Sorseggiando un caffè ginseng e godendo di un po’ di sole mattutino, in un bar della suggestiva piazza della Repubblica a Roma − non senza qualche sguardo alla splendida Fontana delle Naiadi al centro dell’esedra, che immota osserva i resti delle Terme di Diocleziano −, la bella e talentuosa Marina Rebeka, soprano di fama internazionale (in questi giorni impegnata nella produzione romana del Maometto II di Gioachino Rossini), ci concede un’intervista, dove oltre ai ricordi della sua infanzia, dei suoi anni di studio, di passate produzioni, e ai suoi sogni, si lascia andare a profonde riflessioni sulla musica, con quell’umiltà mista di esperienza e competenza che la caratterizzano.
Qual è il ruolo, da lei interpretato, che più preferisce?
È una domanda difficile. Ci sono diversi ruoli che sento più miei, diciamo, per una questione di feeling, di carattere: direi quindi Violetta, Juliette e anche Anna. Per me è sempre molto importante la connessione fra il testo e la musica; quando sento che in un’opera testo e musica arrivano a essere realmente una cosa sola, per me è il massimo. Per esempio, nel repertorio belcantistico la ripetizione frequente di tutta una serie di frasi non mi arriva al cuore come il peso emotivo che c’è, per esempio, in un ruolo come quello di Juliette. Mi ricordo di quando feci Juliette all’Arena di Verona; ero assai emozionata, non solo per il luogo in cui cantavo, ma anche per l’evoluzione psicologico-musicale del personaggio: parte dall’essere quasi una bambina (musicalmente, arriva fino al re) e solo successivamente cresce e si evolve (si pensi all’aria del veleno), fino a toccare vette di pura tragicità.
Ha mai pensato, dunque, di cantare la versione musicata dal Bellini del capolavoro shakespeariano? Sì, me ne hanno parlato. Conosco l’opera e soprattutto le due arie di Giulietta. È un ruolo che prenderò in seria considerazione nella mia carriera futura.
Finora, nella sua carriera, c’è stato un direttore d’orchestra e/o un regista con cui lei si è trovata particolarmente a suo agio?
Sì, certamente. Beh sicuramente mi viene in mente, innanzitutto, il maestro Muti; non che gli altri non siano ovviamente bravissimi (ne potrei nominare tantissimi!), ma guardando anche a un livello di guadagno intellettuale, musicale ed emotivo, direi per primo Muti. Ero molto tesa quando debuttai con lui a Salisburgo: ma da lui ho imparato tantissimo, per il modo in cui lavora sull’interpretazione del testo unita alla musica – mi ricordo ancora di quando mi chiese di riuscire a cantare tre puntini con cui si concludeva una frase del libretto. È fondamentale un lavoro più stretto possibile tra direttore e cantante; è un po’ come il gioco di squadra del calcio: noi ci passiamo la palla (l’emozione) e poi la passiamo al pubblico, che poi ce la rimanda. Lavorare con Muti è stato come fare una masterclass.
E un regista?
Mi è piaciuto molto Graham Vick. Anche Pierre Audi, con cui ho fatto Guillaume Tell. Possono essere presi come modelli molto diversi di lavoro registico. Audi arrivava alle prove che già aveva visualizzato tutti i movimenti che avresti dovuto fare, e ti chiedeva di caricarli di una certa emozione. Con Graham era diverso: andavamo dal sentimento al movimento. Osservava tutto e tentava sempre di trovare quello che lui riteneva fosse più giusto, più consono, dandoci motivazioni in più per agire sul palcoscenico. Mi piacerebbe lavorare con i maggiori registi del mondo per imparare ancora di più sull’arte scenica. Ovviamente mi sarebbe piaciuto lavorare con geni del passato come Zeffirelli e Visconti: per me sarebbe il massimo nutrirmi, per quanto posso, della loro grande esperienza…e chissà se sarà possibile.
Le viene in mente una sua serata d’opera magica, in cui è uscita dal palcoscenico galvanizzata?
Ce ne sono state alcune, direi particolari a livello di empatia col pubblico. Mi ricordo due produzioni de La Traviata: una a Berlino e un’altra a Chicago. Sa da come me ne accorgo? Dal silenzio quasi sacro che c’è in sala: si dimenticano addirittura di tossire gli spettatori, quando sono molto concentrati. Un silenzio elettrico: è inspiegabile, però si sente. Mi ricordo una Tatiana, in un Onegin a Cagliari nel 2008, che fu per me straordinaria. Il direttore d’orchestra era Mikhail Jurowsky; lui lavorò molto su quell’opera sia dal punto di vista musicale che da quello drammaturgico e quando preparò precedentemente Eugenij Onegin, conobbe la prima Tatiana, che aveva lavorato proprio col celebre Stanislavskij. Quindi mi ha passato tutta la sua conoscenza, che tengo nel cuore. In alcune lezioni abbiamo addirittura solo parlato, studiando esclusivamente la parte e i temi, le strutture della partitura. Anche la moglie di Jurowsky mi ha dato prodighi consigli su come preparare la parte. Eppure per me fu difficilissimo arrivare a un risultato che ritenessi ottimale. Per esempio, tenere la scena dell’aria della lettera, con i suoi silenzi ecc., non è facile; così come fare in modo di evolvere appieno il personaggio, dalla Tatiana giovane, a quella più matura.
Si ricorda di un maestro di canto che, durante i suoi anni di studio, l’ha particolarmente aiutata? Devo dire che non ne potrei nominare uno: sono stati tutti molto importanti per me. Però devo dire che il sistema del conservatorio italiano non permette di iniziare a lavorare subito. È molto difficile inserirsi nel sistema: bisogna fare concorsi per entrare in conservatorio, poi concorsi per avere qualche attenzione da un agente e poter iniziare a fare ancora altri concorsi, audizioni, assai difficili, per poter finalmente avere la possibilità di lavorare. La cosa che veramente manca è un collegamento diretto fra il conservatorio, quindi lo studio, e il mondo del lavoro. Quando feci l’esame al conservatorio c’erano solo maestri interni, e nessun agente…quindi non c’era possibilità che io potessi essere presa, magari subito, per qualche produzione o progetto. Avevo mandato le mie registrazioni e i miei curricula a tante agenzie, ma non essendo conosciuta né avendo esperienza non mi ha mai risposto nessuno. Per potermi permettere, all’inizio, di avere un agente feci tanti concorsi e tante audizioni, spendendo molti soldi – che scarseggiavano! – in viaggi. A Riga avevo lavorato come interprete; venuta in Italia, lavorai come segretaria e insegnante di canto.
Impressionante…quante lingue conosce?
Ne conosco sei: russo, lettone, inglese, tedesco, italiano e francese. Parlavo anche svedese, ma l’ho dimenticato. Conoscere molte lingue mi ha aiutato, a livello di dizione e non solo, per il canto, anche se, ovviamente, si canta con un’enfasi diversa rispetto al modo di parlare. Il mio piano b, se non fossi riuscita a inserirmi nel business della lirica, l’avevo sempre nel cassetto. Nei momenti di massimo stress nella mia carriera, non solo vocalmente, ma anche fisicamente, per i continui spostamenti, viaggi, l’allontanamento dalla famiglia e l’impossibilità di avere i miei più cari vicini, ho pensato addirittura di abbandonare il canto e tornare a fare l’interprete, oppure lavorare in un’agenzia di viaggi ─ saprei dare ottimi consigli in quel campo, visto che di spostamenti, alloggi e prenotazione dei voli, me ne occupo soprattutto io stessa.
Un ricordo personale che ho di lei: io l’ho vista e sommamente apprezzata nell’edizione della Petit Messe Solennelle diretta da Pappano per l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Che ricordi ha di quelle serate e del lavoro col maestro Pappano?
Mi ricordo benissimo, come fosse ieri. Adoro la musica sacra: è un cibo per l’anima. Nell’opera è sempre un dare emozioni, in un certo senso; nella musica sacra le si riceve “dall’alto” e le si dona al pubblico. Per me è un ricordo straordinario: fu la mia prima Petit e il mio debutto all’Accademia e con il maestro Pappano: lavorare con un musicista del suo calibro è sempre un onore prima che un piacere. Fu un’edizione che utilizzò una rinnovata veste critica della partitura. Andai persino a consultare il manoscritto: quando posso, infatti, cerco sempre di dare un’occhiata all’originale, per vedere come l’autore pensava ciò che componeva e, quindi, trarne risposte per la mia interpretazione, anche emotiva.
Quindi lei è in gradi di leggere un autografo sette-ottocentesco? Straordinario!
Grazie! Cerco sempre di farlo. Volere è potere. Pensi che se lei va su Amazon, nella sezione delle recensioni del CD della Petit, ho ricevuto diverse critiche perché non cantai quello che si era sempre cantato fino a quel momento e che tutti si aspettavano avrei fatto. Ma è proprio questo il bello: io ho cantato quello che Rossini ha scritto!
In questo noto, con piacere, una sua concezione della filologia in linea con le idee di un Muti e di un Gossett (per citare due nomi!).
Sì. Ho controllato diversi manoscritti (quando potevo averne accesso), anche per verificare, molto spesso, l’esattezza drammaturgico-musicale del testo. Penso che l’espressività della resa musicale risieda anche nella giustezza e correttezza del testo.
Tornando all’oggi: ci vuole parlare sulla versione del Maometto II all’Opera di Roma? Riguardo il ruolo di Anna?
Non ho ancora saputo nulla! Io ho il mio spartito, lo stesso che feci a Pesaro. La parte di Anna è lunghissima: è sempre sul palcoscenico e canta in continuazione. Rossini, ironicamente, prima di ucciderla in scena, la uccide anche vocalmente: si pensi l’aria finale, che dura addirittura dodici minuti. Per me questo ruolo è stato veramente una grande sfida: mi arrivò la proposta di farlo quando avevo ventotto anni, solamente con un anno di esperienza di lavoro sul palcoscenico… razionalmente, a pensarci oggi, fu quasi una follia: ma è proprio lì, con Anna, che è cominciata la mia carriera.
Passiamo a un altro ruolo rossiniano a cui lei è legata nell’immaginario del pubblico: la Mathilde del Guillaume Tell. Com’è incominciata l’avventura con questo ruolo?
Io debuttai Mathilde a Amsterdam; anche se la provai a lungo, per un certo numero di recite non mi parve di dare il meglio di me. È molto importante trovare un feeling tra emozioni e musica. Non sempre si raggiunge la consapevolezza di aver fatto benissimo: ricordo che, per quanto riguarda le recite del ROF, mi sembrò di aver fatto meglio, specialmente nell’ultima aria, verso le ultime recite. Come sempre con Rossini, l’interpretazione di un dato personaggio è una cosa molto creativa: come dice spesso il maestro Alberto Zedda, con Rossini un cantante è anche co-compositore, perché tu scrivi delle variazioni adatte alla tua voce e in base a come percepisci la personalità del personaggio a te affidato.
Un ruolo, non ancora da lei affrontato, che vorrebbe debuttare?
Mi piacerebbero molto tre ruoli: Manon di Massenet, Alcina di Händel e Marguerite del Faust di Gounod. Per quanto riguarda il repertorio italiano, affronterei con molta prudenza Puccini, per ora in ruoli come Musetta (che farò al Met) e Mimì. Per altri ruoli devo valutar l’impatto che avrebbero sulla mia voce: che evoluzione potrà avere l’interpretazione di un dato personaggio sulla mia voce? Come si evolveranno il centro e i gravi, per poter al meglio interpretarlo? Un mio sogno sarebbe affrontare, fra quarant’anni, Anna Bolena e Norma, con la passione e la verve che aveva la divina Callas: lei ebbe una tecnica personalissima, sicuramente opinabile su un lato meramente estetico, ma travolgente per quanto riguardava l’ambito delle emozioni. Non pretendo, ovviamente, neanche di toccare i livelli della Callas: lei rimarrà sempre inimitabile e nessuno potrà fare quello che ha fatto o andarci vicino. Mi piacerebbe quindi entrare in quei personaggi: sarebbe una bella sfida interpretarli bene sul lato vocale e emozionale. Inoltre, ho mia figlia e la mia famiglia: vorrei vivermi appieno la mia vita privata, avanzando nella mia carriera in maniera logica, ponderata, a piccoli passi, senza forzare troppo un’evoluzione che vorrei la più naturale possibile.
Il ruolo con cui vorrebbe, in un futuro lontanissimo, terminare la sua carriera?
Non saprei dirlo con precisione; soprattutto dovrò vedere in che direzione si evolve la mia voce. Ora, per un armonico sviluppo del mio mezzo, vorrei cantare molto repertorio francese e barocco, che sono un toccasana per lo smalto vocale. Il barocco mi ha insegnato anche l’attenzione a cercare il colore e il suono più particolare nell’interpretazione di una parte e dei suoi colori: mi incuriosisce, per esempio, il personaggio di Alcina. Questa personale analisi delle mie capacità, mi ha indotto anche a provare a affrontare ruoli alquanto diversi tra loro, come Elettra e Ilia nell’Idomeneo. Mi avevano, ad esempio, proposto la Regina della Notte al Covent Garden, ma ero incinta e ho dovuto rifiutare. Ora non me la sentirei di affrontare un ruolo come quello, considerando che mi sto evolvendo, specializzando nei ruoli lirici. Mi piace (come le ho precedentemente detto) molto Puccini, ma ci andrei molto cauta: per esempio in un ruolo come Suor Angelica o Cio-Cio-San, di cui (interpretando in un concerto un duetto) ho riscoperto molti colori, proprio leggendo più attentamente lo spartito. Ruoli come Manon Lescaut e Tosca, dall’enorme fascino, richiederebbero una voce diversa da quella che ho oggi. Chissà se, in futuro, la mia voce avrà avuto uno sviluppo tale per cui potrò affrontare quei ruoli…
Lei ritiene che a un certo punto il genere dell’opera potrà mai morire, terminare la sua tradizione attiva?
Beh una rottura all’interno della tradizione strettamente legata al canto c’è stata. Si pensi a alcuni cantanti del dopoguerra che non avevano quasi connessione con il passato, almeno ai loro esordi: c’era un dono naturale in loro, unito all’ascolto dei vinili. Peraltro, oggi trovare insegnanti di canto molto bravi è realmente difficile: io se mai vorrò fare l’insegnante (magari con una lunga carriera alle spalle e un vasto repertorio affrontato sul palco) e avrò allievi in futuro, ne prenderò sicuramente pochi. Ritengo quasi che il canto non possa essere insegnato, ma che l’allievo lo impari (per così dire) da solo, attraverso la guida dell’insegnante. Come dico sempre, l’insegnante ti indica la strada, ma il cammino devi intraprenderlo da solo. Non penso che l’opera morirà: magari in futuro si renderanno conto che la musica, come quella di Mozart, aiuta molto e potrà servire realmente a scopi terapeutici. La molecola dell’acqua prende la forma della musica quando ne è sollecitata mediante le onde sonore: noi siamo fatti per il 90 % d’acqua e quindi, in qualche modo, la musica ci influenza: mi vengono in mente le teorie musicali per esempio di Platone. Capiranno veramente che la musica, e l’opera anche, può veramente aiutare le persone, e essere un fortissimo strumento psico-emozionale.
Un’ultima domanda: quali generi di musica le piacciono, oltre l’opera e la classica?
Ascolto molti generi: rock, metal, jazz, la musica russa. Mi sono accostata all’opera dopo che mio nonno mi portò a vedere una recita di Norma: dopo il primo atto, avevo realizzato di voler fare quello nella vita. Fu amore alla prima nota. Ho cominciato così a cantare in un coro e a studiare in una scuola di musica mezza privata… poi la mia voce si è sviluppata… Così sono incominciate le delusioni, le sfide, le vittorie, le nuove sfide, difficoltà e così via. La vita va avanti e credo non ci sia limite al continuo, personale perfezionarsi.
Grazie per la sua gentilezza e disponibilità
Grazie a lei! Un caloroso saluto ai lettori di Gbopera!
Marina Rebeka website