Torino, Teatro Regio – Stagione d’Opera e Balletto 2013/2014
“EINE FLORENTINISCHE TRAGÖDIE”
Opera in un atto su testo di Oscar Wilde, tradotto da Max Meyerfeld
Musica di Alexander Zemlinsky
Simone MARK S. DOSS
Guido Bardi ZORAN TODOROVICH
Bianca ÁNGELES BLANCAS GULÍN
“GIANNI SCHICCHI”
Opera in un atto di Giovacchino Forzano
Musica di Giacomo Puccini
Gianni Schicchi ALESSANDRO CORBELLI
Rinuccio FRANCESCO MELI
Lauretta SERENA GAMBERONI
Zita SILVIA BELTRAMI
Gherardo LUCA CASALIN
Nella MARIA RADOEVA
Gherardino ANITA MAIOCCO
Betto di Signa FABRIZIO BEGGI
Simone GABRIELE SAGONA
Marco MARCO CAMASTRA
La Ciesca LAURA CHERICI
Maestro Spinelloccio – Amanzio de Nicolao ALESSANDRO BUSI
Pinellino RYAN MILSTEAD
Guccio GIUSEPPE CAPOFERRI
Buoso Donati PAOLO VETTORI
Orchestra del Teatro Regio di Torino
Direttore Stefan Anton Reck
Regia Vittorio Borrelli
Scene (a cura di) Saverio Santoliquido – Claudia Boasso
Costumi Laura Vignone
Nuova produzione del Teatro Regio di Torino
Torino, 23 Marzo 2014
In un momento non facile per i teatri italiani, in cui le necessità di botteghino impongono una riproposizione ciclica dei soli titoli del grande repertorio e una difficoltà crescente a presentare proposte insolite ed originali il Teatro Regio tenta con coraggio una scommessa risultata vincente. Abbinare in un’unica serata un titolo di grande richiamo per il pubblico come il “Gianni Schicchi” pucciniano ad un’opera di più raro ascolto e mai rappresentata finora a Torino come “Eine florentinische tragödie” composta nel 1917 da Alexander Zemlinsky su un testo incompiuto di Oscar Wilde nella traduzione tedesca di Max Meyerfeld.
Le due opere accomunate dalla data di composizione e dall’ambientazione fiorentina medioevale – rinascimentale declinata in modo antitetico sono state rappresentate in due allestimenti realizzati all’interno dell’ente lirico torinese con una scelta di estrema limitazione dei costi che però non ha influito sulla qualità del risultato. Gli impianti scenici non privi di suggestione sono stati realizzati da Saverio Santoliquido e Claudia Boasso riadattando in gran parte elementi scenici di magazzino cui il sapiente gioco di luci di Vladi Spigarolo ha saputo infondere nuova vita. Questo elemento era particolarmente evidente proprio ne “Eine florentinische tragödie” in cui la parte essenziale della scena con le grandi librerie a parete e la vetrata aperta sul fondo era quelle del “Werther” visto nello stesso teatro alcune stagioni fa ma in cui l’attento gioco di proiezioni atmosferiche cangianti creava suggestivi effetti di ambientazione.
I costumi di Laura Vignone spostavano l’ambientazione al momento della composizione dei lavori e per quanto riguarda l’opera di Zemlinsky erano connotati in chiave alto-borghese e decadente. Nel complesso l’allestimento dava alla vicenda un’atmosfera che ricorda certe pagine dei romanzi di D’Annunzio in cui il realismo degli ambienti viene come soffocato dalle brume decadenti di un’aria intrisa di erotismo e di morte . La regia risultava affidata a Vittorio Borrelli, regista interno del teatro torinese e già autore di analoghi esperimenti sul versante dell’opera buffa, segue la vicenda in modo sostanzialmente didascalico favorendo la piena intelligibilità di un testo così poco noto intervenendo significativamente solo sul finale in cui modifica in senso drammatico e tragico la conclusione della vicenda facendo uccidere Bianca da Simone con una soluzione drammaturgicamente più logica rispetto all’inverosimile lieto fine previsto nel libretto.
Alla guida dell’orchestra del Regio Stefan Anton Reck dimostra piena sintonia con questo repertorio optando per una direzione fortemente drammatica, capace di evidenziare la natura in qualche modo espressionista della musica di Zemlinsky – seppur di un espressionismo fortemente personale che resta legato alla tonalità, seppur liberamente intesa, e ad una matrice decadente e simbolista – ma capace di aprirsi in squarci melodici di grande bellezza dove non si può non apprezzare il rigore di una scrittura formale in cui le forme della tradizione e la grande lezione tedesca del contrappunto si leggono chiaramente in filigrana dietro alle armonie labili e volutamente incerte. Reck inoltre sostiene bene il canto, merito non trascurabile in un’opera caratterizzata da una scrittura orchestrale così densa e corposa.
Il cast è nel complesso all’altezza delle richieste. Mark S. Doss è ormai presenza abituale sul palcoscenico del Regio e sembra aver trovato nel repertorio tedesco il suo terreno di elezione. La voce è di bel colore e di buon corpo ed anche se non potentissima riesce a svettare con sicurezza sulla massa orchestrale; la parte poi è di grande impegno sul piano vocale in quanto Simone è l’autentico protagonista di questa tragedia da camera cui gli altri personaggi ruotano intorno subendone la mortale attrazione. L’interprete lavora poi con attenzione sul fraseggio cercando di rendere le infinite sfumature di questo personaggio complesso e dissimulatore, una sorta di incrocio fra Jago e Hagen calato dei gorghi dell’esasperata sensibilità del primo Novecento.
Doss riesce a rendere con efficacia la dissimulata fatuità della scena dei tessuti Und num, mein prinz, hier hab’ich mit Verlaub Luccaner Damast dove la colloquialità del canto gioca in contrasto con i preziosismi della scrittura orchestrale e dove il mercante comincia a tessere la sua ragnatela, sottile e mortale come i fili di seta evocati dalle raffinatezze orchestrali così come il crescente clima di tensione che sfocia nel grande assolo Ich kann ertragen Verachtung in cui il gioco delle maschere definitivamente viene a cadere e il mercante fiorentino trova accenti di torva grandezza degni di un autentico eroe negativo non lontano da certe analoghe figure wagneriane e dove Doss pur mancando un po’ di grandiosità ottiene comunque ad essere convincente. La recitazione è a tratti forse troppo enfatica, troppo diretta per un personaggio così calcolatore, ma l’effetto complessivo risulta comunque ben centrato.
Zoran Todorovich (Guido Bardi) è interprete decisamente più generico però va riconosciuto anche il fatto che la parte del principe fiorentino offre al riguardo meno possibilità essendo tutta intesa in chiave di un luminoso lirismo che cela una sostanziale ingenuità di fondo che fin dal primo dialogo con Simone lo designa come vittima sacrificale. La voce di Todorovich non è particolarmente attraente sul piano timbrico, ma robusta e sicura e dotata di un buono squillo nel settore acuto e la parte viene risolta in modo sostanzialmente positivo.
Decisamente meno convincente la Bianca di Ángeles Blancas Gulín, sicuramente l’elemento più debole di entrambi i cast. La parte di Bianca non presenta particolari problemi sul piano vocale, con una tessitura sostanzialmente imposta sul registro medio e priva di grandi salite in acuto – il ruolo è stato non casualmente affrontato anche da mezzosoprani – e la Gulín ha una voce sufficientemente potente per risaltare sul tessuto orchestrale, ma il timbro pur non brutto è anonimo e manca di quel fascino fatale che il personaggio dovrebbe avere; inoltre l’emissione è a tratti fin troppo personale e l’intonazione spesso opinabile.
La seconda parte della serata prevedeva l’esecuzione del “Gianni Schicchi” di Puccini eseguito come opera autonoma ed estrapolato dal contenitore del “Trittico”. Lo spettacolo era affidato agli stessi autori dell’opera di Zemlinsky e anche in questo caso si optava per un’ambientazione ai primi del Novecento, scelta qui più dolorosa venendo un po’ a perdersi il gioco di citazioni boccaccesche presenti nel libretto di Forzano che risaltano con maggior vivacità nell’originaria ambientazione medioevale. La scena ci porta qui in un ambiente piccolo borghese e quotidiano, ben distinto dal precedente – verosimilmente si tratta anche in questo caso di scene riutilizzate con intelligenza – le cui finestre si aprono su una veduta di Piazza della Signoria ripresa da un dipinto Ottocentesco. Se in Zemlinsky l’allestimento evocava atmosfere dannunziane, qui il clima è più quello di certe commedie di Scarpetta o di Eduardo rivisto in chiave fiorentina, mentre la regia di Borelli ha il grande merito di saper unire vis comica e buon gusto, senza mai cadere nel facile macchiettismo e nella trovata fine a se stessa.
Stefan Anton Reck propende per una lettura decisamente moderna della partitura pucciniana in cui al centro dell’attenzione vi è l’implacabile macchina teatrale di sapore quasi brechtiano nella sua macabra ironia e tende ad evidenziare la natura pienamente novecentesca di quest’opera. Una lettura che nella sua asciuttezza e geometricità mette ancor più in evidenza le aperture melodiche non solo quelle affidate a Lauretta e Rinuccio ma anche ad esempio il terzetto delle donne E’ bello, portentoso con il suo andamento quasi fugato.
Alessandro Corbelli è un protagonista eccezionale. La voce non ha perso nulla in fatto di solidità e presenza, la linea di canto è perfetta, la tecnica da manuale del canto, ma se possibile ancora più grande è l’artista. In Corbelli è impossibile trovare un solo accento, un solo gesto che non sia perfettamente calato nella musica e nel personaggio; il fraseggio è di mercuriale mobilità, perfetta incarnazione della vivacità intellettuale del personaggio; il gioco mimico curatissimo, studiato in ogni dettaglio e al contempo della più totale naturalezza, il gusto è sempre misuratissimo, in cui tutti gli effetti – ad esempio nel camuffamento vocale di Buono Donati – sono sempre risolti nel canto e nella musica, senza la minima forzatura.
La coppia dei giovani innamorati può contare su due interpreti d’eccezione. Francesco Meli è persino un lusso come Rinuccio; la voce è di rara bellezza e già all’entrata su Povero Buoso sembra illuminare il palcoscenico. Lo stornello è cantato con una pienezza vocale che raramente si ascolta nel ruolo e anche l’interprete è risultato particolarmente coinvolto e partecipe. Serena Gamberoni è una Lauretta perfetta sotto ogni punto di vista, la voce non ha minimamente risentito della recente maternità e appare luminosa e morbida, perfettamente omogenea e di rara luminosità, meritando in pieno gli applausi più convinti al termine di Oh, Mio babbino caro; l’interprete è altrettanto convincente e piace molto l’idea di vedere in Lauretta non una ragazzina ingenua, ma persona dotata di astuzia e temperamento, capace di giocare con la propria presunta ingenuità per raggiungere i suoi scopi, in questo vera figlia di Gianni Schicchi e il gioco scenico che accompagna l’aria è al riguardo riuscitissimo.
Il folto gruppo dei Donati è formato da un’autentica compagnia che funziona alla perfezione come un delicato meccanismo ad orologeria, in cui i vari elementi interagiscono alla perfezione tanto sul piano vocale che su quello scenico e in cui le pur buone prestazioni individuali passano in secondo piano rispetto al risultato complessivo. Il gruppo era formato da Gabriele Sagona, Simone dall’ottima voce di basso; Silvia Beltrami, Zita dalla straordinaria vis comica; Luca Casalin (Gherardo) , Maria Radoeva una Nella di buona proiezione vocale e di notevole presenza scenica, Anita Maiocco (Gherardino), Fabrizio Beggi (Betto di Signa), Marco Camastra (Marco), Laura Cherici (La Ciesca).
Completavano il cast Alessandro Busi, bravo nel differenziare con accento e pronuncia i due personaggi di Mastro Spineloccio e Amanzio de Nicolao; Giuseppe Capoferri (Gucci) e Ryan Milstead (Pinellino).
Teatro non gremito ma successo caloroso per tutti gli interpreti con autentiche ovazioni per Corbelli, Meli e Gamberoni. Foto Ramella&Giannese