Istituzione Universitaria dei Concerti, Stagione 2013/2014, Aula Magna de “La Sapienza” Università di Roma
Pianoforte Michele Campanella
Fryderyk Chopin: Ballata n. 3 in la bemolle maggiore op. 47; Trois Valses Brillantes op. 34, n. 1 in la bemolle maggiore, n. 2 in la minore, n. 3 in fa maggiore; Ballata n. 1 in sol minore op. 23
Franz Liszt: Mephisto Valse n. 4; Valse-Improptou; Ballata n. 2 in si minore; Valse Oubliée n. 4; Valse de l’opéra Faust de Gounod
Roma, 18 febbraio 2014
Un recital pianistico che regali un florilegio di composizioni tanto belle, quanto classiche, è oggi, paradossalmente, più unico che raro. L’estrema ricerca del desueto, dell’insolito, che caratterizza la corsa frenetica di interpreti e impresari alla composizione meno nota di un celebre autore, o a una di un autore magari meno noto, fa scoprire di certo qualche rara perla e ha il pregio di non cadere in tautologie. Ma, sovente, non ti lascia uscire dalla sala col cuore in gola.
E col cuore in gola, con la lacrima sul ciglio, a me è capitato di uscire dal concerto di Michele Campanella: non solo perché ha scelto pezzi di Chopin e Liszt, suonandoli divinamente, ma anche perché ha scelto pezzi di Chopin e Liszt famosissimi, inflazionati fino al midollo, interpretati dai migliori pianisti di tutto il globo, di quelli che basta una sola nota per riconoscerli. Il peso di più di un secolo di stratificazione d’interpretazioni, che diviene tradizione per nutrire nuove interpretazioni, rende il compito assai arduo, titanico. Ma Campanella, lungi dal tentare una scalata della montagna interpretativa, propone una gita sui suoi pendii, un’amena passeggiata; del resto Campanella, pianista sì blasonato, vecchia scuola italiana, ma lontano dai riflettori sotto cui si beano tante piano-stars moderne, propone ─ sul limitare della sua più che quarantennale carriera ─ un pianismo senza pretese magniloquenti o altezzose retoriche interpretative, mirato all’unico piacere di leggere un brano quasi solamente per il gusto di farlo ─ e arrivati a tali livelli d’interpretazione, è un’azione assai igienica, che non stupisce in una mente il cui smalto appare ancora brillante.
Il concerto, che propone una sorta di virtuale battaglia tra due compositori, tra loro contemporanei, passati alla storia per le loro composizioni pianistiche (dacché il titolo Chopin vs. Liszt: La Battaglia), è già stato rodato in altre sedi; e, com’è tradizione alla IUC, Campanella dà una breve ma pregna spiegazione delle sue scelte. Parte, significativamente, da una frase di Thomas Mann, contenuta nel libro Considerazioni di un impolitico: «la bellezza è nostalgia». La bellezza per Chopin ─ dice ─ è nostalgia di una pura, edenica felicità vissuta in un’infanzia polacca mitizzata e idealizzata, tradotta in una musica assoluta, autentica nostalgia di un bello classicamente perfetto: lo si coglie nell’enigma romantico di ballate così narrative, eppure che non si lasciano svestire, non mostrano il loro più intimo programma musicale, il loro referente narrativo; o di valzer incistati di un languore danzante. Liszt, al contrario, trasfonde in musica tutto il suo sangue, la sua cultura, arrivando a concepire programmaticamente il sublime-orrido romantico: così si spiega il beffardo satanismo della Mephisto Valse n. 4 o della Valse de l’opéra Faust de Gounod, una trascrizione diabolica e grandiosa di una valzer gounodiano. Chopin e Liszt, nati a un anno di distanza (rispettivamente nel 1810 e 1811), si conobbero, si stimarono ma poi si allontanarono, quando Chopin preferì un aureo ritiro alla frenesia musicale di quella Parigi crogiolo di arti. Dopo la morte prematura di Chopin (1849), Liszt ─ asserisce Campanella, che dell’ungherese ha fatto una ragione di vita ─ cominciò a ingentilirsi e a comporre capolavori assoluti (come la Valse Oubliée).
Campanella apre il concerto con Chopin, la Ballata n. 3; lascia cantare il brano, con un tocco pacato, ma mai opaco, soprattutto nell’immortale tema-cuore, “barcaroleggiante”, del brano; nella successiva sezione più virtuosistica è acquatico nelle veloci scale (mi ha ricordato il tocco ingemmato di Alfred Cortot), calcando forse un tantino con la sinistra: eppure, non indulge malinconicamente come fece Rachmaninov (abbiamo la fortuna di possedere incisioni d’epoca), ma è più vicino alla poetica di un Horowitz. Parimenti è notevole la sua interpretazione delle Trois Valses Brillantes op. 34: il primo, così energicamente coreutico, ricco di quei ritardando e rubando che rendono la musica di Chopin immediatamente distinguibile (risulta virtuoso nei salti e nelle scale), tanto messi in evidenza dal tocco di Benedetti Michelangeli; il secondo, melanconicamente arcadico, lunare, lo affronta con una magnifica sensibilità agogica, che ne risalta persino venature sanguignamente sentimentali ─ sulla scia di Richter; nel terzo è da lodare per il districamento di quelle edere di gruppetti e fioriture, di ogni tipo, che decorano la ritmata melodia. Termina la sezione chopiniana con la Ballata n. 1, vera pietra miliare della storia della musica, che legge senza particolari affettazioni, godendola più che facendola godere (per alcune scelte m’è sembrato, a orecchio, vicino al pianismo da virago della Argerich: guarda di lontano, con ammirazione, anche alla perfezione di Rubinstein, forse in assoluto il miglior interprete del brano): molto brillante nel finale. Dopo l’intervallo passa a Liszt e, per marcare la sua abilità di poliedrico interprete, sceglie proprio la sfrenata Mephisto Valse n. 4, martellante, luciferina, intensa (Campanella l’aveva poco prima descritta come la traduzione musicale del male ontologico, della violenza); passa poi alla pacata (reminiscenza di Chopin?), ma tecnicamente mostruosa, Valse-Impromptu; indi la celeberrima Ballata n. 2, potentemente narrativa, che alle marine agitazioni iniziali, alterna momenti paradisiaci, erotici, profondamente in contrasto con la tonalità d’impianto (si minore), fino al potentissimo finale, un gorgo di virtuosismi di scale, che termina in un pacato oblio (la ballata dovrebbe narrare la triste storia degli amori di Ero e Leandro); ancora un intermezzo pacato, meditativo, struggente (la tarda Valse Oubliée), conduce al gran finale, il Valse de l’opéra Faust, dove la fagocitazione del tema del valzer dal Faust di Gounod porta Liszt ancora verso una drammaticità luciferina, che conduce a un finale tormentato e agitatissimo, tradotto in un virtuosismo spericolato.
Un autentico concerto-suicidio, per chiunque non abbia l’esperienza e il gusto di Campanella. Chi vince tra Chopin e Liszt? Teoricamente la musica. Di fatto, per il cuore di Campanella ─ che tenta in tutti i modi di essere imparziale ─, il vincitore è uno: Liszt. Lo sente come non sente Chopin: infatti le composizioni in assoluto meglio eseguite sono la Mephisto, il fenomenale Valse de l’opéra Faust e, soprattutto, la Ballata n. 2, cui tributa la miglior interpretazione della serata. E non lascia il pubblico in delirio senza un bis… anzi tre! Un movimento di Scarlatti, la Toccata op. 7 e l’ eterea Arabesque op. 18 di Schumann. Una sala, che lo ha già visto in passato protagonista, in autentico tripudio, ne saluta l’uscita dopo una fenomenale maratona pianistica.