Venezia, Teatro Malibran – Stagione Lirica 2013/2014
“ELEGY FOR YOUNG LOVERS” (Elegia per giovani amanti)
Opera in tre atti
Libretto di W. H. Auden e Chester Kallman
Musica di Hans Werner Henze
Prima rappresentazione assoluta: Schwetzingen, Schlosstheater, 20 maggio 1961
Prima rappresentazione della versione rivista dall’autore: Venezia, Teatro La Fenice, 28 ottobre 1988
Gregor Mittenhofer GIUSEPPE ALTOMARE
Dr. Wilhelm Reischmann ROBERTO ABBONDANZA
Toni Reischmann JOHN BELLEMER
Elizabeth Zimmer ZUZANA MARKOVÁ
Carolina von Kirchstetten OLGA ZHURAVEL
Hilda Mack GLADYS ROSSI
Josef Mauer FRANCESCO BORTOLOZZO
mimi ROBERTO ADRIANI, DAVIDE TONUCCI
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Jonathan Webb
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Regia ripresa da Massimo Gasparon
Light designer Vincenzo Raponi
Allestimento Fondazione Teatro delle Muse di Ancona
(spettacolo vincitore del premio speciale al Premio Abbiati 2005)
Venezia, 2 aprile 2014
Un organico da camera, quello scelto da Hans Werner Henze per “Elegy for Young Lovers”, un’orchestra composta da appena ventisei esecutori, quasi sempre impegnati in passaggi solistici, nella quale tuttavia spicca una nutrita schiera di percussioni. Il modello è costituito dalle chamber operas di Britten; la finalità è quella di sottolineare ogni più piccola sfumatura della psicologia dei personaggi, rivelare ciò che arrivano a nascondere a se stessi, le loro meschinità, i loro autoinganni. Ne è nata una tragedia in musica through-composed, a partire da un libretto di straordinaria raffinatezza formale, frutto della collaborazione tra Wystan Hugh Auden, uno dei massimi poeti del Novecento, e il suo compagno Chester Kallmann: nella partitura le sinuose linee del canto, non di rado basate su salti intervallari di ampiezza estrema, si muovono con libertà ad affermare contenuti che appartengono più che altro alla dimensione fenomenica dei personaggi, mentre – come si è appena affermato – il commento orchestrale scandaglia, con analoga autonomia, la realtà profonda di ognuno di loro, creando intrecci di particolare interesse espressivo. Fondamentale in questo lavoro risulta il parametro timbrico. Henze, infatti, associa ad ogni personaggio o situazione un determinato strumento-conduttore: il flauto alla folle Hilda (inevitabile l’allusione alla Lucia), il corno inglese alla declinante Carolina, il fagotto al sussiegoso Dr. Reischmann, viola e violino rispettivamente a Toni ed Elisabeth (i giovani amanti) e l’intera sezione degli ottoni al patologico narcisismo di Mittenhofer. L’arpa, invece, evoca – nei momenti di “ispirato” abbandono del poeta, impegnato in realtà a trascrivere le visioni deliranti di Frau Meck o a recitare l’Elegy che ne ha tratto – l’orfica fascinazione della poesia. Una partitura, dunque, piuttosto complessa dal punto di vista sia musicale che drammaturgico.
Esemplare per molti aspetti la fortunata messinscena, a suo tempo realizzata dal collaudatissimo Pier Luigi Pizzi, per il Teatro delle Muse di Ancona (2005), successivamente riproposta a Napoli e a Bilbao, e ora ripresa per il Malibran dal regista Massimo Gasparon, essendo Pizzi impossibilitato a curarla di persona. La scena fissa ricrea la grande sala con terrazza di un albergo sulle Alpi austriache. Sul fondo appare a tratti, appena illuminata da un sole malato – per poi sparire nella nebbia – la sagoma sinistra dello Hammerhorn: la montagna che custodisce il mistero in cui è ancora avvolta la scomparsa, il giorno stesso delle nozze, dello sposo di Hilda Hack. La donna, impazzita dal dolore, lo attende in questo luogo da quarant’anni. Insieme a lei altri habitué dell’hotel: il poeta decadente Mittenhofer e la sua corte (la segretaria e al tempo stesso mecenate Carolina, il medico personale Reischmann, la giovane amante Elisabeth, ai quali si unirà ad un certo punto il figlio del medico Toni). Al centro della terrazza lo scrittoio dell’egocentrico poeta, con ai lati una poltrona e, rispettivamente, una chaise-longue. In primo piano la sala, una sorta di siparietto dove i personaggi si lasciano andare a qualche confessione. La lettura di Pizzi tende a collocare la vicenda fuori del tempo: i costumi come gli arredi suggerisconno un non meglio precisato Novecento e nella loro essenzialità corrispondono ad una concezione del dramma che rifugge da ogni realismo, da ogni approccio razionale, facendo dell’ambientazione (gli oggetti collocati in uno spazio rarefatto, la stessa evanescente montagna che appare e scompare) un luogo della memoria o, se si vuole, dell’anima, un’oggettivazione del non senso delle vicende umane. Molto efficace ed apprezzata dal pubblico, in particolare, la soluzione adottata dal regista per rappresentare la tormenta di neve, in cui trovano la morte Elisabeth e Toni, per quanto derivata dalla tradizione: un enorme velo bianco che ondeggia e progressivamente copre ogni cosa. Ma, come si sa, Pier Luigi Pizzi non ha mai nascosto la sua presa di distanza da certi sperimentalismi a buon mercato come, più in generale, dalla moda rampante delle attualizzazioni forzate.
Sul versante musicale, di ottimo livello è risultata la prestazione resa dagli strumentisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice, guidati con gesto sicuro dal maestro Jonathan Webb, alle prese con una partitura tutt’altro che facile, che mette a dura prova le qualità degli esecutori, cui sovente sono richieste prestazioni virtuosistiche. Nulla da eccepire anche per quanto riguarda l’affiatamento tra la buca e il palcoscenico.
Ottimo il cast. Ragguardevole, nella parte di Hilda Mack, il soprano Gladys Rossi, in possesso di una voce ferma ed estesa, che le ha consentito di intonare agevolmente acuti rotondi e di scendere con altrettanta disinvoltura nel registro grave in una parte davvero impegnativa, anche sul piano quantitativo, che prevede una linea di canto di ampia tessitura a suggerire una psiche turbata. Superba – quanto a presenza scenica, vocalità e fraseggio – nella “scena della follia” come in quella in cui riacquista la ragione, alla notizia del ritrovamento del corpo del marito.
Totalmente nel ruolo anche Olga Zhuravel, una Carolina von Kirchstetten, acida con tutti quanto ligia nel tutelare la maniacale ritualità che scandisce l’esistenza dell’idolatrato Maestro, bravissima nel far cogliere il proprio dissidio interiore di donna schiavizzata dal suo cinico protegé, rosa dal segreto rimpianto di non aver conosciuto l’amore. Notevole la sua interpretazione nella scena dello svenimento rivelatore.
Convincente il Dr. Wilhelm Reischmann di Roberto Abbondanza, dal declamato incisivo e sorretto da una voce ben timbrata. Giuseppe Altomare è, analogamente, un Gregor Mittenhofer davvero convincente nell’esprimere la sua totale quanto malcelata anafettività: il baritono romano ha affrontato con efficacia interpretativa e adeguate doti vocali l’ardua parte a lui affidata, che – merita ricordarlo – ebbe come primo interprete Dietrich Fischer-Dieskau. Appassionati, come di prammatica, i due giovani amanti: l’ottimo John Bellemer (Toni Reischmann), dotato di un bel timbro tenorile e adeguate capacità di fraseggio, e l’avvenente Zuzana Marková (Elizabeth Zimmer), che ha conferito al suo personaggio tutta la freschezza giovanile che gli compete, esprimendo appieno, tramite un uso intelligente della sua smagliante vocalità, il conflitto interiore tra l’attaccamento al proprio passato di amante dell’ormai maturo artista e la presa di coscienza dell’amore sincero che nutre per Toni. Una citazione anche per Francesco Bortolozzo, in qualità di voce recitante, che ha delineato il personaggio di Josef Mauer con naturale spigliatezza. Applausi convinti da parte del pubblico che affollava il Malibran dopo la conclusione dello spettacolo, svoltosi senza intervalli secondo le indicazioni del regista. Foto © Michele Crosera