Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014
Pianoforte András Schiff
Johann Sebastian Bach: Variazioni Goldberg BWV 988
Roma, 28 febbraio 2014
Il ‘Progetto Bach’, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, volge al termine; a concluderlo la terza delle esecuzioni integrali bachiane, al pianoforte, di quest’anno: le Variazioni Goldberg. Al piano, András Schiff, che ne ha già lasciato ─ addirittura ─ tre diverse incisioni (Decca, 1982; Teldec, 1990; ECM, 2003). Le Goldberg sono una sorta di mistica, neoplatonica summa dell’arte per tastiera dell’epoca; le variazioni, in numero di trenta, sono affiancate da canoni, in serie, fino alla nona, con un’evidente attenzione per la ripetizione del numero tre, e sono state composte ─ queste sì, veramente ─ per essere eseguite una dopo l’altra, a differenza dei libri del Clavicembalo ben temperato. Proprio per questo, poco regge l’aneddoto secondo cui Bach le donò a von Keyserling, malato d’insonnia (e di bellezza), che voleva allietare la sua psiche facendo suonare il clavicembalo al suo giovane musico, Johann Gottlieb Goldberg, con qualcosa di talmente bello da riuscire a alleviare il suo tormento. Più probabilmente, Bach scrisse tale summa, dall’equilibratissima armonia, proprio per sé.
Ho già indugiato a descrivere la perizia pianistica di Schiff, forse oggi il miglior interprete mondiale di Bach (?). Un’ennesima maratona non lo spaventa di certo, lui che è avvezzo a portare sul palcoscenico cicli integrali: si ferma, infatti, durante l’esecuzione, non più di una manciata di minuti per concedere a qualche indisciplinato starnuto di trovar sfogo. Per il resto, silenzio. E musica: magistrale la gestione delle dinamiche sonore, della resa timbrica dell’opera. Non manca peraltro qualche sua personale innovazione alla tradizione interpretativa: lo si percepisce subito dall’attacco dell’Aria, meno meditativa di tante altre interpretazioni, con trilli, acciaccature, appoggiature ben marcate, agogica sostenuta, scevra da ogni sovrainterpretazione romantica o positivista (alla Busoni, per intenderci). Ogni variazione mette il pianista di fronte a difficoltà tra loro (quasi) insormontabili; eppure, con quale aplomb Schiff le risolve: i gruppetti e le fioriture della n. 7; il virtuosismo spedito nella linea cromatica acquatica della n. 11; il virtuosismo assoluto, trascendentale della n. 14; i virtuosismi spericolati delle n. 8 e 20; il carattere sorridente della n. 23, non meno impervia delle precedenti; lo stallo lunare della n. 25, da cui poi prende avvio la sezione finale, con la surreale n. 28, il massiccio scorrere della n. 30 e la ripresa dell’Aria, dopo la bucolica n. 30, Quodlibet. Dopo la ripetizione dell’Aria, ecco compiutosi un ciclo (uroboro). L’interpretazione bachiana di Schiff è sempre priva d’effetti romantici (nessun uso dei pedali): le mani si muovono sulla tastiera come su un telaio, rendendo il suono terso, sgranato, con note giustapposte sempre distinguibili, perlacee.
Tra le grandi incisioni del passato, quella cui Schiff guarda scopertamente di più è certamente la versione magistrale di Glenn Gould, di cui però deterge alcuni estri. Applausi a non finire in sala lo costringono, quasi, a uscire timidamente più di una volta. Penso non si possano usare parole migliori di quelle di Carlo Fiore (dal programma di sala) per descrivere la portata rivoluzionaria del pianismo di Schiff: «il pensiero musicale di Schiff, leggibile nel 2003 come ulteriore messa a fuoco di quanto intuito vent’anni (e poi dieci) prima, segna con forza il definitivo passaggio da un’epoca di scuole pianistiche “ideologiche” a un’epoca di scuole pianistiche scientifiche, dove ogni scelta espressiva ha un esito funzionale in due direzioni, quella della lettura analitica del testo musicale e quella semantica dell’idioma strumentale come ricchezza in quanto tale e non come ostacolo».