New York, Carnegie Hall, Stern Auditorium
Symphonieorchester Des Bayerischen Rundfunkus
Direttore Mariss Jansons
Pianoforte Mitsuko Uchida
Ludwig van Beethoven: Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in Sol maggiore, Op. 58
Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n. 5 in Re minore, Op. 47
New York, 17 maggio 2014
Per l’ascoltatore della Carnegie Hall la presenza nel programma del 17 maggio della Sinfonia n. 5 in Re minore Op. 47 di Dmitrij Šostakovič ha comportato un immediato balzo nel passato, all’insegna della celebrazione della prestigiosa storia dell’istituzione. Difatti fra le esecuzioni memorabili della Sinfonia un posto d’onore è senz’altro ricoperto dalla première che l’opera vide nella sala da concerto newyorchese il 28 marzo 1939, a soli due anni dalla composizione. Protagonisti di allora Leopold Stokowski e la Philadelphia Orchestra, un’accoppiata che legò in modo indelebile il proprio nome alla sala, con una serie di straordinarie esibizioni entrate stabilmente nella memoria collettiva. La storia continua ancora oggi, grazie anche alle accorte scelte della direzione artistica che a metà maggio ha incluso in cartellone tre concerti della Orchestra Sinfonica della Radio Bavarese, sotto la direzione di Mariss Jansons, dal 2003 chief conductor della compagine. Quello del 17 maggio era il secondo dei tre appuntamenti, incentrati su repertori estremamente multiformi (dalla Symphonie fantastique di Berlioz ad Atmosphères di Ligeti). In questo caso l’inconsueto accostamento con il Concerto per pianoforte e orchestra n. 4 in Sol maggiore di Beethoven si può spiegare con il ruolo cruciale che entrambe le opere ricoprirono nelle carriere produttive dei rispettivi compositori, come è possibile leggere nella parte iniziale delle note di sala, a cura di Jack Sullivan. Tuttavia non potrebbero esservi composizioni tanto diverse all’ascolto. Infatti quanto delicata e intimista è l’atmosfera del concerto beethoveniano, tanto sfrontata e impetuosa è quella della Sinfonia di Šostakovič, esaltata in un tripudio di colori dall’ottima performance dell’orchestra bavarese.
Il collegamento con Beethoven si riscontra nel metodo costruttivo dell’opera sinfonica, imperniata sullo sviluppo di brevissimi incisi melodici. Il motivo tematico che viene messo maggiormente in risalto è proprio quello che ascoltiamo in apertura, un frammento cupo e ossessivo che segna con la sua insistenza il carattere pessimista del primo movimento (Moderato). Sin dalle prime note il pensiero però corre a Mahler e al suo inconfondibile stile sinfonico, dal quale Šostakovič riprende la giustapposizione per contrasto di atmosfere sonore continuamente diverse, mescolando principi opposti ma mancando della medesima coerenza nell’attuare il suo disegno compositivo. Come risultato si assiste al susseguirsi più o meno incalzante di atteggiamenti variegati, rendendo ancor più difficile il compito di Jansons e il suo impegno nell’amalgamarli in un’unica linea espressiva. Il merito del direttore è dunque evidente, così come la capacità di conferire respiro di suono ad una compagine orchestrale estremamente attenta alle indicazioni provenienti dal podio. La direzione ha raggiunto un apice di concentrazione energetica nell’Allegretto che seguiva il Moderato di apertura, con i suoi ritmi da valzer grottesco orchestrati in modo magistrale da Šostakovič e ancor meglio eseguiti dagli strumentisti dell’orchestra. La sfrontatezza del secondo movimento ha lasciato il posto ad un Largo spettrale e al trionfalismo macchiato di tragico dell’Allegro non troppo, mettendo in evidenza il particolare rapporto di Jansons con la bacchetta: se infatti in precedenza quest’ultima era apparsa a volte superflua e quasi di impiccio, addirittura seminascosta sotto il polso del direttore, in questo caso sembra trasformarsi in un’estensione naturale e necessaria della mano destra, rivelando una morbidezza di gesto estremamente affine alle meditazioni nostalgiche del movimento.
La straordinaria attenzione che il pubblico della Carnegie Hall ha profuso durante l’ascolto della Sinfonia di Šostakovič è stata interrotta da impercettibili e rari colpi di tosse, per ricordare di tanto in tanto l’appartenenza degli spettatori all’imperfetta specie umana. Tuttavia, nel corso dell’esecuzione del Concerto n. 4 di Beethoven che ha aperto la serata, l’atmosfera si è rivelata quasi irreale e mistica, come se ogni ascoltatore avesse fatto voto di trattenere il fiato dall’inizio fino all’ultima nota. In questa dimensione sovrannaturale riecheggiavano le parole di Schumann a proposito della celebre esecuzione del 1836 sotto la direzione di Felix Mendelssohn, riportate anch’esse tra le pagine del programma di sala: «I have received a pleasure from it such as I have never enjoyed and I sat in my place without moving a muscle or even breathing, afraid of making the least noise». A ricreare il clima di eccezionale concentrazione suggerito dalla testimonianza di Schumann sono intervenuti non soltanto il carattere contemplativo del concerto beethoveniano, né l’acclarata bravura di Jansons e della sua orchestra, ma soprattutto l’interpretazione sopraffina della pianista Mitsuko Uchida, invité d’honneur della prima parte del concerto. Le espressioni spesso iperboliche che si leggono nelle biografie dei musicisti, denominati quasi sempre i migliori nel loro campo, nel caso della Uchida sembrano rispecchiare la realtà. Sono infatti ‘verità’ e ‘bellezza’ i due poli intorno ai quali si muove la chiave di lettura della pianista nipponica. E il concerto di Beethoven si presta sicuramente a evidenziare le doti introspettive dell’interprete, con la sostanziale assenza di un vero e proprio tempo veloce di apertura – il primo movimento è un Allegro Moderato che pende più dalla parte del moderato che dell’allegro – e un Rondò finale che invece di sciogliere le tensioni vi aggiunge un’ulteriore nota di serena malinconia, mentre a catalizzare l’attenzione è senza dubbio la tragica intensità del movimento centrale (Andante con moto).
L’impressione è quella di un elaborato e delicato ricamo, dove ogni elemento – invece di perdersi nel complesso del disegno al quale appartiene – risalta per la preziosità dei singoli dettagli, sottolineati ancor di più da un’acustica perfetta, giustamente rinomata nel resto del mondo. Se da un lato il Concerto n. 4 sostiene le qualità di leggerezza della Uchida, dall’altra riesce ad esprimere le diverse caratteristiche delle sezioni orchestrali, e all’interno di queste dei singoli strumenti, in particolare dell’oboe e del flauto, con impasti timbrici che anticipano le sonorità della Sinfonia n. 6, iniziata un anno dopo la conclusione del Quarto Concerto. Non sono da meno le sezioni degli archi, unite in un sol corpo sonoro percepibile sia alla vista che all’udito e in profondo rapporto di complicità con lo strumento solista, sebbene una menzione speciale vada riservata ai contrabbassi, bravissimi in Beethoven, eccelsi in Šostakovič. Anche nei momenti più percussivi la pianista non indugia nel tono concitato, ma mantiene sempre quell’atteggiamento contemplativo che costituisce la sua cifra stilistica, mettendolo in mostra nelle invenzioni delicate, quasi da carillon, del terzo movimento. Ciò non significa che la Uchida manchi di energia: al contrario quest’ultima deriva proprio dal controllo e dallo straordinario equilibrio delle risorse, affiancate in maniera apparentemente contraddittoria da un’aperta e incondizionata generosità di suono. Generosità che si è anche apprezzata nel bis della solista (quasi un concerto nel concerto, con l’esecuzione della meravigliosa Sarabanda dalla Suite Francese n. 5 in Sol maggiore BWV 816 di Johann Sebastian Bach), come altrettanto generosi si sono dimostrati Jansons e la Bavarian Radio Symphony Orchestra nel proporre alla fine del concerto l’interludio da Ledi Makbet Mcenskogo uezda di Šostakovič.