Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Antonio Pappano
Maestro del Coro Ciro Visco
Soprani Ángeles Blancas Gulin, Rachel Willis-Sørensen
Mezzosoprano Andrea Baker
Tenori Stuart Skelton, Carlo Putelli
Baritoni Louis Otey, Antonio Pirozzi
Ludwig van Beethoven: “Fidelio”, Introduzione e Aria di Florestano (scena del carcere) “Gott! Welch Dunkel hier”, atto II, scena I.
Luigi Dallapiccola: “Il Prigioniero”, opera in un prologo e un atto da La torture par l’espérance di Villiers de L’Isle-Adam e da La légende d’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak di Charles de Coster (in forma di concerto)
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 9 in re minore op. 125, III (Adagio molto e cantabile. Andante moderato) e IV (Finale)
Roma, 29 aprile 2014
«Avrei voluto dirigere l’opera Il Prigioniero di Dallapiccola […] ma era troppo breve per essere presentata da sola. Così ho cercato un modo per ampliare il programma con una riflessione più ampia sui temi della guerra, la lotta, la tortura, l’ingiustizia e la libertà. L’Inno alla Gioia della Nona Sinfonia di Beethoven è stata la perfetta soluzione, infatti il finale del Prigioniero di Dallapiccola sfuma perfettamente nel terzo movimento della Nona di Beethoven. Potrebbe sembrare insolito dividere una Sinfonia ed eseguire solamente gli ultimi due movimenti, ma perché non immaginarla invece come una possibilità per il brano di fondersi con dell’altro?».
Queste sono le parole, riportate in introduzione del programma di sala, da Sir Antonio Pappano, e ampliate in un breve discorso introduttivo prima dell’esecuzione del concerto: si tratta di un concerto che presenta una fusione particolarissima, un trittico senza soluzione di continuità che vede l’esecuzione di un’aria della Fidelio, un’opera integrale di Dallapiccola in forma di concerto e gli ultimi due movimenti della Nona di Beethoven. Il fil rougetematico è il racconto musicale della prigionia, delle sue torture, e della successiva libertà. Il tutto si inserisce nelle celebrazioni del quarantesimo anniversario di Amnesty International Italia, che si batte proprio per il rispetto dei diritti umani e la liberazione degli oppressi e ingiustamente carcerati: è noto, peraltro, l’impegno politico-sociale per i diritti umani da sempre propugnato da Pappano.
La peculiarità veramente incredibile del programma, che ovviamente fa capo alla genialità del suo ideatore, è la naturalezza con cui parti così differenti dell’opera di Beethoven facciano perfettamente da ouverture e da conclusione (lieta, per fortuna: anche se spesso, nella realtà, ciò non avviene) all’opera Il Prigioniero di Dallapiccola. Pappano attacca a dirigere l’aria dalla Fidelio; il preludio è intensamente sofferto: il caliginoso ritmo ostinato degli archi viene amplificato dall’eco degli accordi sentenziosi di ottoni e legni. Il tutto è squarciato dalla splendida messa di voce che Stuart Skelton (Florestan) intona su «Gott». La sua voce, dal vibrato stretto, ricca di armonici, spessa (non senza, in nuce, una sonorità gutturale) danno pathos al personaggio di Florestan, specialmente nel concitato delirio finale in cui crede di scorgere Leonore. Coup de théâtre: Leonore entra veramente, ma è la Madre del prigioniero. Subito seguono le lugubri note de Il Prigioniero, una partitura volutamente difficile e esteticamente ostica, che sintetizza gli orrori della guerra, cui il Dallapiccola dovette sottostare (la première in forma di concerto è del 1 dicembre 1949; l’anno dopo, al Maggio Musicale Fiorentino, s’ebbe la prima in forma scenica). La Blancas Gulin possiede l’allure del ruolo della Madre: una voce profonda, squillante, cavernosa (peccato per una dizione funestata dalla perenne apertura delle vocali), corroborano un fraseggio variegato, che trascina gli ascoltatori nel monologo e nell’onirica ballata, fino allo straziante acuto che si fonde in unisono – vera magia! – con il coro, che intonerà sempre canti (intermezzi tra una sezione e l’altra) in latino, di una tetra, satanica sacralità, acuita dall’uso di stilemi pesantemente arcaizzanti. Ecco che entra il baritono Louis Otey, il prigioniero, che scolpisce un lungo recitativo-duetto con la madre: la voce scura e potente ha un buon effetto sulla drammaturgia musicale del personaggio, e l’interprete si comporta musicalmente sempre bene. Alcune frasi sono scolpite magnificamente – penso al «Signore, aiutami a camminare»; l’Aria in tre strofe («Sull’Oceano, sulla Schelda») è potente, tanto che l’orchestra spesso subissa le voci. Otey si distingue anche per le terrorizzate mezze-voci, nel monologo della fuga, come nelle frasi che alterna nell’atmosfera allucinata degli echi del coro in lontananza (stipato sulla galleria sopra il palco). Il Carceriere-Grande Inquisitore è sempre Skelton, che si adatta bene al ruolo, dimostrando qui di saper anche spingere meno colla voce: si pensi alla fiabesca pacatezza della voce che trova sul «Torna, sole, sulle città liberate» − frase emblematica della tortura mediante la speranza −, cantato talmente piano che è lì lì a sfibrare il suono. Come Grande Inquisitore cambia ancora fraseggio, con mefistofelici filati che anticipano la disfatta, che con grande senso della drammaturgia Dallapiccola sceglie di non rappresentare. Pappano tiene un ritmo compatto, oscuramente incessante, cui concede qualche spettrale momento di distensione, con glissati aerei degli strumenti (archi soprattutto, ma anche i volteggi dei legni), caotici, che rapiscono l’attenzione (si pensi alla descrizione del fioco crepitare delle lampade bluastre nel preludio alla scena terza, il sotterraneo dell’Official di Saragozza, con l’uso della celesta). Il tutto si spegne, nel finale, in sordina, cui Pappano fa seguire l’attacco del III della Nona: qui l’orchestra intera dà il meglio di sé, un’orchestra completa sotto ogni sfumatura sonora, raffinata e educata a ogni repertorio dall’eclettica personalità musicale del suo attuale direttore stabile. Pappano sa conferire all’atmosfera serafica, incantata, quasi angelica, delle variazioni del III, anche quel senso del dolore, della morte, che pervade tutta la Nona: il dolore di una vita, quella di Beethoven, cui venne tolto il privilegio dell’udito, ma venne dato il dono di far sentire. Come attacca magnificamente il IV con il tema eseguito in piano dagli archi bassi, seguitando, poi, con tutto il crescendo di preparazione all’Inno alla Gioia. È Otey che officia la parte del basso («O Freunde»): la parte è ben cesellata, anche se si è avvezzi a sentire voci più profonde in questo ruolo. Il coro dell’ANSC è, come sempre, straordinario e ha nella Nona certamente un suo cavallo di battaglia: è un piacere sentire tanto la gioia di «Seid umschlungen, Millionen!», come la nota tenuta in pianissimo alla fine di «und der Cherub steht vor Gott». Skelton è il tenore di «Froh, wie seine Sonne fliegen»; brave anche il soprano Willis-Sørensen e il mezzo Baker, soprattutto a non strafare urlando sopra le altre voci (cosa che spesso, ahimè, avviene). L’apoteosi finale è un crescendo di bellezza melodica immenso, cui il canone aggiunge la giusta dose di ieraticità: gli applausi arrivano fragorosi − dopo più di un’ora e mezza di concerto − per interpreti e direttore, che ci ha alfine condotti alla sperata catarsi. Foto © Riccardo Musacchio & Flavio Ianniello