Roma, Auditorium “Parco della Musica”, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, stagione 2013-2014
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Antonio Pappano
Violoncello Sol Gabetta
Francesco Antonioni: Gli occhi che si fermano
Edward Elgar: Concerto per violoncello e orchestra in mi minore op. 85
Antonín Dvořák: Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95 “Dal Nuovo Mondo”
Roma, 11 febbraio 2014
Fin da una prima occhiata al programma del concerto, la mano di Pappano si scorge chiara: una paratassi di brani, con un’ouverture affidata alla musica contemporanea, seguita da un concerto per solo e orchestra e culminante ─ dopo l’intervallo ─ in una sinfonia. Un format studiato e di successo sicuro.
Apre il concerto una composizione contemporanea, Gli occhi che si fermano (2009), ispirata al teramano Francesco Antonioni dalla lettura di un romanzo di Marías, Tu rostro maana. Pappano ─ come sovente fa ─, microfono in mano, spiega le caratteristiche del brano, per poi andarlo a dirigere. Antonioni è un compositore raffinato: l’inizio del brano, in un’atmosfera da mistero data dalla febbrile nota all’unisono degli archi e dal frullo dei flauti (un uso insolito dello strumento), conferiscono un abbrivio elettrico al pezzo, che cresce e decresce più di una volta, come fosse una pulsazione musicale. Sugli archi che tengono per lo più note fisse, i legni disegnano figurazioni melodiche, sul glissando degli ottoni ─ l’allure compositivo risente di lezioni eterogenee, da Debussy, passando per Stravinskij, giù fino a Hans Werner Henze, di cui Antonioni è stato assistente. Il tutto termina in un crescendo di percezione sonora che culmina in un tripudio ritmicamente ostinato di figurazioni velocissime degli archi e di frammenti schizofrenici degli altri strumenti. La vena compositiva di Antonioni risente profondamente della classicità: l’impiantito del brano, lo scheletro è di fatto classico, con sperimentazioni tonali ─ è vero ─, ma pur sempre rifuggente dalle aspre dissonanze di tanta musica novecentesca. Pappano conduce lasciando cantare il brano stesso: il pubblico apprezza e applaude divertito la salita sul palco di Antonioni stesso, che viene a prendersi un meritato applauso per questa prima esecuzione nei concerti di Santa Cecilia.
Un altro debutto all’ASC segue immediatamente dopo: la bellissima e talentuosa violoncellista argentina Sol Gabetta, classe 1981, esegue il Concerto per violoncello in mi minore di Elgar. Nel suo elegantissimo abito (busto smanicato dorato e gonna setata color panna), la Gabetta mostra la bellezza e il talento di una Musa. Dotata di una tecnica eccellente, sostenuta da una buona musicalità e da un ottimo senso agogico-ritmico, sente magnificamente i passaggi velocissimi, d’agilità, e ha ottimi filati, giocando molto sulla corda; non altrettanto si potrebbe dire della tornitura di alcune note e della capacità di espandere volumetricamente il suono, ma tant’è: gli anni non le mancano per affinarsi. Il concerto è pervaso di un’atmosfera elegiaca, estremamente patetica, ma mai tragica: le figurazioni trocaiche del celeberrimo tema del I movimento ─ la cellula tematica composta da Elgar in ospedale, dopo una tonsillectomia, ben prima che pensasse di utilizzarlo per questa composizione ─ suggeriscono un pianto spontaneo. Per questo, è molto caro a una sensibilità femminile, muliebre: difatti, lo stesso Elgar ne diede due celebri incisioni (1920 e 1928) proprio con una violoncellista, la Harrison; e non ci si dimentichi della versione della du Pré sotto la bacchetta di Barbirolli (EMI, 1967) ─ Barbirolli che, a sua volta, era violoncellista in quell’infausta première del concerto, il 27-10-1919 alla Queen’s Hall. Sol Gabetta affronta i quattro movimenti con grande energia, e le riesce quasi tutto bene: il suo animo femminile si concilia bene col I movimento (Adagio. Moderato). Eppure, è forse più nella tecnica, che nel sentimento, il suo precipuo talento: lo ha mostrato nel Lento. Allegro molto (II movimento) dove agli accordi del violoncello, usato a mo’ di chitarra, fa seguire funambolici passaggi in velocissimo, con una perfetta sgranatura delle note; alla soffusa resa del III movimento, dal carattere schumanniano, si sfrena nel rondò del IV ─ deve combattere anche con qualche riottoso crine rotto dell’archetto ─ e ammiccando all’orchestra con sguardo e movenze da rock star, fa finalmente vibrare quel Guadagnini 1759 (che suono!) nel finale. La direzione di Pappano ha il pensiero all’edizione “filologica” di Elgar, ma il cuore a quella di Barbirolli: e si sente quando espande i momenti musicali, ove Elgar è più asciutto, incisivo, intimista. Alla fine dell’esibizione la Gabetta regala un suo cavallo di battaglia, una composizione per violoncello solo e voce (dando anche prova di saper ben cantare!) del lettone Pēteris Vasks.
Chiude una degna esecuzione della Nona di Dvořák, che fin dal 16-12-1893, quando fu battezzata alla Carnegie Hall, ebbe un successo planetario: all’ASC è di casa fin dal 1905, quando la diresse per la prima volta Pietro Mascagni, che poi la riprese costantemente fino alla sua morte (1923, 1929, 1933, 1935, 1937, 1938 e 1941). Pappano l’ha già incisa con l’orchestra di Santa Cecilia e l’ha eseguita nel 2011 e 2013, anche in tournées. Con raro gusto sincretico, unendo suggestioni musicali boeme e americane (nere e pellirossa), Dvořák scolpisce un capolavoro assoluto: «è lo spirito delle melodie negre e degli indiani d’America che mi sono sforzato di ricreare nella mia nuova Sinfonia. Non ho usato neanche una di quelle melodie. Ho semplicemente scritto dei temi caratteristici incorporando in essi le qualità della musica indiana, e usando questi temi come mio materiale, li ho sviluppati servendomi di tutti i moderni mezzi del ritmo, del contrappunto e del colore orchestrale» (Dvořák in un’intervista al New York Herald). Pappano è un conoscitore profondo della partitura: la resa sonora è sontuosa, d’effetto. Sono diversi i momenti in cui apre i polmoni dell’orchestra: nel I movimento, il rullo del timpano con il trillo tremulo filato dei violini, cui seguono le figurazioni ripetute dei legni, frammenti estremamente lirici e di un gusto primitiveggiante, arcaico; nel II, il lirico assolo del corno inglese, dalla potente semplicità, ma evocante tutta l’immensità delle praterie americane, mediante un linguaggio dal sapore pastorale; o, nel III, la trascinante danza dei legni che ricordano gli indiani d’America lanciati in danza attorno ai loro fuochi (gli archi glissanti in scale); e il magnifico, potente finale (IV), dove la texture sonora ripercorre tutti i temi. Pappano è lì concentrato, teso, non avendo ancora fatto risuonare l’ultimo accordo, che già è invaso di meritati e generosi applausi. Foto Riccardo Musacchio & Flavio Ianniello