Stefano Pavesi (1779-1850):”Ser Marcantonio”

Dramma giocoso in due atti. Libretto di Angelo Anelli. Marco Filippo Romano (Ser Marcantonio), Loriana Castellano (Bettina), Matteo D’Apolito (Tobia), Timur Bekbosunov (Medoro), Silvia Beltrami (Dorina), Svetlana Smolentseva (Lisetta), Massimiliano Silvestri (Pasquino). Eliseo Castrignanò (clavicembalo), Massimo Spadano (direttore). Camerata Bach Choir, Poznan; Südwestdeutsches Kammerorchester. Registrazione: XXIII Rossini in Wildbad Festival, Königliches Kurtheater, Bad Wildbad, 7,10 e 16 luglio 2011. T.Time:2 ore e 11′. 2 CD Naxos 8.660331-32
Atto primo e Atto secondo

Qui il libretto dell’opera

Il nome di Stefano Pavesi (1779-1859) è da tempo immemore caduto nell’oblio, ma durante la sua lunga carriera (sessantasei opere) per almeno due decadi fu uno degli operisti più acclamati, in Italia e non solo.  Nato a Crema, si trasferì da adolescente a Napoli, all’epoca ancora capitale musicale europea, per studiare nel Conservatorio di Sant’Onofrio.  Come quasi tutti gli operisti del suo tempo, iniziò giovanissimo ad affinare il proprio talento nel genere delle farse; alcuni successi ottenuti al Teatro San Moisè di Venezia, autentico tempio di tale categoria musicale, gli permisero di arrivare ben presto al Teatro alla Scala, che gli commissionò un certo numero di opere, fra cui il Ser Marcantonio (1810) l’opera che lo rese celebre in tutta Europa e che, nonostante l’ondata rossiniana che quasi tutto travolse e sommerse, rimase in repertorio per lo meno fino al 1842, data su cui ritorneremo più tardi.  Questa è in poche parole la trama del libretto di Angelo Anelli, oggi noto più che altro come il librettista dell’Italiana in Algeri: un vecchio scapolo e possidente decide di sposare una ragazza molto più giovane per far dispetto ai suoi due nipoti che non aspettano altro che schiatti per ottenere l’eredità; un faccendiere, un sensale di matrimoni amico del vecchietto, gli propone la propria sorella, che è in realtà innamorata, ricambiata, del nipote.  La ragazza si presenta all’anziano come un’innocente educanda che null’altro desidera se non servire in rispettoso silenzio lo sposo; non appena firmato il contratto, la sposina si trasforma immediatamente in un’arpia che mette sottosopra la casa ed inizia a sperperare il patrimonio del marito chiamando schiere di modiste, tappezzieri, muratori e falegnami.  Il vecchietto cerca di fare di tutto per sbarazzarsi della donna, ma lo stratagemma che crede di aver trovato si ritorce contro di lui, e alla fine la “moglie” riesce sposare l’amato, ovvero il nipote dell’anziano gabbato, costretto fra l’altro a lasciargli parte assai cospicua del proprio patrimonio.   Se questa storia appare immediatamente familiare è perché Donizetti, mentre si trovava a Vienna nel 1842 per la prima di Linda di Chamounix, assistette a una recita del Ser Marcantonio, ritrovandovi una trama perfetta per un’opera da comporsi per il Théâtre des Italiens a Parigi e che doveva avere come protagonista il basso Luigi Lablache, ormai quasi definitivamente dedicatosi al genere buffo.   Il libretto del capolavoro donizettiano ha persino intere frasi riprese pari pari da quello di Anelli; le differenze maggiori sono la presenza di due nipoti (Medoro e Dorina) e quelle dei due classici servi settecenteschi (Lisetta e Pasquino).  Musicalmente parlando, il confronto non si pone neanche: Don Pasquale è uno dei vertici massimi dell’opera di ogni tempo, mentre Ser Marcantonio è un’opera di gradevole fattura e niente più, con alcuni momenti assai pregevoli, concentrati quasi esclusivamente intorno alla figura di Bettina, la finta moglie, che ha il maggior numero di arie (ben tre) e la scrittura più virtuosistica.  Un paio di concertati lascia presagire, seppur alla lontana, quelli ben più elaborati e trascinanti del cigno di Pesaro, e la maggior parte delle arie è ritmicamente ordinaria, con melodie piacevoli ma scarsamente originali.  Il protagonista è tale solo nel nome, in quanto il suo ruolo è poco interessante, quasi interamente declamato in zona centrale e privo anche dei rapidi sillabati che caratterizzano la maggior parte delle parti da basso buffo.
Dopo il trionfo del Don Pasquale, dell’opera di Pavesi si perse ogni traccia, fino a che il Festival Rossini di Wildbad non decise di includerla nella propria edizione del 2011 in una serie di recite che ha dato origine alla registrazione qui recensita.   La direzione di Massimo Spadano, alla guida della Südwestdeutsches Kammerorchester Pforzheim, è senza dubbio ricca d’inventiva, spumeggiante pur rimanendo precisissima, senza sbavature di alcuna sorta.  Considerata la tendenza alla monotonia di quest’opera, in cui un’allegro si succede ad un altro lasciano poco spazio a momenti lirici o patetici, Spadano riesce ad ottenere maggiore varietà di contrasti giocando con le dinamiche e gli spessori sonori.  Particolarmente fantasioso, nonché tecnicamente ineccepibile, è Eliseo Castrignanò al clavicembalo, che qui svolge un ruolo particolarmente importante considerata la lunghezza dei recitativi.   Il coro, Camerata Bach Choir di Poznán, invece non brilla per diligenza, tende a cantare perennemente forte e soprattutto sfoggia una pronuncia italiana fortemente slavizzata, caratteristica, quest’ultima, condivisa anche dal tenore russo Timur Bekbosunov (Medoro), praticamente incomprensibile.  Si potrebbero chiudere un’occhio o due se fosse in possesso di una tecnica appena decente: al contrario, senza tanti giri di parole, è la caricatura di un tenore “rossiniano”: agilità pasticciatissime, intonazione che definire precaria è un eufemismo, timbro esile e biancastro e affondi nel registro (relativamente) grave molto simili a certe emissioni di petto di un mezzosoprano arrivato al capolinea; un disastro totale che un paio di Re bemolli acuti sufficientemente dignitosi piazzati, in maniera filologicamente errata, alla fine delle sue due arie non mitiga affatto.  La parte dell’altro tenore, il servo Pasquino, è di puro comprimariato e non offre alcuna possibilità a Massimiliano Silvestri di emergere.  La voce del basso-baritono Matteo d’Apolito (nel ruolo di Tobia, un misto fra Malatesta e Figaro) non è particolarmente opulenta ma impiegata in maniera sagace e tecnicamente abbastanza agguerrita, permettendo all’interprete di emergere sia nei rari sprazzi lirici sia nelle battute prettamente comiche e nei doppi sensi che insaporiscono il libretto.  Il baritono Marco Filippo Romano possiede un timbro troppo chiaro e giovanile (nonché piuttosto anonimo) per il ruolo eponimo.  Vero è anche che, come accennato in precedenza la parte è piuttosto piatta, ma un vero buffo avrebbe potuto cavarne molto di più.
Sul versante femminile, una volta registrata la prova non proprio felice del mezzo-soprano Silvia Beltrami (Dorina, la nipote) che gestisce decorosamente i recitativi ma annaspa nell’unica aria a lei riservata, e quella esattamente antitetica della compagna di corda Svetlana Smolentseva, che al contrario se la cava nell’agilità della sua aria per proceder a distruggere ed appiattire ogni recitativo, è doveroso soffermarsi più a lungo sulla prestazione della protagonista, Loriana Castellano nelle vesti della “sposa” infernale Bettina.  Ho recentemente assistito a una recita del Matrimonio segreto in cui la Castellano interpretava il ruolo di Fidalma, lodandone il bel timbro ambrato (che rievoca, sia pur alla lontana quello unico e preziosissimo della Valentini Terrani), la buona tecnica e la verve scenica, tutte doti già evidenziate, seppur più acerbamente, in questa registrazione di tre anni fa.  L’artista pugliese, piena di spirito senza cadere nell’affettazione, esce vittoriosa da una parte molto grave, con una voce omogenea per almeno due ottave piene (dal La grave a quello acuto), affrontando le frequentissime discese nel registro di petto con gusto e senza gonfiare le gote, e manifestando una certa affinità verso il canto di agilità, non sgranatissimo in stile grande virtuosa ma sufficientemente preciso e intonato.  Insomma, la regina della festa.