Perlacei fantasmi per Lucia ed Edgardo (cast alternativo)

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2013-2014
 “LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in tre atti.Libretto di Salvatore Cammarano ispirato a The Bride of Lammermoor di Walter Scott.
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton MASSIMO CAVALLETTI
Miss Lucia JESSICA PRATT
Sir Edgardo di Ravenswood PIERO PRETTI
Lord Arturo Bucklaw JUAN FRANCISCO GATELL
Raimondo Bidebent SERGEY ARTAMONOV
Alisa BARBARA DI CASTRI
Normanno MASSIMILIANO CHIAROLLA
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Pier Giorgio Morandi
Maestro del coro Bruno Casoni
Regia Mary Zimmerman
Scene Daniel Ostling
Costumi Mara Blumenfeld
Luci T. J. Gerckens
Coreografia Daniel Pelzig
Produzione Metropolitan Opera, New York
Milano, 11 febbraio 2014       
La terza rappresentazione (fuori abbonamento) della Lucia di Lammermoor alla Scala è in realtà la prima per la compagnia vocale alternativa, che ruota attorno a Jessica Pratt e a Piero Pretti. Serata di grande successo, perché il giudizio del pubblico è molto positivo per tutti gli interpreti, dopo ogni numero, alla fine dei primi due atti, e soprattutto alla fine del III, a conclusione delle due scene più impegnative per soprano e tenore; dal punto di vista critico la rappresentazione può essere annoverata tra quelle di buona routine della stagione scaligera. Ma, come sempre, sarà meglio approfondire taluni aspetti, a cominciare dalla direzione orchestrale. Sin dal breve preludio, Pier Giorgio Morandi vuole conferire un tono molto solenne all’incedere della musica, che assume quasi le fattezze di una marcia funebre; il direttore si rivela da subito ottimo accompagnatore del coro e dei cantanti, equilibrato nei tempi e nelle sonorità orchestrali. Se il centro drammaturgico dell’opera è la scena in cui Lucia sposa Arturo, con conseguente irruzione di Edgardo, il direttore opta per una buona scelta, staccando a ritmo assai sostenuto il concertato «Dov’è Lucia? / – Qui giungere / or la vedrem…». Nei momenti d’insieme Morandi riesce sempre preciso, e infatti il più bello dell’intera serata è il finale II, allorché riapre anche un taglio di tradizione nelle battute conclusive. Esaltando poi il ruolo e il timbro strumentale del corno, Morandi conferisce alla sua Lucia una tinta riconoscibile, arcaizzante, romantica.
Jessica Pratt da parecchi anni è acclamata interprete di Lucia sulle scene nazionali e internazionali, ma non l’aveva ancora cantata alla Scala (dove debuttò nell’ottobre 2009 con Le convenienze ed inconvenienze teatrali, per poi tornarvi soltanto adesso). Nei primi due atti il soprano australiano manifesta titubanza e freddezza, nel senso che la zona bassa della voce rasenta  il parlato, fioriture e agilità sembrano accennate, l’emissione è  debole da essere talvolta coperta dall’orchestra (il che non avviene per le voci degli altri interpreti), gli acuti suonano esangui, come svuotati di sostanza. Certo, le note centrali sono molto belle, hanno una risonanza pastosa e vellutata, e la cantante, come per compensare le precedenti mancanze, azzarda tutti i sopracuti della tradizione e insiste sulle filature in pianissimo; ma tale strategia non basta a restituire il personaggio vocale in termini convincenti, anche perché le varie puntature sovracute tendono al suono stridulo e non del tutto fermo. Nel III atto, in corrispondenza della scena “della pazzia”, la voce della Pratt subisce una metamorfosi: diventa più vibrante, si articola in una linea di canto molto fluida, brilla di armonici; e in generale tutto è affrontato con naturalezza e sicurezza, come un pezzo tratto dal repertorio personale e collaudatissimo per pratica. La cadenza di «Ardon gl’incensi… Splendon / le sacre faci» è accompagnata dal flauto, secondo una scelta allineata all’impostazione complessiva della rappresentazione, tutta dipendente dalla tradizione tardo-ottocentesca e primo-novecentesca (assecondata dal direttore d’orchestra; essa può piacere o lasciare perplessi, ma almeno è al suo interno coerente). Come sempre, la Lucia della Pratt non è né dolce né sognante, ma mantiene sempre un velo di chiaroscuro e di drammaticità (non manca peraltro, nel virtuosismo della duplice cadenza, qualche spigolosità); questo la distingue dall’interpretazione tipica del soprano leggero, e in parte la avvicina a quella del soprano lirico. Certamente, anche la Pratt si inserisce in quel «revival in piena regola del tradizionale soprano leggero, che pareva condannato alla sparizione definitiva» (come scrive Giorgio Gualerzi in Le peripezie vocali di Lucia, all’interno del programma di sala). Eppure – resta da domandarsi -, nei primi due atti la cantante vuole forse risparmiare le energie? Come spiegare altrimenti lo iato qualitativo tra i due blocchi dell’opera? Il pubblico scaligero apprezza moltissimo tutta la scena “della pazzia”, tributando al soprano una prolungata ovazione, che si ripete anche quando la Pratt torna alla ribalta dopo la fine del melodramma.
Piero Pretti ha lavorato molto sul repertorio verdiano nel corso del 2013 (La traviata e Rigoletto al Teatro Regio di Torino, Un ballo in maschera alla Scala; ma l’anno prima anche Luisa Miller, sempre alla Scala). Con Lucia torna a un tipo di vocalità che gli è più congeniale, e che affronta con lo charme del tenore di grazia. Sin dall’ingresso in scena la voce risuona molto bene, il fraseggio risalta, ogni parola è scandita con pregevole precisione e nettezza: «Sulla tomba che rinserra» è cantato anche con troppa grazia rispetto ai propositi violenti che i versi nascondono. Pur profetizzando delitti, stragi e vendette, Pretti suggerirebbe più il canto di Alfredo o di Nemorino, o anche l’enfasi di don Ottavio, che non l’ardore romantico di Edgardo. Ma la sensazione di inadeguatezza dura poco, e si conclude con l’attacco in ritardo (prontamente restaurato da Morandi) di «Verranno a te sull’aure», perché nel resto del duetto il tenore si attesta su una linea di canto persuasiva e sempre molto elegante. Ancor  più convincente è la scena della maledizione, che segue il famoso sestetto del finale II: Pretti tralascia – come sempre accade – l’impossibile frase «ma di Dio la mano irata», riuscendo però a esprimere il giusto grado di drammaticità. All’inizio del III atto il tenore è comprensibilmente un po’ provato, e il difficile duetto “della torre” riesce al di sopra delle sue possibilità; molto bella è invece l’interpretazione di «Tombe degli avi miei […] Tu che a Dio spiegasti l’ali», cantato con intenso lirismo, con la giusta coniugazione di grazia e di disperazione elegiaca, che paiono davvero la cifra più autentica della vocalità di Pretti (bellissimo il timbro, in particolare nella frase «Tu delle gioie in seno, io… della morte!». L’artista, forse, teme di avere voce troppo leggera rispetto alla parte, ed è tentato di irrobustirla con emissione forzata; questo è un piccolo errore, che produce anche lieve insicurezza nell’intonazione, e in cui un tenore dalle qualità e dalla correttezza di Pretti non dovrebbe più cadere).
Massimo Cavalletti è un Enrico dalla bella voce baritonale, virile, molto generosa, tale da risuonare bene nell’ampiezza della Scala; le note acute restano però scoperte, e quando sono tenute a lungo risultano del tutto prive di timbro. Nel corso delle agilità (sin dalla cabaletta iniziale «La pietade in suo favore») l’imbarazzo del cantante è tradito da indebite accelerazioni e da portamenti dallo stile discutibile. Per di più, il fraseggio non è troppo curato (anche se nel II e III atto migliora sensibilmente), e l’intonazione vacilla quando il cantante è in difficoltà con l’emissione (come nel duettino «Se tradirmi tu potrai», a causa del tempo rapidissimo staccato da Morandi). Altro momento di difficoltà è il duetto iniziale del III atto, in cui la fatica accomuna sia il baritono sia il tenore, come già ricordato. Sergey Artamonov è il basso che interpreta Raimondo: ha timbro gradevole, ma non omogeneo, e inoltre tende all’emissione fissa e alle inflessioni di gola. Di gran lusso l’Arturo di Juan Francisco Gatell, che innesta nel canto dello “sposino” uno squillo e una lucentezza tipicamente rossiniani. Il Normanno di Massimiliano Chiarolla è corretto, anche se il vibrato largo della sua voce penalizza un poco l’emissione. Espressiva (a volte anche un po’ caricata) la Alisa di Barbara Di Castri. Molto efficace il coro istruito da Bruno Casoni, sempre ben sostenuto dall’orchestra di Morandi.
Se la componente musicale ha qualità omogenea e per lo più soddisfacente, quella scenica è più umbratile, più frastagliata nell’esito. Mary Zimmerman è una specialista di “teatro” nel senso più ampio di tale termine: curatrice e sperimentatrice di arti performative, dai classici della letteratura antica a Shakespeare alla rivisitazione del musical e del cartoon. Era dunque prevedibile che nell’accostarsi al melodramma di Cammarano e Donizetti volesse recuperare anche la fonte letterario-romanzesca di Scott, con tutti i fantasmi e le apparizioni spettrali di cui l’opera romantica pullula. La sua Lucia, creata nel 2007 per il Metropolitan Opera di New York, sembra dunque sognante e romanzesca, come se nulla fosse accaduto nella regia del teatro d’opera del Novecento; sono curati i particolari dei costumi come il decorativismo degli interni e delle scene; ma restano, appunto, decorativismo e descrittivismo. L’apporto propriamente registico, inerente a movimenti, gestualità, espressività e rapporti corporei degli artisti, è invece generico o minimo (soprattutto nel I e nel III atto, quando ogni iniziativa di recitazione pare affidata ai cantanti, tutti peraltro convincenti attori).
Nel I atto, notturno e dal clima venatorio, agli abiti in stile vittoriano, o anche edoardiano, si accompagnano lanterne, segugi (cocker con la lingua penzoloni), giacche di tweed, golfini, schioppi, impeccabili bombette; per Lucia e Alisa soprabiti, cappellini e ombrellini, altresì irreprensibili; il tutto immerso in una luce azzurro-bluastra. Cumuli di terra e di zolle argentate nel riquadro aperto di una parete nera costituiscono il fondale; a completare l’oleografia, quando l’arpa introduce la seconda scena, inizia a nevicare sulla montagnola: la parete scompare, lasciando così visibile tutta la profondità del palcoscenico. Mentre Lucia canta appare il fantasma della donna trafitta e affogata nella fontana («Un Ravenswood, ardendo / di geloso furor, l’amata donna / colà trafisse, e l’infelice cadde / nell’onda ed ivi rimanea sepolta»: dal mitico antefatto – nel libretto è suggestione minima – la regista crea una prefigurazione della morte della stessa Lucia). È pur vero che i costumi sono molto curati nel dettaglio, ma spesso la recitazione li avvilisce nel ridicolo: come un garbatissimo maggiordomo, per esempio, Alisa porge cilindro e bastone a Edgardo quando esce di scena, al termine del duetto del I atto; Raimondo, poi, ha lungo abito talare, così nero e severo da ricordare un Grande Inquisitore verdiano.
Tanto il I atto è generico e disadorno, quanto il II è ricco di idee, anche troppe e vane. Una servitù in schietto stile Downton Abbey toglie i veli e rispolvera gli arredi durante l’aria del basso nel II atto; in effetti, quella dei mobili infagottati, segno di decadenza economica e politica, è la prima idea registica dell’intero spettacolo (boiserie e carta da parati verdognole, invece, non costituiscono certo grande scenografia). Il peggio è offerto nel dialogo tra Arturo ed Enrico a proposito della seduzione di Edgardo, perché mentre i due parlano, servitù (schierata nel vano d’una finestra) e ospiti (in chiassoso abito da cerimonia grigio perla) tendono gli orecchi con intento pettegolo; Enrico lancia su tutti uno sguardo di rimprovero, e intanto la scena è già diventata ridicola. Svilito e svuotato di dramma è anche il sestetto «Chi mi frena in tal momento?», perché un fotografo muove i personaggi, collocandoli in posizione per immortalare l’infausto matrimonio. E poi, nella stretta conclusiva, appare gratuitamente melodrammatico il gesto di Edgardo, che s’inginocchia puntandosi la spada alla gola e offrendosi a Lucia perché l’amante traditrice lo trafigga sull’istante! Talmente enfatico da apparire dissacratoria caricatura del momento più angosciante di tutta l’opera; e dunque in contrasto stridente con quanto precede e con quel che segue. Nel III atto, la scena “della pazzia” è sormontata da una scalinata con soppalco, da cui Lucia scende in abito e velo nuziale spruzzati di sangue. Mentre Edgardo muore, infine, appare l’ennesimo fantasma, questa volta quello di Lucia, in abito color perlaceo (ovviamente!) e con capigliatura canuta. E va bene così: anche post mortem i protagonisti del melodramma restano – secondo la Zimmerman – perseguitati dai fantasmi delle loro passioni. Foto Brescia/Amisano © Teatro alla Scala