Il Brahms di Rudolf Buchbinder e Louis Langrée all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014 
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Louis Langrée
Pianoforte Rudolf Buchbinder
Johannes Brahms: Concerto n. 2 in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 83; Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98
Roma, 15 aprile 2014     
Due capolavori assoluti del genio di Brahms, quelli accorpati in questo concerto dall’ANSC: al pianoforte, il blasonato e brahmsiano Rudolf Buchbinder (la cui prima apparizione all’Accademia rimonta addirittura al 1969) e alla direzione il sostituto dell’indisposto Temirkanov, Louis Langrée. La prima parte del concerto, come di consueto, gioca il pezzo forte: il Secondo concerto in si bemolle maggiore (1881), forse tra le più straordinarie composizioni del tedesco. Buchbinder ne è un interprete di rilievo, come testimoniano le incisioni discografiche con Harnoncourt e Metha e l’assidua frequentazione della partitura – della cui parte pianistica si vanta di possedere copie autografe −, che ha già eseguito all’ANSC nel 2005 sotto la bacchetta di Sawallisch. La storia del concerto all’Accademia, peraltro, è assai gloriosa: eseguito ininterrottamente dal 1910, vi hanno prestato il talento, tra gli altri, Arthur Rubinstein, Fischer, Gieseking, Richter, Ashkenazy, Serkin, Gilels, Pollini, Sokolov. Ma questa volta, in più di un punto, il pianismo di Buchbinder s’incrina: lui che ha un’innata musicalità nel porgere la frase musicale, che possiede un respiro e una dialettica ragguardevoli, in qualche passaggio di più spericolato virtuosismo (agilità, salti e arpeggi di grandi dimensioni) accelera troppo e, di conseguenza, il suono risulta sporcato, anche per il massiccio ricorso al pedale. Altre volte, non riesce a infondere debita vitalità a talaltri passaggi. Langrée è un elegante accompagnatore; l’orchestra dell’Accademia ha un suono magnifico, e paga il lungo e certosino lavoro cui è giornalmente sottoposta: non mi esimerei dal definirla la migliore orchestra d’Italia. Nel primo tempo, dopo un attacco dignitoso del corno e del pianoforte, assai nobilmente rallentato, espanso, quasi riflessivo, in cui Buchbinder ben fraseggia, si prosegue ingranando maggior velocità d’esecuzione: qualcosa si perde, ma sono straordinari i passaggi in cui il piano dipinge arpeggi stillanti, cui segue la vaporosità dei bassi – è per passi come questo che l’amico di Brahms, Billroth, usò (in una lettera del 1881) quest’immagine per descrivere la musica del Secondo concerto: «immagino che l’effetto di questa musica debba essere stupendo. Come una notte di luna piena a Taormina»). Il primo tempo si volge alla conclusione con un poderoso trillo e una coda grandiosa. Nell’Allegro appassionato (II movimento) c’è drammaticità e il tutto scorre, con un buon trattamento del linguaggio strumentale, se si eccettua qualche sporadico impaludamento di Buchbinder; l’attacco della sezione del Trio è epico, ma il pianista tiene il suono a un limite troppo contenuto, cui si aggiunge una clamorosa, sfortunata stonatura del corno. Meglio l’Andante (III), con una superba esecuzione della parte violoncellistica a opera di Luigi Piovano: il dialogo tra violoncello e pianoforte scorre bene, col bell’assolo del baritono degli archi, accompagnato dai setosi arpeggi del pianoforte. Poi, ancora qualche stentoreo passaggio: ma Buchbinder si riprende nel finale, introdotto da un trillo in filato di ragguardevole bellezza. L’ultimo movimento, l’Allegretto grazioso, risulta a conti fatti il meglio eseguito, con quella melodia deliziosamente cullante. È probabile che qualche passaggio oggettivamente non al top di Buchbinder sia stato dovuto a una sua serata non in stato di grazia: tanto che non concede neanche un bis, uscendo fra i pur generosissimi applausi del pubblico.
La seconda parte vede protagonista Langrée e la Quarta Sinfonia (1885) di Brahms, «l’ultimo capolavoro classico del sinfonismo» (Franco Serpa, dal programma di sala). La sua lettura è sensata, ma spesso troppo bozzettistica e poco incline a una lettura dell’architettura complessiva: le sezioni sonore sono spesso troppo tirate e il tutto qua e là è poco analitico, ma grammaticalmente corretto. Il malinconico Allegro non troppo emerge pieno nel finale, intenso; il II e il III escono i migliori movimenti: l’inizio con corni e fagotti del II è indimenticabile, assieme alla sua dimensione esoticamente favolosa, primitiveggiante, come pure il beethoveniano e festante andamento coreutico del III. Del IV, accademicamente ritenuto monumentale, Langrée dà una lettura logicamente corretta, ma di tanto in tanto irrigidita, con ingressi irruenti di masse strumentali: il tutto si sintetizza e compatta, però, nel finale al cardiopalma, dove il francese dà sfoggio del suo smalto. Il pubblico, al solito, gradisce con l’applauso finale. Foto © Riccardo Musacchio & Flavio Ianniello