di questa preziosa partitura non è risultata sufficientemente nuancée. Tuttavia, anche grazie alle ottime prestazioni dell’orchestra, questa musica si è ugualmente imposta spandendo il suo indubbio fascino. Oboe e corno inglese, flauto e ottavino si sono segnalati, per fare qualche esempio, in Petit Poucet, dialogando sul sottofondo di una seducente trina degli archi. In Laideronnette, Impératrice des Pagodes – il brano più lungo e complesso, nel quale una misteriosa sezione centrale è incorniciata da due sezioni gemelle, profumate d’Oriente – ha brillato l’orchestra nel suo insieme come le sue varie sezioni o i singoli strumenti, a ricreare in particolare, gli esotismi della scala pentatonica o il sapore delle orchestre gamelan (ricordiamo, in particolare i giochi di ottavino, xilofono, arpa e celesta). Travolgente il finale de Le jardin féerique, nel corso del quale la sommessa melodia iniziale si arricchisce progressivamente di sonorità sempre più forti e sgargianti.
La prima parte del concerto si è conclusa trionfalmente – anche data la natura del pezzo – con l’esecuzione della Holiday Ouverture del compositore americano Elliott Carter (scomparso a 103 anni nel novembre 2012), scritta su commissione della Boston Simphony Orchestra a Fire Island, presso New York, nell’estate del 1944, per celebrare la liberazione di Parigi dall’occupazione nazista. Tutta l’orchestra ha dato il meglio di sé nell’eseguire questo lavoro decisamente d’effetto – dove si coglie l’influenza, in particolare, di Hindemith e di Walton – che si apre con un tema gioioso ed aggressivo dalla struttura asimmetrica e dal ritmo sincopato, che procede “a scatti”, al quale, dopo varie sue elaborazioni anche jazzistiche, se ne contrappone un secondo più melodico, quasi un valzer, che esprime un senso di felicità interiore. Di grande impatto emotivo il terzo tema, solenne, affidato agli ottoni, che rievoca il passato drammatico. Precisa ed espressiva l’orchestra, sapientemente guidata dal deciso gesto di Matheuz, anche nella parte conclusiva dell’ouverture, dove i tre temi si intrecciano in una complessa polifonia, creando un canone mensurale o proporzionale in cinque parti.
Infuocata – per così dire – la seconda parte della serata, apertasi con la Danza ritual del fuego, da El amor brujo, di Manuel De Failla, lavoro composto per la ballerina e cantante di flamenco Pastora Imperio e andato in scena per la prima volta – senza troppa fortuna – a Madrid nel 1915 come “gitaneria” in due quadri per cantaora, attori e orchestra da camera, e successivamente – questa volta ottenendo pieno successo – a Parigi nel 1925, in una nuova versione in forma di balletto per mezzosoprano e orchestra sinfonica. Una trascrizione pianistica venne realizzata dal compositore nel 1921, e in questa veste proprio la Danza ritual del fuego divenne celebre soprattutto per merito di Arthur Rubinstein, che ne fece uno dei suoi cavalli di battaglia. In questa danza il compositore spagnolo ha espresso l’anima gitana con la sua visione magica della realtà, da cui Falla stesso era soggiogato (è nota la sua superstizione). Decisamente sfrenata nel ritmo ed esplosiva nei picchi sonori l’interpretazione di Matheuz, che il fuoco (ispanoamericano) se lo porta dentro.
Molto gradita al pubblico la suite da L’uccello di fuoco, il balletto composto da Stravinskij, su commissione di Djagilev, per i Ballets Rousses, andato in scena all’Opéra di Parigi nel 1910. Questa musica è diventata popolare anche nelle sale da concerto, attraverso varie suite messe a punto dallo stesso compositore. La più conosciuta è la seconda, del 1919, realizzata allo scopo di assicurarsi i diritti d’autore fuori dalla Russia sovietica e rendere l’orchestra più snella: in essa la musica del balletto si concentra in soli cinque numeri, essendo eliminate tutte le parti mimate e di raccordo. Quella proposta in chiusura del concerto di cui ci occupiamo risale, invece, al 1945, anno in cui Stravinskij – tutt’altro che insensibile al fascino di Pluto – preparò negli Usa una nuova versione, sempre allo scopo di acquisire nuovi diritti d’autore. Questa volta però la revisione fu più profonda: l’orchestrazione è ancora più leggera, mentre viene recuperata parte del materiale originario, a formare una sequenza di dodici numeri. Di grande fascino sonoro l’esecuzione, vigorosa, di Matheuz, complici la sapienza nell’orchestrazione di Stravinskij, allievo di Korsakov, nonché la sensibilità e la padronanza tecnica degli strumentisti dell’orchestra, che hanno saputo esprimere tutte le raffinatezze di questa lussureggiante partitura, nella quale lo stile cromatico è analogia del mondo malvagio di Katscei, mentre lo stile diatonico evoca il mondo magico dell’Uccello di fuoco e delle principesse prigioniere, sulla falsariga di quanto avviene nel Parsifal di Wagner. Caloroso successo.