Giorgio Battistelli (n.1953):“L’Imbalsamatore”. Monodramma giocoso da camera. Riccardo Massai (Miscin – attore), Marco Angius (direttore). Icarus Ensemble. Registrazione: Reggio Emilia, “Spazio Icarus”, 5 aprile 2013. T,Time 70′.51 1CD Stradivarius STR33966
Da qui l’ascolto dell’album
Il Mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa a Mosca affascina l’immaginazione dei visitatori soprattutto per l’innaturale conservazione della salma del rivoluzionario, mantenuta intatta dall’imbalsamazione e dalle cure periodiche a cui è sottoposta. Renzo Rosso ha scritto un monologo, affidandolo al personaggio ritenuto responsabile di tale perpetuazione del corpo: l’imbalsamatore Miscin, un depresso professionista, schiacciato dalla nomenklatura sovietica, abbandonato dalla moglie Irina, costretto a riversare i suoi malumori e le sue frustrazioni sul cadavere di Lenin che deve preservare immutabile, forse per l’eternità. Giorgio Battistelli ha musicato non il testo (perché l’intenzione non era quella di avvicinarsi al melodramma) bensì lo spirito del testo pronunciato da Miscin; ne è scaturito un “monodramma giocoso”, in cui unici personaggi sono la voce dell’attore, i timbri e i ritmi strumentali.
Miscin è di per sé un carattere inevitabilmente proiettato verso il monologo, dato che il suo interlocutore è un cadavere. Né l’ensemble orchestrale può essere considerato “personaggio dialogante”, poiché è piuttosto l’emanazione strumentale degli umori e delle parole, violente e sarcastiche, del protagonista (e in questo si giustifica l’aggettivo “giocoso” che sulle prime lascia attonito l’ascoltatore). Non un commento, quindi, ma un’autentica trasposizione degli affetti, dei turpiloqui, delle imprecazioni dell’imbalsamatore, che ripercorre la storia biografica di Lenin, le sue contraddizioni, il fallimento sostanziale della rivoluzione bolscevica (confrontato, per esempio, con il fallimento esistenziale dello stesso Miscin).
L’imbalsamatore si apre su di un cupo pedale, punteggiato da secchi rulli di tamburo, squilli di ottoni ed esclamazioni spossate di un gruppo vocale sullo sfondo. Dopodiché prende la parola Miscin, lamentandosi per l’aria condizionata e per la mancanza di una buona birra. A un tratto, si fa strada il motivo che diventa conduttore: un nuovo farmaco, in grado di preservare la salma di Lenin, ma allo stesso tempo di conferire morbidezza ed elasticità ai tessuti ormai consunti (e persino preda di qualche spaventoso verme): «renderlo più elastico, più duttile». Anche la musica raggiunge una temperie diversa: esprime la smania di un progetto grandioso, folle, ma convinto ed esaltante. Ed ecco perché si moltiplicano gli squilli degli ottoni, gli sberleffi dei fiati, le frasi ascendenti e gli accordi assertivi. Crescono le vibrazioni degli archi e le progressioni delle percussioni; a tratti bene isolati, l’orchestra irrompe con frammenti di fanfara che paiono tolti da una sinfonia di Šostakovič, di quelle più apparentemente devote al regime stalinista che incombe; attimi riconducibili a una sorta di “ispirazione russa” cui il compositore indulge, ma con mano severa e misuratissima. Musica cinica, greve nelle enunciazioni e nel gusto circense (ancora gli spettri di Prokof’ev e Šostakovič), “tanatofila” – si vorrebbe dire – come in altre composizioni di Battistelli (Frau Frankenstein del 1993 o il più recente Coro di morti del 2011).
Dell’ampio e articolato testo di Rosso, la parte più drammatica ed efficace sembra quella in cui l’effetto sbagliato del presunto farmaco si fa improvvisamente sentire: le membra del cadavere di Lenin si dissolvono una per una, trasformandosi in sabbia, determinando lo sconcerto del già squilibrato scienziato. Ma è la realtà, quella dell’allucinato imbalsamatore, che alterna lucidità dell’analisi a grido esasperato e imprecazione convulsa? Oppure è l’incubo di un ubriaco, distrutto dalla vodka e dalla degradazione in cui è sempre vissuto? È forse l’ultimo brutto sogno di un portatore di morte, una sorta di «appestato» del regime, come la spietata moglie Irina definisce suo marito? L’imbalsamatore di Battistelli è un piccolo inno alla dissoluzione, al sensus finis: Miscin si inietta nelle vene il liquido fissativo per sostituirsi a Lenin sotto la teca di vetro del mausoleo, e prega al telefono la moglie Irina di aiutarlo nell’impresa, mentre i muscoli iniziano a contrarglisi e irrigidirsi, impedendo alla fine l’articolazione dei suoni e dei pensieri.
Riccardo Massai è l’«animale inquieto e sospettoso» (secondo la definizione del libretto) che riversa sul pubblico un discorso ininterrotto, un fluire di disperazione personale e politica, il centro bipolare del lavoro di Rosso. L’attore riesce a variare così bene le proprie intonazioni, seguendo le bizzarrie del testo, da mantenere alta la tensione del monodramma per più di un’ora: ogni parola è sempre perfettamente comprensibile, ma al tempo stesso priva di affettazione o di emissione caricata (che renderebbe il monologo insopportabile dopo appena un quarto d’ora); straordinario il finale, in cui le parole dell’attore si deformano – restando però percepibili – come sciolte da un liquido musicale particolarmente corrosivo. Parimenti Angius cesella la nettezza del suono orchestrale, che risalta ottimamente calibrato rispetto all’unica voce nella perfetta registrazione: terrificante, acida e mortifera come i reagenti dell’imbalsamatore.