Melodramma in due atti di Jacopo Capianca da “Die Braut von Messina” di Friedrich Schiller. Jessica Pratt (Donna Isabella, principessa di Messina), Filippo Adami (Don Emanuele, suo figlio), Armando Ariostini (Don Cesare, altro suo figlio), Wakako Ono (Beatrice), Maurizio Lo Piccolo (Diego). Classica Chamber Choir, Brno; Virtuosi Brunensi, direttore, Antonino Fogliani. Registrazione: Bald Wildbad, Kursaal, Germania, XXI Rossini Festival in Wildbad, 15-18 luglio 2009. T.Time 1:43:31 – 2 CD Naxos 8.660295-96 2012
Atto primo – Atto secondo
Nonostante oggi sia ricordato quasi esclusivamente per i suoi esercizi vocali ben noti a tutti gli studenti di canto, il tolentinese Nicola Vaccaj conobbe un certo successo anche come compositore operistico. La sua carriera non fu facile, né lineare, contraddistinta da alcuni periodi di silenzio anche piuttosto lunghi. Nato in una famiglia di medici e avvocati nel 1790 manifestò le prime velleità artistiche non come musicista bensì come drammaturgo, scrivendo alfieriane tragedie in versi. La famiglia lo costrinse a intraprendere gli studi in giurisprudenza ma il giovane Vaccaj ben presto decise di dedicarsi esclusivamente alla musica, fino al punto di trasferirsi a Napoli per studiare con Paisiello. Nella città partenopea iniziò a comporre musica sacra nonché arie da inserire nelle opere di altri autori. La sua prima opera I solitari di Scozia (1815) fu un discreto successo che lo incoraggiò a trasferirsi a Venezia, dove compose un certo numero di opere che non riscossero il favore del pubblico. Si dedicò quindi per alcuni anni alla composizione di balletti e soprattutto divenne il maestro di canto più richiesto dall’alta società veneziana. Ritornò all’opera nel 1824 con Pietro il Grande alla cui prima data al Teatro Ducale di Parma sostituì all’ultimo momento un cantante indisposto; l’opera, che ebbe un notevole riscontro di pubblico, inaugurò la serie di composizioni teatrale di maggior successo, la più importante e duratura delle quali fu Giulietta e Romeo (Milano, 1825), a tutt’oggi il suo titolo più conosciuto, soprattutto in virtù del fatto che Maria Malibran, spinta da Rossini (che di Vaccaj – è bene ricordarlo – aveva grande stima) era solita interpolarne il finale nell’opera belliniana I Capuleti e i Montecchi, esempio seguito da quasi tutte le primedonne ottocentesche, tanto che Ricordi inserì il finale di Vaccaj come appendice allo spartito belliniano.
Fu proprio Bellini, comunque, e il suo stile romantico a decretare alla fine degli anni ’20 il declino delle fortune di Vaccaj, il quale dopo alcuni insuccessi e un’inaudita umiliazione (la città di Genova, che aveva scelto una sua opera per l’inaugurazione del nuovo Teatro Carlo Felice, all’ultimo momento preferì puntare sull’astro nascente siciliano con il rifacimento di Bianca e Fernando). Seguì un altro lungo periodo di silenzio durante il quale si trasferì a Parigi e poi a Londra, dove perfezionò il suo metodo di canto. Ma il richiamo del teatro dovette provarsi irresistibile e nel 1836 Vaccaj presentò Milano una nuova opera, Giovanna Grey, che, nonostante la presenza della Malibran, passò pressoché inosservata. Seguirono soltanto tre altre opere: Marco Visconti (1837) accolta con un certo calore a Torino, La sposa di Messina che invece fu un fiasco di così epiche proporzioni nel 1839 a Venezia che Vaccai dovette aspettare ben sei anni prima di presentare il proprio canto del cigno, Virginia, al Teatro Apollo. Vaccaj, che durante la lunga carriera aveva dovuto adattarsi allo stile rossiniano prima, belliniano e donizettiano dopo, cercò con Virginia, opera “risorgimentale” con addirittura due bande e una presenza massiccia del coro, di conformarsi all’astro nascente verdiano, il cui linguaggio gli era essenzialmente estraneo. La delusione di Virginia, unita alla consapevolezza di non riuscire a stare al passo con i tempi, lo convinse a ritirarsi per sempre, e fino alla sua morte avvenuta tre anni più tardi rimase in ogni caso uno stimatissimo pedagogo vocale.
L’opera recensita, La sposa di Messina, divisa in due atti, appartiene quindi all’ultima fase della produzione del compositore, fortemente influenzata soprattutto da Donizetti. Come precedentemente accennato, l’opera fu violentemente contestata dai veneziani alla prima, tanto che alla seconda recita solo il primo atto venne eseguito ed il secondo, ulteriore umiliazione per il povero Vaccaj, venne sostituito con l’ultimo atto della donizettiana Parisina, probabilmente perché la protagonista, Carolina Ungher, era stata la creatrice di quest’opera cui era particolarmente affezionata.
Eppure La sposa di Messina ad un ascolto attento si rivela opera di buona fattura; c’è del materiale d’accatto, questo è indubbio, così come ne trova anche in Donizetti e nel primo Verdi, ma non è difficile imbattersi in momenti altamente originali, o quanto meno estremamente piacevoli. Intanto la fonte letteraria è di nobile ascendenza; si tratta di Die Braut von Messina (oder Die feindlichen Brüder) di uno Schiller “minore” e piuttosto controverso, ma pur sempre di Schiller si tratta. Il librettista Jacopo Cabianca, pur sfrondando il dramma di alcuni caratteri minori per adattarlo alle convenienze dell’opera italiana, si mantiene tutto sommato piuttosto fedele alla fosca trama schilleriana che prevede, in piena vena romantica, fratricidi, (tentati) infanticidi, e persino quasi due incesti. Questà è in breve la trama, che ricorda da vicino la tragedia di Edipo: Donna Isabella (soprano), principessa di Messina, divenuta recentemente vedova, è determinata a far riappacificare i due figli maschi, Emanuele (tenore) e Cesare (baritono), che, oltre ad odiarsi a morte per questioni dinastiche, sono – e questo lo scopriamo nel corso dell’opera – rivali in amore, in quanto entrambi desiderano la stessa donna, una misteriosa fanciulla di nome Beatrice (soprano). Isabella riesce a strappar loro una promessa di riappacificazione, rivelando anche un segreto: i due hanno una sorella, che tutti credono fosse morte subito dopo la nascita. Mentre Isabella aveva ancora la bambina in grembo, suo marito aveva sognato che la nascitura avrebbe determinato la morte dei due figli maschi; Isabella al contrario aveva sognato che la bambina avrebbe messo fine alla guerra fra i due. Quindi, subito dopoil parto, Isabella aveva consegnato al fido Diego la piccola, chiedendogli di nasconderla in un convento: Isabella non sa dove si nasconde figlia ormai adulta né che aspetto abbia, ma ha ingiunto a Diego di andare a prenderla così che possa assistere alla ricongiunzione dei suoi due fratelli. Quello che Isabella ignora è che i due fratelli, ignari della parentela, avevano già separatamente incontrato la ragazza, di nome Beatrice, e se ne erano entrambi innamorati; solo Emanuele però era ricambiato, mentre Cesare era stato respinto con orrore da Beatrice. Gli armigeri di Cesare assistono ad un incontro amoroso fra Emanuele e Beatrice e chiamano il loro condottiero, il quale accecato dalla gelosia trafigge a morte il fratello. La delirante Beatrice viene affidata alle cure di Isabella, la quale nel corso di un duetto di agnizione capisce che la fanciulla è in realtà la figlia perduta. Ma la gioia è interrotta dall’arrivo dei fidi di Emanuele che portano il corpo in scena, e Isabella, in un autentico pezzo di bravura di coloratura di forza, scaglia le peggiori maledizioni sull’assassino del figlio, ovviamente ignorandone l’identità. A questo punto entra in scena Cesare. e Beatrice lo addita quale omicida di Emanuele. Cesare, appreso che Beatrice è sua sorella, si uccide sotto gli occhi di Isabella, che ovviamente si produce in un delirante rondò.
Come accennato in precedenza, non mancano parti, non oserei dire brutte, ma decisamente poco ispirate. Stranamente, considerata l’esperienza del Vaccaj con l’emissione vocale, queste coincidono soprattutto con le arie, e con i momenti solistici in generale. La cavatina di Isabella sembra vagare e girare su stessa con molti cromatismi senza trovare una vera melodia, e si distingue per una serie di trilli ascendenti, che si trovano in altre parti dell’opera, segno inconfutabile che la Ungher prediligeva questo particolare virtuosismo. La cabaletta è più gradevole, ancorché assolutamente convenzionale. Isabella è l’unica, insieme a Cesare, ad avere un’aria bipartita; Emanuele e Beatrice devono al contrario accontentarsi di una romanza. In teoria la protagonista dell’opera dovrebbe essere Beatrice, la sposa del titolo, ma dato che la primadonna del cast era la Ungher, ormai un po’ troppo matura per sostenere la parte di un’adolescente, l’enfasi viene spostata sulla madre Isabella, e Beatrice diviene la classica seconda donna, dotata di un’aria monopartita e addirittura tre duetti, ma privata di cabaletta e rondò finale. Vaccaj comunque riesce comunque a creare per Beatrice, ruolo che sembra interessargli più di quello di Isabella, un’aria introdotta da un suggestivo assolo del clarinetto e molto interessante in virtù di vari cambiamenti di tempo (adagio e andantino) che in pratica simulano la presenza di una cabaletta. Similmente la romanza di Emanuele viene introdotta da un flauto, strumento generalmente “femminile”, che lo accompagna anche in altri momenti dell’opera. Sebbene nel libretto entrambi i fratelli siano ugualmente feroci e inflessibili, Vaccaj riesce, proprio con tale uso del flauto, a suggerire che fra i due la figura positiva, l’eroe, sarebbe proprio Emanuele, che non dimentichiamolo, è in ogni caso il tenore. Cesare è dotato di un’aria di scrittura virtuositica che non sfigurerebbe in bocca a “cattivi” rossiniani di corda grave quali Il duca di Orlow o Assur, e la sua morte è introdotta da una bella melodia intonata da un corno inglese. Per finire, il coro ha una presenza massiccia nell’economia dell’opera, ed alcuni interventi corali sono davvero squisiti, quale ad esempio quello nel Finale Atto Primo che ricorda certi cori dell’Anna Bolena.
Come prima accennato, La sposa di Messina fallì miseramente ed entrò nel dimenticatoio fino alla prima ripresa in epoca moderna che è quella presa qui in esame, un’esecuzione in forma di concerto nell’ambito del Festival Rossini in Wildbad nel 2009, inserita nel programma come omaggio a Schiller di cui si celebravano in quell’anno i 250 anni dalla nascita. Non è facilissimo farsi un’idea chiara dei meriti e demeriti dell’opera al solo ascolto di questa esecuzione, dal momento che – senza tanti giri di parole – presenta molte e gravi lacune, soprattutto nella compagnia di canto, impegnata in ruoli scritti per alcuni fra i maggiori artisti dell’epoca: oltre alla Ungher, erano presenti Napoleone Moriani,meglio noto come “il tenore dalla bella morte” (qualità che qui comunque non potè dimostrare dato che vola all’altro mondo in pochissime battute), e soprattutto il re dei baritoni, il mitico Giorgio Ronconi, creatore di molti ruoli donizettiani nonché futuro primo Nabucco. Insomma, la crème de la crème, sommi artisti per cui Vaccaj compose parti irte di difficoltà di ogni genere e che richiedono virtuosi di prim’ordine. Duole, e non poco, costatare le condizioni vocali, che definire precarie è un eufemismo, di Armando Ariostini, interprete un tempo sensibile e musicalissimo, adesso impegnato invece nella pura sopravvivenza vocale. Senza avere uno spartito in mano è impossibile rendersi conto della natura quasi sovrumana della scrittura del ruolo di Cesare, acutissima e ricca di coloratura rossiniana. Ariostini elimina sistematicamente ogni acuto, quasi tutte le note superiori a un Mi bemolle, o abbassa di un’ottava intere frase, così che, se non si conoscesse la musica, si potrebbe pensare che il ruolo fosse stato scritto quasi per un basso profondo. L’andante del bellissimo duetto fra Emanuele e Cesare del primo atto che introduce i due personaggi, tanto per fare un esempio, contiene nove Fa naturali acuti e un Sol acuto, sistematicamente eliminati o abbassati dal baritono; e così si comporta per l’intera opera. Il registro centrale è compromesso e affetto da tanto e tale vibrato che è quasi impossibile seguire e riconoscere la melodia. E qui ci fermiamo perché continuare sarebbe un ‘inutile “scagliarsi su leon morente”. Filippo Adami (Emanuele) al contrario canta ogni nota di un ruolo dalla tessitura anch’essa acutissima in cui abbondano Si bemolli, Si naturali e un certo numero di Do acuti, ma la voce è piuttosto arida, secca, carente di armonici in zona centrale, fioca in basso e gli acuti stessi spesso sembrano asprigne stilettate. Avevamo apprezzato moltissimo questo tenore in ruoli come Fadinard nel Cappello di paglia di Firenze, in cui aveva anche messo in mostra una verve comica considerevole, ma ruoli come Emanuele non si addicono alla sua struttura vocale e a suo timbro, troppo esile per le impennate eroiche e troppo anonimo per le languidezze amorose. Il timbro morbido e partecipe di Maurizio Lo Piccolo ben si adatta al ruolo di figura “paterna” di Diego, anche se purtroppo Vaccaj lo fa cantare quasi sempre insieme al coro. Il mezzosoprano giapponese Wakako Ono ha un bel timbro caldo e un registro acuto di una certa potenza (vedi il Si bemolle alla fine del terzetto con tenore e baritono del secondo atto); purtroppo la carenza di verve ritmica e una pronuncia abbastanza inarticolata (tipo “patata in bocca”) producono come risultato un’esecuzione tendenzialmente fiacca e floscia.
Diciamolo subito: Isabella, come quasi ogni ruolo Ungher, richiede un soprano drammatico d’agilità, definizione, come tutti ben sappiamo, storicamente impropria ma che rende perfettamente l’idea degli attributi richiesti da parti come queste. La Ungher, nata come contralto (è ben noto che partecipò alle prime esecuzioni della Missa Solemnis e alla Nona Sinfonia di Beethoven come contralto), una volta giunta in Italia si era caparbiamente costruita un registro acuto che, a seconda di questi tutte le descrizioni dell’epoca, era spessissimo recalcitrante e prodotto più che altro da un’enorme forza di volontà. Una lettura anche superficiale dei ruoli scritti appositamente per lei rivela che la sua nota acuta preferita doveva essere il La naturale; certo, non mancano neanche qui Si bemolli, Si naturali e anche un Do acuto, ma la percentuale di La naturali (qui come in un altro spartito da me recentemente visionato, la Maria de Rudenz) è impressionante. La tessitura è piuttosto centrale e non disdegna di scendere abbastanza spesso in territorio mezzosopranile. Inoltre prediligeva indubbiamente la coloratura di forza a quella di grazia. La vocalità di Jessica Pratt non corrisponde a tali caratteristiche. Il soprano anglo-australiano, com’è ben noto, dà il meglio di sé in ruoli di “ingénue” dalla tessitura acutissima e quindi a prima vista non parrebbe la candidata ideale per una parte come quella di Isabella, donna matura con alcuni momenti di pura vorticosa rabbia; basti citare il momento in cui, prima di venire a conoscenza dell’identità dell’assassino di suo figlio scaglia contro di lui le seguenti parole: “Ch’ei viva all’infamia, ch’ei duri all’esiglio, Che vegga scannati la sposa ed il figlio, Che tutti gli affanni gli spezzino il cor “ ecc., ecc., accompagnate da musica di simile violenza. Detto questo, la Pratt si impegna a fondo e riesce ad esser più che credibile. Vocalmente è all’altezza di ogni tranello, di ogni virtuosismo (e sono molti) con cui Vaccaj semina la parte, colpendo soprattutto per la facilità dei trilli ascendenti, che qui sono particolarmente comuni. Ovviamente soprattutto nelle cadenze cerca di portare l’azione su un terreno a lei più consono con svolazzi in acuto e puntature all’ottava superiore che la portano fino al Mi bemolle, penetrante e sicuro come suo solito. Con un soprano di tale facilità virtuostica risulta incomprensibile come mai si sia deciso di tagliare il daccapo della cabaletta del primo atto e parte del rondò finale, momenti che la Pratt avrebbe potuto abbellire sfruttando le sue armi migliori. Oltre ad agilità e sovracuti, la Pratt si lascia ammirare per la bellezza delle mezze voci e dei pianissimi, particolarmente frequenti nella cavatina e nel duetto con la figlia. In poche parole, una prestazione di primissima classe in un ruolo non particolarmente congeniale.
Molto buona la prestazione del Brno Classica Chamber Choir. Antonino Fogliani, alla guida dei Virtuosi Brunensis, dimostra ancora una volta la propria affinità per questo tipo di repertorio, nella levità di certi accompagnamenti, nel rispetto delle dinamiche e nella fantasia con cui introduce lievi cambi di tempo all’interno di strutture che altrimenti potrebbero risultare ripetitive e noiose, nel rilievo dato a certe espansioni liriche, e alla serratezza e tensione dei passi più drammatici. Inoltre sa come accompagnare i cantanti cercando di aiutarli quanto più possibile, anche se a volte è fatica sprecata. Delude invece per aver quanto meno avallato una nutrita serie di tagli in puro stile anni ’50; taglio del daccapo della cabaletta del soprano e di quella del baritono, del daccapo delle stretta del Finale Atto Primo, della seconda parte del duetto Beatrice/Emanuele, della seconda parte del rondò finale della protagonista, oltre a piccole sforbiciate di taglietti interni, a volte di una manciata di battute. Insomma, un lavoro di macelleria che nemmeno Gavazzeni o Serafin si sarebbero sognati di fare, completamente inaccettabile nell’anno di grazia 2009 (e in un Festival di ambizioni filologiche per di più) e soprattutto in un’opera completamente ignota e che molto probabilmente rimarrà conosciuta soltanto in questa veste.