Bologna, Teatro Comunale, Stagione lirica 2013-14
“EVGENIJ ONEGIN”
Opera in tre atti e sette quadri di Konstantin Stepanovič Šilovskij e Pëtr Il’ič Čajkovskij, dall’omonimo poema di Aleksandr Sergeevič Puškin.
Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
La vedova Larina ELENA TRAVERSI
Tat’jana AMANDA ECHALAZ
Ol’ga LENA BELKINA
La njanja Filipp’evna CRISTINA MELIS
Evgenij Onegin ARTUR RUCINSKI
Vladimir Lenskij SERGEJ SKOROKHODOV
Il principe Gremin ALEXEI TANOVITSKI
Un capitano della guardia NICOLÒ CERIANI
Zareckij LUCA GALLO
Triquet THOMAS MORRIS
“O” EMIL WESOLOWSKI
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Compagnia Artemis Danza
Direttore Aziz Shokhakimov
Maestro del coro Andrea Faidutti
Regia Mariusz Treliński
Scene Boris Foltýn Kudlicka
Costumi Joanna Klimas
Coreografie Emil Wesolowski
Allestimento Teatr Wielki – Opera Narodowa Varsavia
Bologna, 1 aprile 2014
Martedì 1 aprile il Teatro Comunale di Bologna era molto lontano dall’essere affollato (per usare un eufemismo). Si sarebbe detto che in programma vi fosse una qualche opera contemporanea. Invece si dava l’Onegin di Čajkovskij, opera melodiosissima (a volte molto più del necessario) di un compositore arcinoto, eseguita peraltro da un cast vocale eccellente. Alcuni abbonati saranno rimasti a casa, ma molti posti sono semplicemente rimasti invenduti, tanto che per riempire le ultime repliche il Comunale di Bologna ha offerto tramite Facebook i posti di platea a soli 25 euro. Siamo arrivati al punto che i teatri in Italia si riempiono solo ed esclusivamente per 4 titoli di Puccini, 5 o 6 titoli di Verdi, Cav/Pag e poco altro. L’ignoranza del pubblico italiano, che non riceve dalla scuola nessuna formazione musicale, è certamente immensa. Ma non sembra che i teatri – che naturalmente sono molto preoccupati dei tagli ai finanziamenti pubblici – siano altrettanto preoccupati da questa atrofizzazione del pubblico. Se lo fossero, investirebbero molto di più (o molto meglio) in marketing, rivolgendosi a studi pubblicitari più moderni e competitivi, pretendendo molto più spazio sui mezzi di comunicazione con contenuti accattivanti, investendo molto di più sulla valorizzazione dei cantanti (da sempre il motore del pubblico dell’opera, così come gli attori lo sono del cinema) e in sostanza facendo capire al pubblico perché dovrebbe spendere tutti quei soldi per recarsi a teatro, trovare parcheggio, ecc… Non si può più puntare sulle aspirazioni sociali della borghesia e nemmeno si può più pretendere che il pubblico si rechi a teatro perché “fa cultura”. Bisogna fornire agli spettatori un prodotto che ripaghi sia il prezzo del biglietto che, soprattutto, il “salto nel buio” in un mondo che spesso è percepito come lontano e ostile. Non mi voglio riferire a scenografie oleografiche o ipertecnologiche (la cui bellezza può in ogni caso essere talora un valore aggiunto), ma alla necessità di offrire al pubblico spettacoli che sappiano comunicare emozioni attraverso la musica (la quale è la ragione principale per cui il pubblico si reca al teatro d’opera) e non nonostante la musica o contro la musica. Se i teatri italiani si preoccupassero di attirare e conservare il pubblico non ospiterebbero una produzione tanto brutta da vedere quanto povera di valori teatrali o intellettuali come questa del regista Trelinski proveniente dal Teatro Wielki di Varsavia.
La ragione di questa scelta è derivata in realtà dalla necessità di riparare ad un debito che il Comunale aveva contratto col teatro polacco nella stagione 2011-12, quando il nuovo sovrintendente Francesco Ernani non volle portare in scena a Bologna la produzione di Turandot dello stesso Trelinski (il direttore artistico del Teatro Wielki, che in quel teatro firma ogni anno almeno 3 o 4 spettacoli), una co-produzione ideata dal suo predecessore Marco Tutino, e ripiegò su un noleggio dell’allestimento barese di De Simone. La motivazione ufficiale fu quella di un costo eccessivo dell’adattamento dell’allestimento dal palcoscenico di Varsavia a quello di Bologna. Si vuole sperare però che una co-produzione fra due teatri importanti avesse già calcolato questo tipo di problematiche. Guardando la scenografia di quella Turandot dai filmati presenti su YouTube, si può constatare che non consisteva in altro che in una piattaforma girevole di dimensioni non enormi. Si può facilmente evincere che questo rifiuto abbia invece avuto motivazioni di natura artistica: giustamente la sovrintendenza deve aver pensato che il pubblico italiano non avrebbe digerito un allestimento così orribilmente kitsch (tra le idee più brillanti: un mandarino-Joker (quello di Heath Ledger di The Dark Knight) e Ping, Pong e Pang drag queen) di un titolo pucciniano così amato. Se Trelinski doveva proprio essere, meglio che fosse su un titolo straniero, su cui il pubblico italiano non è altrettanto suscettibile (sempre che si scomodi a venirlo a vedere).
E così si è arrivati a questo Onegin, sempre improntato ad un kitsch cupo, molto est-europeo, e impostato su poche idee ma ben confuse. Per nessun motivo particolare i costumi erano un coacervo di riferimenti: Ottocento, anni ’20, medioevo, folklore slavo, Settecento e, ancora una volta, Batman (ma questa volta il riferimento era al Joker di Jack Nicholson). Le scene consistevano in pochi elementi finto-minimali tra cui le betulle e la neve di tradizione, una scelta in sé rispettabile, dato che l’opera di Čajkovskij si concentra quasi unicamente sulle effusioni liriche dei singoli personaggi più che su un realismo dell’ambientazione. Ma purtroppo non vi è stata nessuna cura per la recitazione dei cantanti, sostituita da tante moine geometriche presumibilmente simboliche, da cui non si evinceva granché se non che l’idea che il regista ha di Onegin sia quella di una sorta di vampiro maligno e cafone. Il rapporto tra i personaggi era poi ulteriormente ostacolato dalla presenza superflua e fastidiosa di un mimo che sul programma di sala è chiamato “O” e che al termine dello spettacolo ha preso gli applausi insieme ai solisti principali. Lo spettatore era invitato a intuire che questa specie di fantasma fosse un Onegin invecchiato o forse la sua anima che rivive-ripensa alle vicende della sua gioventù e alla sua influenza distruttiva sulle anime candide di Tat’jana e Lenskij. Nessun indizio invece è stato fornito per capire che cosa questa presenza aggiunga alla fruizione dell’opera.
Per motivi altrettanto difficili da divinare, nella produzione polacca erano stato tagliati la Scozzese del terzo atto e il bel coro popolare di contadini del Quadro I del primo atto. Ragionevolmente, il teatro di Bologna ha però deciso di riaprire questi tagli (oppure non si è accorto che erano stati perpetrati) e il coro si è quindi diligentemente applicato al difficile scioglilingua russo. Disgraziatamente, sembra che nessuno del teatro di Bologna si sia premurato di informare i polacchi della nuova decisione o che i polacchi non si siano interessati alla cosa e così, a prove iniziate, è saltato fuori che non c’erano costumi da contadini per il coro uomini, né è stato giudicato possibile arrivare ad altre soluzioni. Ragion per cui il bel coro popolare del Quadro I è stato studiato ma non è stato eseguito.
Sul podio il ventiseienne uzbeko Aziz Shokhakimov non è riuscito a domare l’esuberanza dell’orchestra bolognese, sommergendo troppo spesso le voci dei suoi cantanti, nessuno dei quali difettava di volume, e spesso privandoli della possibilità di fare colori. Un vero peccato perché il cast era eccellente, cosa di cui dobbiamo ringraziare innanzi tutto Čajkovskij, che seppe valorizzare al massimo i cantanti senza pretendere da loro prestazioni sovrumane. Il mezzosoprano ucraino Lena Belkina (la Cenerentola del famigerato film televisivo in diretto di Verdone-Andermann) è stata una Ol’ga piena di grazia giovanile ed il russo Sergej Skorokhodov un Lenskij commovente, grazie ad un bel timbro da tenore lirico sorretto da una tecnica ortodossa. La sudafricana Amanda Echalaz (che recentemente ha debuttato al Met come Cio-Cio-San) ha donato a Tat’jana una voce sontuosa, potente e morbida. Splendido, nonostante le scelte banalizzanti della regia, l’Onegin del baritono polacco Artur Rucinski, dal timbro brunito e squillante, che ha chiuso la sua aria del primo atto su un Fa acuto (di tradizione) di particolare bellezza. Non meno pregevoli i contributi dei cantanti italiani, soprattutto il mezzosoprano Cristina Melis, amabile njanja dal ricco registro di petto ben integrato con i centri, e il basso Luca Gallo, autorevole Zareckij. Buoni anche la Larina del mezzo Elena Traversi e il Capitano del baritono Nicolò Ceriani. Accettabile lo spieltenor francese Thomas Morris nel ruolo di Triquet, reso dalla regia ancora più caricaturale del solito, in abito settecentesco “rosa shocking” e con un ciuffo del medesimo colore e contornato da improbabili fatine che escono da una specie di grossa torta. (Dato il kitsch generale dell’allestimento, è difficile dire quanto dell’effetto imbarazzante di questa scena fosse voluto.) Unico neo di questo cast altrimenti solidissimo è stato il Gremin del basso bielorusso Alexei Tanovitski, la cui voce scura ed eccezionalmente tremula potrebbe anche adattarsi al personaggio del vecchio principe, ma non è certamente in grado di rendere giustizia alla lunga aria lirica che gli ha affidato Čajkovskij, la quale richiederebbe anche dei Mi bemolli acuti più sicuri. Per riassumere, un superbo cast vocale un po’ inibito da una direzione poco attenta e affondato da una regia senza senso.
Un’ultima piccola nota. Il Teatro Comunale di Bologna avrebbe potuto trovare qualcuno dalla sensibilità un po’ meno medievale per redigere la nota biografica di Čajkovskij sul programma di sala. Vi si legge: “a quel morboso legame materno molti biografi ascrivono le prime tracce della sua omosessualità”. A parte l’uso scorretto del verbo “ascrivere” (si ascrive – cioè si attribuisce – un fenomeno ad una causa, non si ascrive un fenomeno ad un sintomo), nel 2014 simili teorie parascientifiche (che fanno il paio con “gli autistici sono stati resi tali da madri poco affettuose”, “gli africani hanno il ritmo nel sangue”, la frenologia, ecc…), se proprio devono essere ripetute, non possono andare disgiunte da qualche parola di distanza critica. P.V.Montanari Foto Rocco Casaluci