Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2013-2014
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Pascal Rophé
Arpa Margherita Bassani
Claude Debussy : “Deux danses” per arpa e orchestra d’archi
Francis Poulenc : Sinfonietta
George Gershwin : “An American in Paris”, poema sinfonico (revisione F. Campbell-Watson)
Maurice Ravel : “Boléro”. Tempo di bolero moderato assai
Torino, 6 febbraio 2014
Se i concerti delle due settimane passate erano saldati tra loro dalla presenza di Bartók, di cui l’OSN RAI ha presentato prima i Quattro pezzi per orchestra e poi il Concerto [n. 1] per violino, penultimo e ultimo appuntamento della stagione sono invece collegati dalla musica di Ravel, e da due brani emblematici dello stile e del fascino del compositore francese: prima Tzigane, e adesso quel Boléro che, da semplice indicazione ritmica, è diventato per antonomasia il Bolero, forse l’unico possibile nell’immaginario e nel repertorio della musica mondiali. La struttura dell’intero programma si presenta compatta e coerente quant’altre mai: quattro brani di quattro differenti compositori, tre francesi e uno americano (ma quest’ultimo rende omaggio al contesto parigino, e quindi vuole avvicinarsi ai primi tre), tutti e quattro scritti entro la prima metà del Novecento, in un percorso per lo più proteso verso la danza, la movenza del balletto, eppure senza il completamento (anzi, nel caso di Poulenc con l’espresso rifiuto) della coreografia.
Nelle iniziali Deux danses di Debussy Margherita Bassani, prima arpa dell’OSN RAI, sceglie di non sottoporre a variazioni il volume sonoro del suo strumento, mantenendolo a un livello di aerea leggerezza. L’accompagnamento orchestrale, limitato ai soli archi, esalta l’arte di alleggerire il suono, dalla prima Danse sacrée (Très modéré) almeno fino al centro della seconda Danse profane (Modéré), quando l’afflato emotivo si sprigiona altissimo sia dallo strumento solista sia dal gruppo di archi, fusi in mirabile unità. Neppure dieci minuti è il tempo occupato dalle Danses, ma esso è più che sufficiente a tracciare l’allure dell’intero concerto; e con il bis che la Bassani porge al pubblico (ancora Debussy: la trascrizione del Preludio per pianoforte La fille aux cheveux de lin) il sole della Grecia di fine Ottocento e l’esotismo di un’età nostalgica fanno luminoso capolino nell’austero spazio dell’Auditorium. Non solo colore, ma ricerca modale; non decorativismo, ma linguaggio nuovo trapelano con vigore da queste pagine, che il pubblico apprezza moltissimo.
Alla ricerca espressiva, timida ma determinata, di un linguaggio inedito, si sostituisce il brio sbarazzino di un lessico altrettanto nuovo ma già sicuro, deciso, sbruffoncello: quello di Sinfonietta di Francis Poulenc. La joie de vivre dei quattro movimenti di danza non prescinde da quella tipica tecnica poulenchiana di innestare l’onda calda e sensuale degli archi sulle sonorità nette e taglienti dei fiati: arricchimento strumentale realizzato in quasi tutte le arcate del discorso musicale, sin dall’Allegro con fuoco dell’avvio. Il direttore Pascal Rophé sottolinea i tratti ironici, come i glissando o i grassocci tremuli degli ottoni; non insiste troppo, invece, sugli aspetti dissonanti o sulla politonalità della scrittura. Il Molto vivace è il quadro delle danze popolari, in cui il ritmo non ha comunque il sopravvento sul languore meditativo, che smorza le frivolezze del I movimento per proseguire nel III (Andante cantabile), elegante come un minuetto di Haydn (di cui si richiamano infatti le movenze, ma con qualche sorniona dissonanza, come ad avvertire che il Novecento incalza sempre, anche se la Seconda Guerra Mondiale è ormai alle spalle). Rophé rende benissimo l’ossimorica “meditazione ammiccante” che domina in Poulenc; e non persegue un’espressività sfrontata, neppure quando a permetterlo sarebbe l’autore stesso; anche il finale Prestissimo e très gai è infatti mantenuto all’interno di un contesto garbato e saltellante, verso una studiata goffaggine, mai sguaiata. Inconfondibili sonorità frammiste di fiati e di ottoni concludono la fanfara con grandeur sinfonica; restano nelle orecchie i trilli della tromba solista, nella retorica autoironia degli ultimi accordi.
Anche se inframmezzato dall’intervallo, il passaggio da Poulenc a Gershwin appare quasi naturale; forse perché il direttore trasforma in eleganza parigina anche le spigolosità dello stile musical di An American in Paris. Ma non per questo alle percussioni manca il giusto rilievo; anzi, oltre ai sonorissimi clacson dell’esordio e del finale, esse spiccano in tutto il loro comparto, al pari della tromba piccola di Marco Braito e degli accurati interventi del primo violino Alessandro Milani. Verso il finale del sedicente poema sinfonico Rophé sottolinea il taglio beethoveniano delle sequenze e dell’accompagnamento ritmico: emerge bene la parodia della musica europea, realizzata a bella posta da un americano che vuole assumere la grazia parigina, come il prolungato sberleffo del basso-tuba lascia intendere prima della stretta, di nuovo strombazzante di clacson e di ottoni in fortissimo. Neppure nella reboante clausola, però, c’è la sfacciataggine del jazz o del musical di facile consumo, perché il direttore mantiene un limite di sobrietà oltre il quale non vuole spingersi. Ci si accorge ora, soprattutto a paragone con Sinfonietta di Poulenc, che la delicatezza iniziale dell’arpista corrisponde a quella con cui il direttore si accosta alle varie pagine, anche di Gershwin.
Il brano sicuramente più atteso dell’intero programma è l’ultimo, il Boléro di Maurice Ravel. Ma prima delle annotazioni sulla qualità esecutiva occorre rallegrarsi della copiosa presenza di studenti e di adolescenti al concerto, perché l’ascolto dal vivo del Boléro è soprattutto un’esperienza esistenziale importante, e in particolare per il pubblico giovane, che forse partecipa per la prima volta a una serata musicalmente lontana da quelle cui è (o non è) abituato. Quando poi a condurre il Boléro è un direttore attento e razionale come Rophé (allievo e collaboratore – non si dimentichi – di Pierre Boulez) il risultato è davvero rimarchevole. Egli non bada tanto all’eleganza complessiva del suono né insiste sulla voluttuosa melodia: elementi che rischiano l’effetto stucchevole; a Rophé interessa piuttosto rispettare il vero mistero del brano, quel carattere che lo rende unico e paradossale, ossia la conciliazione del ritmo di base con la melodia di tema e contro-tema, grazie al contrasto progressivo di timbri strumentali. Per questo motivo i due tamburi che ripetono per 170 volte le due battute in ¾ sono collocati agli estremi opposti dell’ultima fila orchestrale, in modo da garantire un effetto stereofonico perfetto e vincolante, tutto dipendente dal vigile sguardo direttoriale.
La prima enunciazione del tema, a cura del flauto di Alberto Barletta, è attenuata, trattenuta, rappresentando un’origine umile e ancestrale della melodia (complice la prima parte del concerto, richiama subito il Prélude à l’après-midi d’un faune); con l’ottavino il sistema degli accenti propone una variazione, e neppure questo è casuale, perché coglie la dinamicità interna di un organismo vivo, soggetto a continui cambiamenti. A proposito della complessità strutturale del Boléro, Enzo Restagno ha scritto: «Se il metro è regolare ma lo spazio al suo interno viene scandito in maniera non perfettamente simmetrica, è il principio stesso di regolarità che viene incrinato» (Ravel e l’anima delle cose, Milano 2009); dal ritmo di base alla scansione di tema e contro-tema, dunque, Rophé non fa altro che sottolineare un conflitto insito nella natura stessa della pagina. Le prime parti orchestrali diventano a mano a mano determinanti nell’accumulo timbrico dei diciotto strumenti affidatari di tema e contro-tema; ottimo il saxofono, per esempio, un po’ più impacciato il trombone, magnifici l’oboe d’amore di Teresa Vicentini e il corno inglese di Franco Tangari, semplicemente inesorabile il timpano di Claudio Romano quando subentra ai tamburi nel corroborare il ritmo. Perché il problema fondamentale, ostentato dallo stesso Ravel, è appunto il ritmo, che a differenza di suono, agogica e timbri, non deve subire alcuna variazione (la partitura reca l’indicazione precisa semiminima = 72). Molto spesso i direttori d’orchestra non resistono alla tentazione di stringere o rilassare il tempo, specie in corrispondenza di determinati passaggi o del finale. Rophé, al contrario, è inflessibilmente metronomico dall’inizio alla fine; ed è emozionante osservare con quale concentrazione i solisti alle percussioni non stacchino mai gli occhi dal volto e dal gesto direttoriali, in cui è riposta la concertazione dell’intero congegno. Esso deflagra su se stesso, dopo la virata dell’unica modulazione da do maggiore a mi maggiore prima del finale, e produce una conseguente esplosione di applausi; così intensi che Rophé invita l’orchestra a iterare l’ultima parte, in un momento di gioia collettiva: ogni ascoltatore si rende conto di aver assistito a un miracolo dell’arte. E dire che Ravel, rispondendo una volta alla domanda su quale fosse il suo capolavoro, disse: «Ma il Boléro, naturalmente, peccato che sia completamente privo di musica!»