“La Traviata” al Teatro Petruzzelli di Bari

Bari, Teatro Petruzzelli – Stagione d’Opera 2014
“LA TRAVIATA”
Melodramma in tre atti, libretto di Francesco Maria Piave
Musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry FRANCESCA DOTTO
Flora Bervoix ANNUNZIATA VESTRI
Annina SIMONA DI CAPUA
Alfredo Germont ATALLA AYAN
Giorgio Germont  ALESSANDRO LUONGO
Gastone  MASSIMILIANO CHIAROLLA
Il barone Duphol  GIANFRANCO CAPPELLUTI
Il marchese d’Obigny  DOMENICO COLAIANNI
Il dottor Grenvil  ROCCO CAVALLUZZI
Giuseppe  FRANCESCO CASTORO
Un domestico di Flora  ANTONIO MUSERRA
Un commissionario  ANTONIO MUSERRA
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del Coro Franco Sebastiani
Regia Ferzan Özpetek
Scene Dante Ferretti
Costumi Alessandro Lai
Disegno luci Giuseppe Di Iorio
Video ritratti Luciano Romano
Coreografie Luigi Neri
Produzione Fondazione Teatro di San Carlo di Napoli
in coproduzione con Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli
Nuovo allestimento
Bari, 1 Aprile 2014
«Inseguendo Proust»: questo il presupposto poetico della lettura de “La traviata” che Ferzan Özpetek offre al folto pubblico del Petruzzelli (sold out per ognuna delle otto recite), cercando di condensare nel tempo del melodramma quello ‘perduto’ della recherche. Dei tanti volti di Proust si predilige qui quello del dandy protagonista d’un decadentismo che nella mescolanza di Oriente e Occidente individua la cifra di un morboso disfacimento identitario e di un erotismo ambiguo.  Da qui la richiesta a Dante Ferretti di confezionare per i primi due atti una scenografia sontuosa e tutta improntata alla contaminazioni con dettagli architettonici moreschi (e turcherie varie si sono declinate nei costumi, raffinatissimi per materiali e colori, di Alessandro Lai). La casa di Violetta diventa così un palazzo della Istanbul di primo Novecento a ridosso del crollo dell’impero ottomano; e sempre alla metropoli turca degli anni tra Otto e Novecento,  rimanda il cortile della casa di campagna e, successivamente, la grande scalinata (metà praticabile, metà su fondale dipinto) nel secondo atto. Nei primi due atti le suggestioni proustiane agiscono quindi a livello squisitamente visivo, senza peraltro mai intaccare la fedeltà al dettato librettistico, seguito con un’attenzione rispettosa e intelligente. Nel terzo atto invece Özpetek pone davvero Proust accanto a Piave e a Verdi: la didascalia del libretto non è più seguita e la stanza di Violetta si riduce al vuoto assoluto, a uno spazio oscuro dove i soli oggetti illuminati sono un comodino e il letto di morte. Durante il preludio strumentale Violetta attiva quella che Proust chiamava ‘memoria involontaria’, quella in grado di presentificare il passato, e Özpetek materializza i ricordi della donna facendo comparire in scena, inquadrati dall’occhio di bue, personaggi noti (Flora, Gastone, d’Obigny) e una coppia di giovani a noi ignoti (forse una felice scheggia mnemonica di Violetta). Si tratta di apparizioni rapidissime che alludono sì al passato ma che sono anche intrise di presente: i personaggi infatti interrompono le loro azioni per osservare, subito incupiti, Violetta moribonda. Un’intuizione ch’è stata capace d’incrementare la già altissima tensione espressiva dell’atto finale e che renderà memorabile questa coproduzione del Petruzzelli col San Carlo di Napoli. A ben vedere anche l’enorme video ritratto (di Luciano Romano) che durante la sinfonia d’apertura occupa per intero lo spazio del sipario va relazionato a un’idea proustiana di tempo: il volto di Violetta là si muove (le riprese sono in slow motion) infatti attraverso minime trascolorazioni, accenni di sorrisi, micromovimenti di sopracciglia e palpebre, in un decorso temporale rarefatto e imprevedibile come lo stato d’animo della malata di tisi.
L’intensità e la correttezza della regia si sono duplicate nell’interpretazione offerta da un cast in stato di grazia (qui si recensisce il secondo). La Violetta di Francesca Dotto è un esempio di equilibrio cristallino, priva di eccessi attoriali, libera da scomodi paragoni con i grandi modelli vocali del passato e sostenuta da una correttezza di fraseggio che è cifra delle nuove (e più promettenti) generazioni di cantanti. Atalla Ayan presenta un Alfredo inedito: timbro scuro, mai una nota ‘urlata’, perfetta presenza scenica, pieno dominio della voce nella zona medio-grave ma sicurezza anche negli acuti; ne sortisce un personaggio più fiero, un uomo d’onore, meno succube dell’autorità paterna, coerente e credibile (interpretazioni come quella del tenore brasiliano sono così interessanti da rimettere in discussione personaggi archetipici come Alfredo). Ottimo anche Alessandro Luongo: se Alfredo era più ‘scuro’, Germont padre risultava più ‘chiaro’, quasi mefistofelico, irrequieto nelle sfumature timbriche e nel fraseggio, impeccabile nell’agogica. Anche in questo caso una revisione notevole del personaggio: non voce solenne, para-sacerdotale, dell’autorità paterna, bensì cinico raisonneur sui rapporti tra i sessi, algido nei gesti e affettato nelle esternazioni affettive.
Daniele Rustioni ha compreso di aver a che fare con cantanti squisiti e durante i duetti ha rarefatto il sostegno dell’orchestra alla soglia minima concessa, al fine d’instaurare un delicatissimo rapporto con le voci e con i legni solisti. Una direzione anch’essa ‘nuova’ nella misura in cui ha saputo mantenere una solidità, verrebbe da dire metronomica, negli stacchi di tempo e una impalpabile liquidità nell’impasto tra voci e strumenti (proustiano anche Rustioni!). Se a ciò si aggiunge la consueta brillantezza del coro diretto da Franco Sebastiani e la preparazione delle parti di fianco (quasi per intero voci di nascita o formazione pugliese che da anni hanno consolidato radiose carriere in ambito nazionale), ben si comprendono gli applausi irrefrenabili di un pubblico numeroso e felice (ed era la penultima recita…). Foto di Carlo Cofano