Opera di Firenze – Festival del Maggio Musicale Fiorentino 2014
“L’AMOUR DES TROIS ORANGES” (L’amore delle tre melarance)
Opera in un prologo e quattro atti op. 33
Musica e libretto di Sergej Sergeevič Prokof’ev
Le Roi de Trèfles JEAN TEITGEN
Le Prince JONATHAN BOYDE
La Princesse Clarice JULIA GERTSEVA
Léandre DAVIDE DAMIANI
Trouffaldino LOÏX FELIX
Pantalon LEONARDO GALEAZZI
Le Magicien Tchélio ROBERTO ABBONDANZA
Fata Morgana ANNA SHAFAJINSKAIA
Linette MARTINA BELLI
Nicolette ANTOINETTE DENNEFELD
Ninette DILETTA RIZZO MARIN
La Cuisinière KRISTINN SIGMUNDSSON
Farfarello RAMAZ CHIKVILADZE
Sméraldine LARISSA SCHMIDT
Le Maître de Cérémonies ANDREA GIOVANNINI
L’Héraut KARL HUML
Les Ridicules Dario Shikhmiri, Saverio Bambi, Alessandro Calamai, Artem Terasenko, Yerzhan Tazhimbetov, Edoardo Ballerini, Sung-Cehn Kang, Silvano Bocciai, Lukas Zeman, Dielli Hoxha.
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore d’orchestra Juraj Valčuha
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Alessandro Talevi
Scene Justin Arienti
Costumi Manuel Pedretti
Luci Giuseppe Calabrò
Nuova produzione del Teatro del Maggio Fiorentino
Firenze, 1 Giugno 2014
Appare quanto mai simbolica la scelta di chiudere con un titolo del ‘900 l’attività musicale di un teatro, come il Comunale di Firenze, la cui architettura e programmazione sono state così fortemente legate al ventesimo secolo.
Con grande sensibilità e consapevolezza del momento storico il regista italo-sudafricano Alessandro Talevi sceglie di porgere omaggio al Teatro Comunale rendendolo protagonista silenzioso e discreto di questo allestimento de’ L’amour de trois oranges. Come in un abbraccio simbolico con il pubblico fiorentino, che non può fare a meno di pensare ai decenni di emozioni, scoperte ed incontri che hanno avuto luogo fra queste mura, Talevi e il suo team lasciano intravedere la cornice del retro palco priva delle quinte per tutta la durata dello spettacolo per poi mettere a nudo l’intero backstage sul finale dell’opera.
Trovando un forte parallelismo fra il viaggio del Principe alla ricerca delle tre melarance – vero e proprio rito di passaggio – e la fuga del compositore verso l’Europa e gli Stati Uniti (dove l’opera venne commissionata nel 1918) alla scoperta di un mondo esotico che danzava a ritmo di jazz, Talevi sceglie di ambientare l’opera al tempo di Prokofiev utilizzando tecniche figurative ed attrezzeria di scena proprie dell’epoca.
Così, come in una sorta di metateatro, il giovane scenografo italo-inglese Justin Arienti colloca al centro della scena in posizione leggermente obliqua, un boccascena di dimensioni ridotte, finemente dipinto da Daniele Leone ed ornato con riproduzioni di antiche stampe di animali simbolici come il pavone (che con le lunghe penne nasconde in parte il frontone dedicato alla Musa Talia), la scimmia, l‘aquila e il serpente accanto alle maschere della commedia e della tragedia.
Con profondità e meticolosità Talevi indaga sulle forme di spettacolo d’inizi novecento come il cinema muto e il cabaret d’antan ampiamente citati ed enfatizzati dalle luci di Giuseppe Calabrò, così come sull’arte surrealista che ritroviamo nelle nuvolette magrittiane che attraversano la scena correndo su velocissime gambe umane o nei divertissement del secondo atto che mostrano due fantocci di cartapesta grezza – quasi uno spauracchio della stampa – impegnati in duello con una gigantesca grattugia ed una macchinetta moka.
Altrettanto spassoso l’ingresso della corte nell’ultimo atto a bordo di un trenino immaginario avente per motrice la sedia a rotelle del Re arricchita da un rostro di locomotiva, metafora delle decadenza delle monarchie europee.
Anche il contesto storico (evocato da patrioti, suffragette, elmi con piumetto di cedrone e caschi coloniali) è ampiamente presente e riprodotto su di una colossale cartina politica dell’Europa di inizi ‘900 che funge da sipario al teatrino-bestiario e che scorrendo come un mappamondo rivela gli Stati Uniti come sede della ricerca delle melarance nei due atti finali.
Le suggestioni visuali hanno il loro culmine nella festa del secondo atto che diviene per il costumista Manuel Pedretti l’occasione per una divertente contaminazione di stili con ampi riferimenti rococò come parrucche che paiono di zucchero filato, corsetti e pannier scoperti intrecciati di fiori indossati su abiti dei primi ‘900.
L’elemento che colpisce maggiormente è la magica sinergia fra fossa e palcoscenico, merito di una direzione vigorosa e dinamica e di una regia capace di tradurre in movimento ogni frase ed ogni accento della partitura. Sul podio di un’Orchestra del Maggio in ottima forma, specialmente nella sezione dei fiati che occupano un ruolo dominante nella partitura di Profofiev, il giovane direttore sloveno Jurai Valčuja sostiene con gesto energico e tagliente l’azione scenica nel pieno controllo dell’intricato gioco musicale.
Il Coro del Maggio preparato da Lorenzo Fratini si lancia in coreografie da ginnastica aerobica sempre mantenendo grande precisione musicale. Il cast, di altissimo livello, risulta molto omogeneo nella resa vocale e scenica, senza distinzione fra ruoli principali e di comprimariato.
Jean Teitgen è un Roi de Tréfles con voce piena e baffoni d’ispirazione asburgica. Nei panni del Prince Jonathan Boyd supera abilmente gli scogli di una scrittura composita che varia dagli “esercizi tecnici” del secondo atto- con i vocalizzi-lamenti e la lunga serie dei colpi di diaframma delle risate – alle linee più eroiche e spinte in acuto dei due atti seguenti.
Julia Gertseva in tenuta da amazzone, è una Princesse Clarice giustamente algida e dall’elegantissima linea di canto, che trova un adeguato compagno nel Léandre di Davide Damiani. Anna Shafajinskaia già apprezzata dal pubblico fiorentino come Lady Macbeth verdiana torna con tutta la sua presenza vocale sul laborioso ruolo di Fata Morgana che la vede impegnatissima a riprodurre le movenze, talvolta forsennate, di Josefine Baker con tanto di gonnellino di banane e copricapo di piume in stile revue nègre.
Roberto Abbondanza è un Magicien Tchélio efficace. Gli interpreti maggiormente applauditi dal pubblico sono quelli impegnati nei ruoli più spiccatamente comici, in particolare le due maschere della commedia dell’arte: Leonardo Galeazzi che dà vita ad un Pantalon di bella vocalità capace di far tremolare la barba appuntita in segno di sgomento come un vero commediante, e Loïx Félix un Trouffaldino che dà prova della propria agilità, non solo vocale, entrando in scena con un numero da acrobata.
Altrettanto applaudito il basso Kristinn Sigmundsson nel ruolo en travesti della Cuisinière, imponente figura zoomorfa fra il grottesco ed il terribile con volto di africana, corpo e movenze da chioccia e con una lunghissima pala da forno per scettro. Memorabile e deliziosamente nonsense nel duettino con Truffaldino. Divertentissimo anche il Farfarello aviatore di Ramaz Chiviladze. Larissa Schmidt è una Sméraldine vivacissima e di grande sicurezza vocale.
Il trio delle Melarance in abiti da vestali e con movenze da bambole meccaniche si fa apprezzare per l’avvenenza delle interpreti, la pastosità delle voci di mezzosoprano di Martina Belli (Linette) e Antoinette Dennefeld (Nicolette) e la freschezza del timbro di Diletta Rizzo Marin (Linette). Impeccabili il Maître de Cérémonies di Andrea Giovannini e Le Héraut di Karl Huml.
Completano il cast commentando e movimentando la scena i dieci Ridicules per i quali si è avuta la felice intuizione di affiancare ai professionisti Dario Shikhmiri, Saverio Bambi e Alessandro Calamai 7 allievi del Conservatorio Cherubini (Artem Terasenko, Yerzhan Tazhimbetov, Edoardo Ballerini, Sung-Cehn Kang, Silvano Bocciai, Lukas Zeman e Dielli Hoxha) con il doppio vantaggio di offrire formazione e contenere i costi di un cast già così esteso. Sugli interminabili applausi di un pubblico entusiasta si presentano alla ribalta anche i tecnici del teatro e i maestri collaboratori per sancire ancora una volta la fine di un’era.