Torino:”Turandot” (cast alternativo)

Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2013/2014
“TURANDOT”
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni dall’omonima fiaba teatrale di Carlo Gozzi.
Musica di Giacomo Puccini
Duetto e scena finale completati da Franco Alfano
Turandot RAFFAELLA ANGELETTI
Il principe ignoto (Calaf) WALTER FRACCARO
Liù ERIKA GRIMALDI
Timur GIACOMO PRESTIA
L’imperatore Altoum ANTONELLO CERON
Ping DONATO DI GIOIA
Pang LUCA CASALIN
Pong SAVERIO FIORE
Un mandarino RYAN MILSTEAD
Il principe di Persia GUALBERTO SILVESTRI
Prima ancella SABRINA AMÈ
Seconda ancella PIERINA TRIVERO
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi”
Direttore Pinchas Steinberg
Maestro dei cori Claudio Fenoglio
Regia Giuliano Montaldo ripresa da Fausto Cosentino
Scene Luciano Ricceri
Costumi Elisabetta Montaldo
Coreografia Giovanni Di Cicco
Luci Andrea Anfossi
Allestimento Teatro Carlo Felice di Genova
Torino, 13 febbraio 2014

Una piacevole oleografia ha accompagnato gli spettatori di Turandot al Regio di Torino: la regia di Giuliano Montaldo, con scene di Luciano Ricceri e costumi di Elisabetta Montaldo, si inserisce infatti nel solco degli spettacoli iper-tradizionali, che mai guastano l’ascolto della musica, lasciando in una placida quiete i sensi e la mente. Del resto, non basta già Puccini, con i suoi esperimenti armonici, la sua ironia a volte così amara, i suoi ariosi commoventi, a svegliare le emozioni degli ascoltatori? Tanto più che l’oleografia di Montaldo non è un’oleografia vuota, o nauseante per via d’eccessi, ma è arricchita da preziosi effetti di luce che, nelle proiezioni sul fondale, delineano i mutamenti delle ore del giorno; da coreografie a tratti suggestive (l’apparizione dei fantasmi dei principi giustiziati e la conclusione del I atto, per fare un esempio); da movimenti psicologicamente significativi, come quello compiuto da Turandot quando, mentre domanda al principe straniero «il gelo che dà foco, che cos’è?», gli si avvicina, suggerendogli implicitamente la risposta, con un duplice atteggiamento di sfida e di resa che verrà spiegato nel duetto finale.
Paradossalmente, è proprio nel finale non pucciniano – a proposito: voci di corridoio avevano lasciato intendere che sarebbe stato eseguito il finale scritto da Alfano nella sua prima versione; invece, seppur senza tagli ulteriori, è stato proposto, come d’uso, quello rivisto e accorciato da Toscanini – che si è più apprezzata l’interpretazione di Raffaella Angeletti. Il soprano torinese è stato chiamato a coprire il ruolo di Turandot in seguito al forfait di Lise Lindstrom, che ha fatto passare al primo cast Johanna Rusanen, a pochi giorni dalla prima rappresentazione; le va dunque reso merito d’aver permesso lo svolgimento delle recite, e d’essersi impegnata per dare senso drammaturgico ad un personaggio per il quale il suo strumento risulta inadatto: la voce, pur sempre intonata, è infatti esile rispetto alle richieste pucciniane. Con ciò, la Angeletti riesce a sollevare il velo su un elemento spesso lasciato in ombra della principessa cinese: la debolezza che si nasconde sotto il manto della freddezza e della crudeltà, rappresentate dall’emissione lancinante delle note acute. Nelle pagine musicate da Franco Alfano, invece, lo “sgelamento” di Turandot dà vita ad una figura più coerente con i tratti vocali dell’interprete. Più completa e affascinante – e parte del merito risale già a Puccini – è la figura di Liù, che ha trovato nel soprano Erika Grimaldi l’interprete dotata della giusta dolcezza, capace di esprimere la remissività della schiava come il grido di dolore della donna disperata ma ferma nel difendere l’uomo che ama. Lo strazio interiore si percepisce tanto nella delicata messa di voce che conclude l’aria del I atto, quanto nella voluta screziatura che, sul verso «io chiudo stanca gli occhi» di «Tu che di gel sei cinta», interrompe la morbidezza del canto per volgersi quasi in parlato. Pur in presenza dell’indubbia emozione dovuta al debutto assoluto nel ruolo, si può dire che la Grimaldi abbia trovato un personaggio tagliato sulla sua vocalità e personalità. Il tenore Walter Fraccaro è un Calaf sicuro di sé, dalla voce possente, pastosa e stentorea, che passa come un rullo compressore su tutti gli ostacoli frapposti ai suoi desideri così come sulle difficoltà poste dalla partitura pucciniana (compresi gli ensemble orchestrali e corali); si potrebbe auspicare da lui una maggiore varietà nella tavolozza dei colori, ma, a quanto pare, è questo il Calaf desiderato dal pubblico, che, al termine di «Nessun dorma», tributa una vera ovazione al tenore, chiedendo invano il bis.
Tra gli altri interpreti, comuni al primo cast, si è indubbiamente messo in luce il basso Giacomo Prestia, tratteggiando a tutto tondo, pur nella brevità dei suoi interventi, la figura moralmente patriarcale, anche se fisicamente debolissima, del vecchio Timur, con timbro omogeneo su tutto il registro e accento sentitamente umano. Tremulo vegliardo impotente è invece l’imperatore Altoum raffigurato dal tenore Antonello Ceron. I tre ministri Ping, Pong e Pang (è inevitabile considerarli un po’ come se fossero tutt’uno), interpretati, rispettivamente, dal baritono Donato Di Gioia e dai tenori Saverio Fiore e Luca Casalin, erano ben caratterizzati, sia nei loro tratti macchiettistici di figure di colore, sia nell’umanità che emerge quando si abbandonano con nostalgia ai ricordi e alle speranze.
Il Coro (comprensivo di voci bianche) in Turandot ha un peso non indifferente, in quanto viene ad essere, similmente a quanto accade in alcuni titoli verdiani, un vero personaggio del dramma. E le compagini del Regio, istruite da Claudio Fenoglio, hanno saputo rispondere a questo ruolo disegnando una folla espressiva, ondeggiante nei sentimenti e vivida nella loro manifestazione, come ben dimostra l’acclamazione «Diecimila anni al nostro imperatore!», ora trionfante e pompier, ora sfiduciata e sommessa. Il direttore Pinchas Steinberg sa cogliere l’essenza rigogliosa della partitura, mettendone in luce lo sperimentalismo e ponendo l’accento, talvolta un po’ troppo, sugli elementi d’effetto immediato. Foto Ramella & Giannese