Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014
Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Antonio Pappano
Pianoforte Lang Lang
Giacomo Meyerbeer: Ouverture da Dinorah ou Le Pardon de Ploërmel
Sergej Prokof’ev: Concerto n. 3 in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 26
Camille Saint-Saëns: Sinfonia n. 3 in do minore con organo op. 78
Roma, 4 marzo 201
Che la musica possa essere emblema della globalizzazione, è cosa nota; ma non così spesso capita di vedere tante istanze socio-culturali diverse, amalgamate in un concerto: caso o volontà? A chi legga, infatti, con occhio leggermente più attento programma di sala e interpreti, si accorgerà che si suona musica tedesca, russa e francese, e che a dirigere è un italo-inglese; al pianoforte, un cinese. Un cocktail vincente e ubriacante. Se poi ricordiamo si tratti di Antonio Pappano e Lang Lang, non possiamo che definire la performance: “two men show”.
L’invito alla danza ─ per citare Weber ─ è offerto da un’ouverture di Giacomo Meyerbeer, quella dalla Dinorah, opéra-comique tra le più celebri da lui composte (la première fu al Teatro dell’Opéra-Comique, il 4-04-1859). Si tratta di una composizione monstrum, nel suo genere assai adatta a essere eseguita come brano a sé stante, da concerto; l’orchestrazione, incredibilmente raffinata, evoca a tratti un uragano, con gli archi ─ in particolare i violini ─ in figure agitate, velocissime, accordi spezzati, giri e ripetizioni (folate di vento e turbinii temporaleschi), sovente doppiati dai legni. L’insolita presenza del coro ─ come altro esempio, a mia memoria, mi vien solo l’ouverture dell’Ermione (1819) di Rossini ─, cantante retroscenicamente una preghiera alla Madonna, rende il tutto assai drammatico. Pappano dirige al solito con la sua asciutta perizia, valorizzando un tempo strettamente uniforme e l’emissione pulita del suono, restituendo il brano nella maniera più monda possibile (a differenza, ad esempio, della emozionale resa di Toscanini): perfetta la sincronia col coro, che canta nel corridoio sopra la galleria retrostante la cavea dell’orchestra, con effetto bellissimo di lontananza.
Poi ecco entrare la star, una Lady Gaga del pianoforte: Lang Lang. Sceglie questa volta per il pubblico romano il Concerto n. 3 per pianoforte e orchestra op. 26 di Prokof’ev ─ recentemente inciso per la Sony assieme a Simon Rattle ─, che fu eseguito per la prima volta all’ANSC proprio dall’autore nel 1926. E di Prokof’ev stesso ─ e non poteva essere altrimenti! ─ è la più bella delle interpretazioni in disco (1932, con la London e Coppola sul podio); forse solo Argerich/Abbado (1967) riescono a avvicinarsi all’incredibile tavolozza sonora, al cangiante dinamismo e all’acquatico virtuosismo dell’autore stesso al piano. Un concerto di una bellezza rara, assai meno ‘scandaloso’ del Primo concerto, quando Prokof’ev fu paragonato ai cubisti e ai futuristi: il Terzo concerto «è uno dei suoi lavori sinfonici ‘europei’, ed è anche uno dei più vitali perché in esso si incontrano con fortunato dinamismo le componenti di carattere artistico che Prokof’ev dichiarò per lui fondamentali, la motoria e vitalistica (moderna e dissonante), la classica che la contrasta, la riflessiva e lirica, che dalle altre due si allontana» (Franco Serpa, dal programma di sala). Lang Lang è istrionicamente rock/pop: ammicca al pubblico, con movimenti ampi e gestualità barocche, da star consumata del red carpet. Ma assieme a tutto ciò, c’è anche la musicalità, il timing, il tocco ─ la sua dote migliore: è incredibile come riesca a soffondere il suono, senza quasi l’ausilio del pedale sinistro; il concerto gli offre inoltre ampio materiale di sfoggio virtuosistico: sequele di scale e arpeggi, evocanti paesaggi lunari, notturne armonie glissate e sfuggenti. La sua resa sonora generale raramente supera dinamicamente il forte-piano, acuendo gli aspetti eterei della musica prokofeviana: se gli manca qualcosa, appunto, è una certa sfrenatezza nei passaggi più percussivi, che pure sono un elemento fondante, direi genetico della musica del russo (si pensi al finale del III movimento). A scanso di qualche effetto sonoro più vanitoso che necessario, il risultato finale è d’ottima qualità: eccelle soprattutto nelle variazioni I e IV del II movimento (con un trillo, espanso e poi trattenuto, indimenticabile nella II), come nel cuore meditativo del III. Alla fine del concerto, tira un pugnetto di vittoria: poi l’abbraccio con Pappano, che da par suo interpreta sublimemente la partitura. Qualche sorriso ai fotografi e alle telecamere (il broadcast andrà in onda su Rai5), poi un applauso irrefrenabile del pubblico, contagiato dalla fresca, bonaria irriverenza del suo beniamino. All’età di trentadue anni, il suo pianismo esprime già una certa maturità: ma su alcuni aspetti, com’è ovvio, dovrà ancora lavorare. Perfetta invece la gestione economico-sociale della sua carriera e della sua persona: il Time magazine lo ha inserito fra le cento personalità più importanti del mondo, considerando anche il suo impegno in qualità di Ambasciatore di Pace dell’ONU (non a caso i media hanno parlato di “Effetto Lang Lang”).
A chiusura della serata, la Terza sinfonia di Saint-Saëns, che l’autore eseguì all’ANSC nel 1906, sedendo anche all’organo. Un affresco sonoro corposo, importante, con un dispiegamento strumentale ragguardevole. Pappano è abilissimo nel palesare queste pennellate rutilanti, più che nel coprirle: dalla sua direzione emergono le tinte sinfoniche di una grandezza decadente. Gli esempi si possono sprecare: la climax dell’Allegro moderato e la struggente sensibilità del Poco Adagio (I tempo); l’eterogenea pasta orchestrale del Presto, antesignana di un gusto da colonna sonora, e la manierata vitalità del finale, introdotto da un potente, (in senso etimologico) luciferino accordo in do maggiore dell’organo. Dalla platea, dove si era seduto all’intervallo, Lang Lang applaude divertito, assieme a tutto il pubblico, l’amatissimo direttore stabile dell’Accademia. Foto © Riccardo Musacchio & Flavio Ianniello –