Al Malibran “Il campiello” di Wolf-Ferrari, nostalgico, ma non troppo

Venezia, Teatro Malibran, Stagione lirica 2013-14
“IL CAMPIELLO”
Commedia lirica in tre atti. Libretto di Mario Ghisalberti, dalla commedia omonima di Carlo Goldoni
Musica di Ermanno Wolf-Ferrari
Gasparina ROBERTA CANZIAN
Dona Cate Panciana MAX RENÉ COSOTTI
Lucieta DIANA MIAN
Dona Pasqua Polegana NICOLA PAMIO
Gnese PATRIZIA CIGNA
Orsola CRISTINA SOGMAISTER
Zorzeto GIACOMO PATTI
Anzoleto ITALO PROFERISCE
Il cavaliere Astolfi MAURIZIO LEONI
Fabrizio dei Ritorti GABRIELE BOLLETTA
Orchestra Regionale Filarmonia Veneta ORV
Coro Lirico Veneto
Direttore Stefano Romani
Regia Paolo Trevisi
Scene Giuseppe Ranchetti
Danzatori Compagnia Fabula Saltica
Allestimento del Teatro Sociale di Rovigo-progetto “I Teatri del Veneto alla Fenice”
Venezia, 28 febbraio 2014     
Ermanno Wolf-Ferrari sbarca ancora nella prediletta Venezia con una delle sue opere più amate dal pubblico lagunare, Il campiello, dall’omonima commedia di Carlo Goldoni: un piccolo squarcio di vita, colto in un luogo tra i più tipici della città, abitato da gente umile, di cui si intendono esprimere il linguaggio e gli affetti. Un atto d’amore prodotto dal genio dell’Avvocato-drammaturgo, che trovava la sua ispirazione proprio tra calli e campielli, riproposto dal Musicista italo-tedesco, che a Venezia ebbe i natali e a Venezia venne a morire, dopo esserne stato lontano per anni, sentendo forse il bisogno di tornare “a casa”. Ma chi è questo Ermanno Wolf-Ferrari, guardato con sufficienza da una certa parte della nostrana intellighenzia, eppure apprezzato ed eseguito all’estero, soprattutto in Germania, dove si rappresentano le sue commedie liriche al pari delle sue composizioni strumentali? È un nostalgico incallito che ripete ossessivamente temi e stilemi del passato o un musicista “ragguardevole” (la definizione è di Mila), la cui facilità comunicativa affonda le radici nella più nobile cultura musicale europea? È stato un bieco fiancheggiatore del fascismo e del nazismo o un’anima candida, che si imbatté in personaggi assai poco raccomandabili senza saperne cogliere l’incalcolabile pericolosità? Non vogliamo affrontare, in queste pagine, argomenti di questo tenore, ci limitiamo a notare che, in ogni caso, certi giudizi talora alquanto inveleniti – a parte la difficoltà di dimostrare la loro effettiva fondatezza – si scontrano con un dato di fatto, e cioè – come insegna la critica strutturalista – che il “destinatore empirico” di un’opera artistica, l’autore storicamente esistito, va tenuto ben distinto dal “destinatore implicito”, che rappresenta una funzione interna all’opera stessa, questa sì, da valutare insieme agli altri parametri estetici. E dei lavori di Wolf-Ferrari, tutto si può dire tranne che siano espressione di retorica di regime nella forma o nei contenuti; semmai possono essere considerati pregevoli manufatti di un garbato artigiano, che conosce tanto bene il mestiere, padroneggiando le tecniche tradizionali senza disdegnare certi accorgimenti più recenti, da produrre opere di facile fruizione da parte del pubblico meno preparato e nello stesso tempo degne di essere apprezzate da chi sia in grado di leggerle più in profondità.
Questo vale ovviamente anche per Il campiello, scritto negli anni Trenta, ultima opera per la scena del compositore, in sui spiccano, in modi sempre raffinatissimi, le sue doti di cantabilità popolareggiante, insieme ad una grazia tutta mozartiana; ma vi si coglie anche lo Schubert delle danze popolari o il cesello contrappuntistico dei Meistersinger, come l’influsso di certe libertà armonico-formali novecentesche del Falstaff e dello Schicchi. Si tratta di un lavoro indubbiamente riuscito, che riassume, il meglio del magistero compositivo dell’autore, che sa cimentarsi mirabilmente nella pittura d’ambiente come esprimere musicalmente i sogni, i sentimenti, gli screzi, la sgangherata allegria, la comicità macchiettistica, potremmo dire con Saba i “dolci affanni”, che segnano la vita di questa piccola comunità.  Ne risulta un’opera di mezzo carattere, nella quale l’orchestrazione ha un ruolo determinate: tenue ed evocativa a descrivere le atmosfere ambientali o gli squarci lirici; volutamente ridondante nel commentare i piccoli grandi drammi che si abbattono sul campiello.
L’opera di cui ci occupiamo viene proposta nell’ambito del progetto “I Teatri del Veneto alla Fenice”, teso a portare in laguna il meglio delle produzioni nate all’interno del territorio regionale. L’allestimento è lo stesso realizzato qualche anno fa dal Teatro Sociale di Rovigo e firmato da Paolo Trevisi; sul podio sempre Stefano Romani alla guida dell’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta. Se, come abbiamo cercato di argomentare, Wolf-Ferrari si sente radicato al passato, ma con più di qualche concessione al nuovo, la regia, le scene i costumi, sono decisamente tradizionali, seppur di buon gusto. Le scelte gestuali ben si attagliano al carattere dell’opera, senza mai scadere in una comicità esteriore, né mettere in difficoltà i cantanti, il che è frutto della consumata esperienza di Paolo Trevisi, che prima di dedicarsi alla regia fu attore goldoniano, avendo tra l’altro la fortuna di collaborare con Cesco Baseggio. Ottime in generale le prestazioni del Cast. Roberta Canzian è un’adorabile Gasparina, sfoggiando fin dalla sua prima apparizione una voce gradatamente leggera dal timbro omogeneo nella parte della “giovane caricata”, vanitosa e civetta, smaniosa di vita e di matrimonio, ma pronta a commuoversi sinceramente nel saluto al suo campiello. Convincenti negli ariosi come nel declamato Diana Mian e Patrizia Cigna nei panni di Lucieta e Gnese, le “pute” oneste, giustamente patetiche e innamorate. Irresistibili le “vecie”, che come è noto sono affidate a due voci tenorili con prevedibili esiti di comicità, Dona Cate Panciana (Max René Cosotti) e Dona Pasqua Polegana (Nicola Pamio), che hanno divertito il pubblico soprattutto nell’esprimere le loro velleità matrimoniali, strappando qualche risata senza cadute di stile. Alle due attempate visionarie si è contrapposta validamente la saggia Orsola di Cristina Sogmaister. Ingenui e appassionati si sono dimostrati Zorzeto e Anzoleto, nell’interpretazione rispettivamente di Giacomo Patti e Italo Proferisce; nobile e sornione, invece, lo squattrinato Cavaliere Astolfi di Maurizio Leoni grazie ad una voce timbrata e un fraseggio forbito. Pedantesco e moraleggiante il Fabrizio dei Ritorti offerto da Gabriele Bolletta, voce potente e profonda, nella tipica  parte del tutore. Generalmente equilibrata la direzione di Stefano Romani, che ha forse ecceduto, nelle pagine orchestrali, per  qualche impacciato ritardando. Buona la prova fornita dall’orchestra, pur con qualche peccato veniale. Applausi convinti alla fine per tutti, compreso il regista.Foto Leonardo Battaglini (Teatro Sociale di Rovigo)