Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2013-2014
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Pietari Inkinen
Tenore Ian Bostridge
Pëtr Il’ič Čajkovskij : Serenata in do maggiore op. 48 per orchestra d’archi
Franz Schubert : Tre Lieder per voce e orchestra (orchestrazione di Detlev Glanert). Viola D 786 (testo di Franz Schobert) – Waldesnacht D 708 (testo di Friedrich Schlegel) – Das Lied im Grünen D 917 (teso di Johann Anton Friedrich Reil)
Jean Sibelius : Sinfonia n. 2 in re maggiore op. 43
Torino, 7 marzo 2014
L’esercizio che Detlev Glanert ha compiuto nel 2012 orchestrando tre Lieder di Schubert originariamente accompagnati al pianoforte rientra di sicuro tra quegli imponderabili non strettamente necessari nella storia dell’arte e della cultura (la parte strumentale aveva davvero bisogno di una “cura ricostituente” del genere?). Ma se l’effetto è quello di condurre un artista come Ian Bostridge a Torino con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, allora ben vengano rielaborazioni come questa! L’orchestrazione di Glanert è del resto molto tradizionale, nel concentrarsi per esempio su flauti e corni, rispettivamente ad attacco e in clausola di frase, ossia nel ricorrere ad accorgimenti in sintonia con la temperie romantica.
Ascoltare la voce autenticamente liederistica di Bostridge è sempre un’esperienza di arricchimento interpretativo: è fluente, affascinante perché non troppo chiara, ben sostenuta e vibrante di armonici. Si percepisce un lieve scollamento di registro tra le note basse e quelle alte, perché il tenore deve sostenere sonorità molto diverse rispetto a quelle del solo pianoforte. In Viola emerge tutta la vena narrativa e drammatica del Lied (dalla voce, ancor più che dall’orchestra). Nell’evocare le campanelle del bucaneve, davvero la voce di Bostridge tintinna, mentre l’accorto direttore mantiene lievi le sonorità orchestrali. Waldesnacht (Notte nel bosco) presenta invece una strumentazione più robusta, ondeggiante come una modulazione, wagneriana e minimalista al tempo stesso (il canto del tenore vi si proietta sopra, non senza qualche piccola incongruenza: a volte qualche nota risuona un po’ fissa, ma eleganza ed espressività la fanno subito dimenticare). Nell’ultimo dei tre Lieder (Das Lied im Grünen, La canzone nel verde) le strutture iterate dall’orchestra a ritmo sostenuto rischiano di sovrastare la voce, o anche di distrarre dal canto; ma Bostridge conclude la terna vocale suscitando grande approvazione da parte del pubblico.
La gemma vocale schubertiana è incastonata tra due fasce di programma totalmente strumentali, che permettono di apprezzare bene le capacità del giovane direttore Pietari Inkinen. Nell’iniziale Serenata di Čajkovskij è ottima la ricerca sulle nervature dei violoncelli; sgranando tutte le singole note e scandendo ogni frase con vigore, il direttore porge una versione sopra le righe, artefatta, finta, d’una falsa e rassicurante bellezza. Ed è giusto così: l’intensità anche eccessiva denota l’impossibilità di recuperare il passato (ossia lo stile mozartiano) in un’epoca di torbida sofferenza; un Mozart perduto per sempre, e perciò imbalsamato nello struggimento o nel falso luccichio, un Mozart che pare soffrire della stessa malattia del compositore russo, e che cerca di mascherarla con un continuo canto e controcanto melodici. Se il reale intento di Čajkovskij era di vagheggiare la perdita totale del candore e della serenità, l’esecuzione è plausibile proprio per gli eccessi di vigore e il risalto del posticcio. L’unico inconveniente di un’impostazione del genere è l’inevitabile povertà nell’agogica: quando tutto deve essere vigoroso, intenso, brillante, rimarcato, tutto – dopo un po’ – finisce per annoiare.
Nella seconda parte del concerto Inkinen si cimenta con la Sinfonia n. 2 di Sibelius, offrendone una lettura molto interessante: sin dal I movimento (Allegretto – Poco allegro) dominano le tinte dei corni e del basso tuba, mentre le frasi affidate agli archi restano più in ombra, come frammentate. Il Sibelius di Inkinen non si abbandona mai, infatti, alla luminosità italiana di quando la sinfonia fu composta (a Rapallo, tra 1901 e 1902); piuttosto, vagheggia le brume e i ghiacci del nord con nostalgia triste. E la ricerca delle sonorità passa attraverso Wagner: Inkinen è il direttore che ha concertato tra 2012 e 2013 L’Anello del Nibelungo al Teatro Massimo di Palermo, e conferma una fede wagneriana più che giustificata nell’approccio al repertorio tardo-romantico. Nell’articolato II movimento (Tempo andante, ma rubato – Allegro – Andante sostenuto) è molto bello l’abbrivio drammatico che il direttore imprime alle frasi discendenti degli archi, e che poi si ripete fino alle fine del tempo (un sinistro tremulo, a completamento della fanfara delle trombe). Molto ben riuscita, del pari, la polifonia del motivo discendente che costituisce l’ossatura del Vivacissimo – Lento e soave – Tempo I a seguire; ma tutto resta sempre punteggiato dalle cupe striature degli ottoni, che dall’alto infondono il colore definitivo alla sinfonia. Imponenti gli squilli dei tromboni nell’avvio del Finale. Allegro moderato (poi sviluppantesi in Moderato assai – Tempo I – Molto largamente), quando i vari blocchi e frammenti di materiale musicale si ricompongono gradatamente; ma, anche nell’armonizzare e nel collegare, il direttore conserva una percezione netta delle pause, esasperandone il carattere brusco e inatteso. E soprattutto, nel finale il tempo è staccato con giusto brio, a evitare quella pesantezza che in Sibelius costituisce un rischio spesso in agguato. Pregevole, nella coda, il bilanciamento tra tema enunciato dagli archi e tema dei fiati, fino agli ultimi accordi, assertivi, distesi, luminosissimi. A questo punto sì, davvero Sibelius fa sentire la luce e il calore della Liguria; gli applausi molto intensi del pubblico non lasciano dubbi: a cantare sono finalmente «le trombe d’oro della solarità». Foto Michele Rutigliano