Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2013-2014
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro atti. Libretto di Salvatore Cammarano
Musica di Giuseppe Verdi
Il Conte di Luna FRANCO VASSALLO
Leonora MARIA AGRESTA
Azucena EKATERINA SEMENCHUCK
Manrico MARCELO ALVAREZ
Ferrando KWANGCHUL YOUN
Ines MARZIA CASTELLINI
Ruiz MASSIMILIANO CHIAROLLA
Un vecchio zingaro ERNESTO PANARIELLO
Un messo GIUSEPPE BELLANCA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Daniele Rustioni
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia, scene e costumi Hugo De Ana
Luci Marco Filibeck
Movimenti coreografici Leda Lojodice
Produzione Teatro alla Scala
Milano, 4 marzo 2014
Nonostante la popolarità del titolo, Il Trovatore mancava dalle scene scaligere dal 2000, quando aprì la stagione del Piermarini diretto da Riccardo Muti, con regia, scene e costumi dell’argentino Hugo De Ana. Oggi viene riproposto lo stesso identico allestimento di quattordici anni fa, dai tratti un po’ obsoleti come – in fondo – già erano allora. Questo perché ci troviamo nel pieno solco della tradizione, con una lettura fondata su un forte illustrativismo che ha per obiettivo quello di incorniciare l’opera più che interpretarla. Un procedimento, questo, non banale come si potrebbe pensare: illustrare meccanicamente per carenza di idee è un conto, illustrare per dare risalto ed enfasi visiva alle sfumature che traspaiono nell’opera è tutt’altro discorso. L’intento di De Ana è senz’altro il secondo, ed è portato a termine in maniera didascalica ma più che soddisfacente grazie allo spiccato occhio pittorico del regista argentino. Le tinte dominanti sono quelle romantiche proprie della partitura e della vicenda, che si dipanano in una corposa tavolozza di blu, neri, azzurri, rossi e riflessi violacei impiegati anche nei ricchi costumi dei protagonisti, dando vita come ad un grandioso quadro vivente. L’atmosfera è quella tetra e al tempo stesso sognante del notturno lunare, ben espressa anche nelle luci di Marco Filibeck che accarezzano velatamente la scenografia poderosa e cupa costituita da gigantesche mura – che si aprono e chiudono ad ogni cambio scena – cui si aggiungono pochi altri elementi (altari, tombe, bandiere) e si sostituisce un impressionante mucchio di cadaveri e armature nell’atto finale. Per quanto riguarda le indicazioni registiche, convincono poco determinate gestualità innaturali imposte ai cantanti e al coro (ricordiamo il fastidioso rallenty degli armigeri durante il concertato del finale II). Tutto sommato però non se ne trovano nemmeno molte di imposizioni attoriali e gli artisti spesso si ritrovano a cantare in proscenio senza nemmeno interagire troppo con gli elementi scenici, quasi si trovassero fuori contesto. Si ha l’impressione, come si diceva, che l’allestimento di De Ana ricrei una splendida cornice intorno all’azione dei protagonisti senza invadere o disturbare troppo ciò che davvero rende il Trovatore una partitura eccezionale a dispetto di un’arzigogolata trama piuttosto bizzarra: la musica. Insomma, spazio al canto: e non è un’accusa, è un elogio.
Per cominciare, la prova di Marcelo Alvarez nell’eponimo ruolo di Manrico ci ha decisamente sorpreso in positivo. Si parla da tempo, sul suo conto, di carriera in fase discendente, di una voce che non è più quella di una volta, di un mezzo ormai usurato. Tuttavia se queste opinioni si possono essere rivelate fondate in altre sue recenti performance, assistendo a questo Trovatore privi di qualsiasi pregiudizio – come sempre si dovrebbe fare entrando in teatro – ci si rende palesemente conto delle potenzialità ancora brillantemente vivide di questo artista. Alvarez convince sin dal primo intervento fuori scena, sfoggiando subito il suo bel timbro caldo e pastoso nella prima romanza (“Deserto sulla terra”) con un piglio più da guerriero che da amante, ma con una linea di canto più che gradevole. Proseguendo nel corso dell’opera, il tratteggio espressivo del personaggio è sempre efficace in ogni sua sfumatura, dai momenti lirici agli slanci eroici. Per i primi citiamo l’aria “Ah sì, ben mio, coll’essere”, cantato con sentimento e malinconico trasporto, in un fraseggio dolce e vellutato. Segue il prezioso duettino con Leonora “L’onda de’ suoni mistici” – piccola grande meraviglia nello spartito verdiano – caratterizzato da morbidi passaggi di registro e vellutate mezze voci. L’impeto guerriero emerge invece in tutta la sua foga a partire dal duetto con Azucena “Mal reggendo all’aspro assalto”, interpretato da Alvarez con baldanza, ma mantenendo sempre nobiltà e compostezza. Il tenore argentino si scatena intrepido e feroce anche nella Pira, nonostante la celeberrima aria sia cantata con un certo affanno, con meno pulizia e con alcune forzature evidenti, forse per motivi di stanchezza. Nulla di grave, tuttavia: una sbavatura del tutto irrilevante a fronte di una prova nel suo complesso davvero maiuscola.
Nessuna sorpresa invece per quanto riguarda la Leonora di Maria Agresta, che anche questa sera si conferma una tra le più grandi cantanti verdiane in circolazione. Un soprano lirico puro che vanta una tecnica solidissima unita ad una sensibilità musicale e teatrale fuori dal comune. Gestisce tutta la sua ampia estensione vocale con ugual sicurezza, dal tagliente re bemolle che chiude il terzetto del primo atto scendendo fino alle note più gravi come, ad esempio, quelle cupe e tombali di cui è costellato il Miserere. Il volume delle puntature in acuto è impressionante, ma ciò che davvero sconvolge è come le mezze voci corrano facilmente in tutto il teatro, pulite e nitide come raramente si ha il piacere e la fortuna di ascoltare. A questi delicati pianissimi si affiancano una sapiente gestione del fiato, omogeneità di emissione, fraseggio elegante, precisa cesellatura di trilli e virtuosismi. Tutti ingredienti, questi, che trasformano la sua performance in una vera e propria lezione di canto. Un altro aspetto non secondario che rende l’interpretazione della Agresta memorabile è la capacità di aderire al personaggio in tutte le sue sfumature psicologiche. Sognante e languida in apertura con l’aria di sortita “Tacea la notte placida” e, subito dopo, in preda alla fibrillazione amorosa ben resa nella cabaletta “Di tale amor che dirsi”. Nel finale II, prima rassegnata (“Perché piangete?”), poi in estasi incredula nell’insieme “E deggio…e posso crederlo?”. Infine, volgendo al tragico finale ultimo, il soprano riesce a far emergere sempre più evidente la grandezza dell’eroina in tutto il suo spessore tragico, dal coraggio sprezzante trasmesso nella cabaletta “Tu vedrai che amore in Terra” al lento e graduale spegnersi nella morte (“Prima che d’altri vivere”). Insomma, una Leonora da manuale, giustamente tributata da entusiastiche ovazioni a seguito dell’aria “D’amor sull’ali rosee” e rinnovate ai saluti finali.
Discorso totalmente diverso per Franco Vassallo, nei panni di un irascibile Conte di Luna piuttosto deludente. La sua interpretazione è piatta, fissa sull’archetipo dell’uomo geloso possessivo e aggressivo, quando il ruolo, decisamente più complesso, meriterebbe un maggiore approfondimento psicologico. Questa eccessiva semplificazione scenico-interpretativa si riflette parimenti nel canto, privo della gamma di colori necessaria a rendere il personaggio in tutte le sue sfaccettature. Ascoltiamo suoni fissi e un susseguirsi di forzature nell’emissione, accettabili forse per dare sfogo alle “furie nel cor” del Conte, ma non certo per rendere il trasporto lirico de “Il balen del suo sorriso” o l’effimera gioia dell’innamorato illuso nel duetto della parte IV.
Non sembra troppo a fuoco nemmeno l’Azucena di Ekaterina Semenchuck. Anche per lei vale il discorso della semplificazione interpretativa, che riduce il personaggio della zingara così caro a Verdi ad una donna un po’ bizzarra che soffre talvolta di allucinazioni. La linea di canto non è troppo omogenea, ben timbrata nel registro grave ma stridula nelle risalite alle ottave alte. Il fraseggio è grossolano nelle arie più concitate (“Deh, rallentate o barbari”, “Condotta ell’era in ceppi”), mentre migliora con il procedere dell’opera, risultando decisamente più curato ed espressivo nelle scene finali (“Sì, la stanchezza mi opprime…Ai nostri monti ritorneremo”) in cui il mezzosoprano russo riesce a riscattarsi. Notevole infine Kwangchul Youn nel ruolo di Ferrando, che convince a partire dal racconto “Di due figli vivea padre beato” grazie alla voce tonante e poderosa, ben timbrata e brunita. L’artista coreano riesce inoltre a scandire efficacemente ogni battuta, forte di una dizione chiarissima che permette di afferrare ogni parola (elemento non trascurabile se ricordiamo quanto siano fondamentali i racconti del generale per capire lo sviluppo drammaturgico dell’opera).
Completa felicemente il cast un comprimariato di livello. Il coro preparato da Bruno Casoni (con menzione d’onore al comparto dei bassi) non delude nemmeno questa volta, regalando un’ottima resa degli splendidi e numerosi pezzi d’insieme che impreziosiscono l’opera di Verdi. Sul podio abbiamo Daniele Rustioni, giovanissima bacchetta ormai collaudata in Scala e sulle scene internazionali. Con una lettura umile, senza alcuna interpretazione istrionica, il direttore milanese dà una lettura corretta e rispettosa. I tempi scelti sono piuttosto sostenuti – in alcuni casi forse troppo – ma mai tanto da mettere in difficoltà gli artisti sul palco. Anzi, è ben evidente come l’attenzione di Rustioni nei loro confronti sia sempre alta e la coordinazione tra cantanti e orchestra non venga mai meno (esclusa qualche latitanza negli attacchi del Conte). In ultimo, anche la gamma di colori proposta è efficace nel valorizzare la partitura, evidenziandone i profondi echi notturni e le tinte romantiche, quelle stesse sfumature che pervadono – come detto – anche l’intero allestimento scenico di questo Trovatore scaligero, facendone un unicuum coerente ed espressivo.