Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2013-2014
“LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in tre atti. Libretto di Salvatore Cammarano ispirato a The Bride of Lammermoor di Walter Scott.
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton MASSIMO CAVALLETTI
Miss Lucia ALBINA SHAGIMURATOVA
Sir Edgardo di Ravenswood VITTORIO GRIGOLO
Lord Arturo Bucklaw JUAN FRANCISCO GATELL
Raimondo Bidebent SERGEY ARTAMONOV
Alisa BARBARA DE CASTRI
Normanno MASSIMILIANO CHIAROLLA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Pier Giorgio Morandi
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Mary Zimmerman
Scene Daniel Ostling
Costumi Mara Blumenfeld
Luci T. J. Gerckens
Coreografia Daniel Pelzig
Produzione Metropolitan Opera, New York
Milano, 19 febbraio 2014
Un altro trionfale successo di pubblico per la Lucia di Lammermoor scaligera, giunta alla sua sesta rappresentazione. Ma se, per dirla con la famosa locuzione shakespeariana, non è tutto oro ciò che luccica, è vero anche che applausi scroscianti e spettatori in adorazione non possano essere garanzia indiscussa della qualità complessiva di uno spettacolo. Si tratta della quarta ripresa che vede in scena il primo cast, con i ruoli principali affidati ad Albina Shagimuratova e Vittorio Grigolo, di cui si dirà più avanti.
L’allestimento, di produzione newyorkese, porta la firma di Mary Zimmerman, regista avvicinatasi solo di recente all’opera portando in scena al MET, oltre a questa Lucia, Armida di Rossini e La Sonnambula di Bellini. Ma la sua carriera dedicata in prevalenza al teatro di prosa si fa chiaramente sentire in questo allestimento, che presenta espliciti riferimenti all’opera letteraria ottocentesca The bride of Lammermoor, romanzo storico di Walter Scott, da cui Cammarano e Donizetti traggono soggetto e ispirazione. Tuoni, foreste, notti tetre di luna piena, albe pallide, atmosfere misteriose e arcane: tutti elementi simbolo del più schietto romanticismo attorno ai quali ruotano l’impostazione registica della Zimmerman e l’impianto scenico di Daniel Ostling. Un altro elemento significativo coerente con il clima romantico è l’enfasi che viene data alle presenze spettrali, a cominciare dall’ “ombra” che appare a Lucia nei pressi della fonte, per chiudere con il finale in cui lo spirito di Lucia stessa, ormai spenta, chiama a sé Edgardo nella morte. Non si tratta però di un banale inserto sovrannaturale per aiutare a costruire un inquietante clima goticizzante, o nemmeno le semplici allucinazioni di una protagonista instabile psicologicamente fin dal principio. Niente di tutto questo: come spiega chiaramente la Zimmerman nelle note di regia, l’obiettivo è rappresentare e rendere manifesta la presenza della Follia, che al suo passaggio prende per mano gli uomini, li acceca e li accompagna alla rovina. Un concetto interessante da mettere in evidenza, specialmente in un’opera come questa dove la pazzia incarna senza dubbio uno dei temi centrali.
Se fin ora si è parlato della totale aderenza al contesto del Romanticismo, non vale lo stesso per quanto riguarda il fattore temporale. La vicenda è trasposta in epoca vittoriana: un balzo in avanti rispetto al Cinquecento del libretto di Cammarano (a sua volta comunque spostato di duecento anni rispetto al XVIII secolo indicato da Scott), grazie al quale è possibile tratteggiare con maggior enfasi una società chiusa in se stessa, un opportunismo bieco e dilagante e un periodo segnato da una forte sopraffazione femminile, altri temi fondamentali che emergono nell’opera. Il riferimento temporale ci è suggerito dalle scene in interno (a partire dal secondo atto) e – soprattutto – dai meravigliosi costumi disegnati con cura maniacale da Mara Blumenfeld, che danno un enorme contributo nel rendere l’allestimento ricco e ricercato dal punto di vista visivo, già scenicamente forte di un naturalismo minuzioso che è un vero piacere per gli occhi. Riguardo alle scelte registiche, oltre a quelle d’inquadramento generico decisamente apprezzabili, ci imbattiamo in alcune trovate ottime e altre decisamente evitabili: irritanti, ad esempio, i tuoni che lampeggiano ad ogni intervento del timpano durante il preludio o la scena nella torre; originale ma eccessivamente distraente il fotografo che mette in posa coniugi e invitati durante il sestetto; patetico, nella scena immediatamente precedente, Edgardo che invita Lucia a trafiggerlo con la spada con fare eroico e melodrammatico. Al contrario, raffinatissima ad esempio è l’idea dei sipari inseriti tra un atto e l’altro raffiguranti alberi dai rami ormai secchi, che si infittiscono con il procedere dell’opera, quasi a simboleggiare un presagio di morte sempre più incombente. Profondamente toccante inoltre il finale II che vede Lucia sola, in proscenio, che con il calare di un tulle semitrasparente si ritrova isolata dall’amato, dal fratello, dal marito, dagli invitati, dal mondo intero: una soluzione innovativa ed elegante per individuare esplicitamente l’istante in cui il dolore e la solitudine raggiungono il culmine, innescando la follia letale di cui saremo spettatori nell’atto successivo. Per il resto, nella maggior parte delle scene, si ha l’impressione che la regista abbia lasciato anche troppa libertà d’azione ai cantanti, lasciandoli vagare a sentimento per il palcoscenico senza che avessero le indicazioni sufficienti. C’è da dire che lo spettacolo è stato pensato nel 2007 per essere cucito sulla pelle di Natalie Dessay, le cui ineguagliabili doti d’interprete hanno garantito una prova straordinaria senza che nessuno le suggerisse troppo come muoversi e come esprimersi, incarnando una Lucia di sconvolgente credibilità. Ma, come spesso accade in questi casi, cambiando la protagonista cambia anche il risultato finale: in assenza di una Lucia convincente in scena, l’esito finale dell’opera da primadonna per eccellenza resta senz’altro compromesso.
Come si diceva, il ruolo del titolo per questa rappresentazione scaligera è stato affidato ad Albina Shagimuratova, soprano russo dalle ragguardevoli doti vocali, che tuttavia non brilla certo per espressività. La sua interpretazione è piatta, non riesce a scavare a fondo in un personaggio così complesso e ricco di sfumature come quello di Lucia. Dopo una partenza incerta con il primo recitativo e nella prima aria (“Regnava nel silenzio”), si riprende subito nella cabaletta, eseguendo un “Quando rapito in estasi” caratterizzato da preziosi trilli e da una finale puntatura in acuto pulitissima, la prima della lunga serie che andrà a chiudere ogni intervento del soprano. Spiace quindi per quell’algidità monocorde che purtroppo non permette alla Shagimuratova di entrare appieno nel personaggio e convincere davvero. Speravamo in un riscatto nella grande scena della pazzia, tuttavia piuttosto deludente. Oltre al problema già descritto, qui più evidente, l’intonazione risulta fortemente altalenante: precaria in alcuni passaggi tendenti al calante, mentre pressoché perfetta nello splendido dialogo con il flauto, eseguito con una precisione eccezionale.
Tutt’altro discorso in termini espressivi per l’Edgardo di Vittorio Grigolo, la cui esuberanza scenica fa assumere alla sua performance quasi un’impronta verista, dovuta alla strabordante enfasi nei gesti e nel canto. Il giovane tenore aretino (il cui trentasettesimo compleanno cade proprio in occasione di questa recita) soddisfa però dal punto di vista vocale: il timbro è pastoso e brunito, sfoggiato con un’emissione sicura e fluida anche nei morbidi passaggi di registro. Certo, se l’atteggiamento complessivo non fosse sempre così sopra le righe, il canto ne guadagnerebbe senz’altro in pulizia e omogeneità, senza cedere il passo a singhiozzi e forzature dovute all’impeto eccessivo. Da ricordare, infatti, il finale “Tombe degli avi miei” e l’ultima aria “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, dove una maggior concentrazione sul fraseggio, piuttosto che su movimenti scalmanati, ha permesso a Grigolo di portare a termine anche esecuzioni convincenti musicalmente.
Nei panni del perfido Enrico troviamo Massimo Cavalletti, un po’ impacciato sulla scena, ma dotato di voce corposa e autenticamente baritonale che corre senza problemi nella grande sala del Piermarini. Peccato per l’incerta emissione di alcune note nel registro più acuto (particolarmente evidente nel duetto con Lucia del secondo atto) e alcuni pasticci nella gestione dei tempi e degli attacchi. Buona la performance del basso Sergey Artamonov che, nonostante il timbro un po’ troppo chiaro per il ruolo di Raimondo, ha ben impersonato il severo educatore di Lucia. Troviamo infine un Arturo d’eccezione nelle sembianze e nella bella voce di Juan Francisco Gatell, decisamente brillante pur nella sua breve apparizione. Complessivamente corretti gli interventi dei comprimari Massimo Chiarolla (Normanno) e Barbara De Castri (Alisa). Splendida prova del coro preparato da Bruno Casoni e dell’ottima orchestra guidata dall’esperta bacchetta di Pier Giorgio Morandi. La sua è una direzione efficace per quanto riguarda la scelta dei tempi, ma non troppo sfaccettata e curata dal punto di vista dei colori. Ne risulta un’esecuzione forse un po’ fredda ma nel suo insieme soddisfacente, grazie anche all’attentissima opera di coordinamento tra buca e palcoscenico che rappresenta un solido appiglio per i cantanti, soprattutto nei pezzi d’insieme ostici come il celebre sestetto. Come accennato all’inizio, un pubblico entusiasta ha salutato calorosamente tutti gli artisti, in particolare la commossa Albina Shagimuratova e il baldanzoso Vittorio Grigolo, sommerso da “bravo” e festanti auguri di buon compleanno. Foto Brescia/Amisano © Teatro alla Scala