Torino, Teatro Regio:”Guglielmo Tell”

Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2013/2014
“GUGLIELMO TELL” 
Opera in quattro atti su libretto di Étienne de Jouy e Hippolyte Bis dall’omonimo dramma di Friedrich Schiller e dal racconto La Suisse libre di Jean-Pierre de Florian. Traduzione ritmica italiana di Calisto Bassi ripristinata da Paolo Cattelan.
Musica di Gioachino Rossini
Guglielmo Tell DALIBOR JENIS
Arnoldo JOHN OSBORN
Matilde ANGELA MEADE
Gualtiero Farst MIRCO PALAZZI
Melcthal FABRIZIO BEGGI
Jemmy MARINA BUCCIARELLI
Edwige ANNA MARIA CHIURI
Gessler LUCA TITTOTO
Ruodi MIKELDI ATXALANDABASO
Rodolfo LUCA CASALIN
Leutoldo RYAN MILSTEAD
Un cacciatore GIUSEPPE CAPOFERRI
Melcthal (ripresa video) SIMONE ALBERGHINI
Arnoldo bambino (ripresa video) MICHELE RIZZI
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Regia Graham Vick ripresa da Lorenzo Nencini
Scene e costumi Paul Brown
Coreografia Ron Howell ripresa da Ilaria Landi
Luci Giuseppe Di Iorio 
Nuovo allestimento in coproduzione con Rossini Opera Festival di Pesaro
Torino, 7 maggio 2014   

Negli ultimi anni si è assistito a un grande revival di Guillaume Tell, che ha toccato numerosi teatri e festival europei ed altri ne toccherà nei mesi a venire. Così questo capolavoro, che per decenni era stato considerato ineseguibile per eccessiva difficoltà, è tornato a far sfoggio di sé grazie all’impegno di una nuova generazione di cantanti, e di tenori in particolare, che hanno avuto il desiderio e il coraggio di cimentarsi con la complessa partitura. Anche il Teatro Regio, dove il titolo era assente da quasi mezzo secolo, ha saputo approfittare del momento per dare un tocco di varietà a un cartellone che, per quanto riguarda l’Ottocento italiano, si è seduto da tempo sul repertorio più frequentato. A Torino, però, il grand-opéra di Rossini è stato inopinatamente proposto in traduzione italiana. Si tratta di una scelta, sia chiaro, lecita: fino ad alcuni decenni or sono il titolo è stato molto più conosciuto in traduzione che nella sua versione originale. E, per il critico viaggiatore, può anche essere piacevole, dopo aver ascoltato diverse edizioni in francese, e nella prospettiva d’ascoltarne altre nei mesi a venire, avere un saggio di quella adattata alla nostra lingua; tuttavia, si tratta di quel piacere puramente intellettuale che si trae dalla conoscenza fine a sé stessa e dalla conferma tangibile della propria convinzione che ogni musica debba essere eseguita nella lingua per la quale è stata concepita. Per il pubblico torinese che, forse, per un altro mezzo secolo non avrà la possibilità d’ascoltare la partitura, questa scelta è stata un indebito torto. Lo si dica francamente: dopo aver conosciuto l’originale francese, la versione ritmica italiana di Guglielmo Tell è decisamente inascoltabile. Le parole, tranne che in pochi sprazzi felici, suonano appiccicate con la colla a melodie che non sono nate su di esse; e gli adattamenti di Paolo Cattelan, nel meritorio tentativo di eliminare alcune incongruenze della traduzione di Calisto Bassi, rendono ancor meno plausibile la metrica dei versi italiani. Pare che la richiesta della nostra lingua sia giunta dagli Stati Uniti, dove la produzione andrà in tournée in autunno: si spera che anche gli americani capiscano l’errore commesso, e che questa riesumazione della traduzione serva a farla riporre definitivamente tra i ricordi del passato.
L’allestimento proposto non è una novità assoluta: si tratta infatti di una coproduzione col Rossini Opera Festival, andata in scena a Pesaro nello scorso agosto. Graham Vick ha concepito uno spettacolo teso, in cui la lotta per l’indipendenza degli svizzeri del XIII secolo è sostituita dall’utopia socialista di una popolazione oppressa di fine Ottocento (con bandiere e fazzoletti rossi, e uniformi dell’esercito austriaco dell’epoca). Lo spazio scenico è un asettico non-luogo bianco, nel quale vengono di volta in volta collocati gli elementi salienti delle singole scene (una barca, cavalli, tavole, sedie e poltrone), e sulle cui pareti vengono proiettate immagini che inducono suggestioni ambientali, senza troppo preoccuparsi se alle vette e ai laghi delle Alpi si alternano la Pianura Padana e il lido del mare. E, se anche quest’ultima scelta fosse voluta per rappresentare l’universalità del tema dell’oppressione dei popoli, ciò non farebbe che confermare come questo allestimento, nella riuscita intenzione di concentrare la propria attenzione sulla dinamica umana oppressione-ribellione, finisca per trascurare la presenza della natura, ed in specie dell’ambiente alpino, che, cominciando dalla sinfonia, permea la partitura nella sua interezza. Il difetto di una lettura monoprospettica è in parte compensato dall’efficacia con cui questa lettura viene portata a termine, sottolineando con perspicuità i rapporti di forza tra personaggi e gruppi sociali: paradigmatiche, in tal senso, sono le danze del III atto, vero fulcro drammaturgico dello spettacolo, plastica rappresentazione delle umiliazioni alle quali la popolazione è sottoposta dai dominanti. Merito della regia è quindi quello di cogliere il valore drammaturgico, e non meramente esornativo, che hanno le danze del Guglielmo Tell, e conseguentemente di impedire il taglio di svariate pagine di partitura che il direttore aveva inizialmente intenzione di praticare. I tagli (sempre colpevoli, ma meno gravi) sono stati alla fine limitati ad alcune ripetizioni di strette e a qualche passaggio facoltativo come l’aria di Jemmy. Gianandrea Noseda, il quale, nella sua carriera di direttore, non è certamente noto come rossiniano, ha condotto con equilibrio lo spettacolo, cedendo un po’, qua e là, al forte e all’agitato, come nella tempesta dell’ouverture, turbata, peraltro, anche dall’eccessivo rumoreggiare del pubblico in sala, che pareva afflitto da influenze, o, più verosimilmente, da allergie stagionali.
Assemblare una valida compagnia per Guglielmo Tell è questione da fare tremar le vene e i polsi a qualsiasi teatro che intenda mettere in scena l’opera. A Torino il risultato è stato raggiunto a metà, anche se probabilmente alla prima rappresentazione alcuni dettagli erano ancora in fase di rodaggio e in attesa di perfezionamento. Non si è infatti riscontrata omogeneità né nel confronto tra i vari solisti, né nell’analisi dei vari momenti interpretativi di ciascun cantante. Questo a cominciare dal protagonista Dalibor Jenis, che sostituisce i baritoni a suo tempo annunciati per entrambi i cast impegnati nella produzione: egli incarna infatti con maggiore proprietà il lato paterno di Tell – emerso nell’atmosfera intima dell’arioso «Resta immobile», tratteggiato con appropriati colori e accento umano – rispetto alla figura pubblica del patriota, per la quale gli mancano un po’ di volume e autorevolezza d’accento. Il soprano Angela Meade possiede una grande voce, calda e corposa, dono di natura che necessita d’essere addomesticato per dar vita a interpretazioni significative. Quando la si era ascoltata nel 2010, a Wexford (festival che le ha aperto le porte della carriera), pareva promettere un rapido perfezionamento che in buona sostanza non si è realizzato, e le sue notevoli potenzialità sono rimaste tali: la discontinuità di registro si sente talvolta con evidenza, il vibrato spesso è eccessivo; la tendenza all’acuto lancinante valorizza la presenza di Matilde nel finale III, ma rischia di conferire al personaggio il ruolo della donna volitiva anche nei colloqui con Arnoldo, quando dovrebbe essere un’innamorata apprensiva. Il giovane Arnoldo è interpretato da John Osborn – il quale deve aver avuto non poche difficoltà ad imparare il testo italiano, avendo cantato varie volte l’opera nella più musicale versione francese – con uno strumento di cui fin dall’inizio si sono apprezzati il bello smalto e la tecnica raffinata che si manifesta nell’uso del legato e della mezzavoce (significativa quella su «Dolce offerta, grati accenti» nel duetto con Matilde del II atto), anche se ha lasciato qualche perplessità nei passi “patriottici” del II atto in cui si auspicherebbe una più imponente presenza vocale. Ma vero capolavoro della sua interpretazione è stata l’aria del IV atto, a partire dal recitativo, magistralmente fraseggiato e chiuso in mezzavoce, e dal cantabile elegiaco coronato da un incantevole falsetto, per giungere alla cabaletta in cui anche l’Arnoldo eroico ha avuto il suo riscatto, grazie ad acuti squillanti, incisivi e ben timbrati.
Disomogeneità si sono riscontrate anche tra le cosiddette seconde parti, che in quest’opera non sono affatto insignificanti. Ad esempio, Rodolfo, il capo degli arcieri di Gessler, ha l’ingrato compito di guidare la stretta del finale I, e il tenore Luca Casalin, solitamente ottimo comprimario, ha un volume e un peso vocale inferiori alle richieste della partitura. Nella stessa stretta dovrebbe emergere, con la sua baldanza adolescenziale, la figura di Jemmy, il figlio di Tell, del quale il soprano Marina Bucciarelli non tratteggia più che un abbozzo. Il cammeo del pescatore Ruodi domina l’introduzione, ed è un importante biglietto da visita per i tenori che vi si cimentano: Mikeldi Atxalandabaso lo affronta con presenza incisiva anche se la voce suona un po’ asciutta. Messi a fuoco in maniera più vivida sono i personaggi di registro grave: a Edwige, moglie di Guglielmo, ha prestato voce il mezzosoprano Anna Maria Chiuri, che ha disegnato una donna apprensiva, protagonista di una preghiera calda e accorata nel IV atto. Il vecchio Melcthal, incarnato dal basso Fabrizio Beggi, è una figura patriarcale la cui età risalta anche grazie ad alcune ruvidezze. Mirco Palazzi ha tratteggiato con sicurezza e proprietà il congiurato Gualtiero Farst. La figura sbalzata con più carattere e nitore è stata, tuttavia, quella del governatore austriaco, appannaggio del basso Luca Tittoto, che ha sposato l’idea registica di fare di Gessler non tanto un uomo di potere autoritario e arbitrario, quanto un malvagio elegante e sadico, che sottopone a ogni sorta di vessazione la popolazione svizzera per il proprio piacere personale: ne sortisce una figura tragicamente caricaturale, perfettamente incarnata dal sarcasmo con cui viene impartito agli svizzeri l’ordine di danzare per celebrare il governo straniero. Imponente, infine, in un’opera dal forte impianto oratoriale, è lo sforzo richiesto a orchestra e coro, che le compagini del teatro hanno saputo portare a termine senza sbavature.