“Certo, che ho conosciuto D’Annunzio! Anzi eravamo amici; ma a me quell’uomo lì non è mai piaciuto troppo. Però siamo stati amici. Ed ecco come. In un articolo apparso un giorno sul Mattino di Napoli, intitolato «Il Capobanda», articolo alquanto feroce verso la mia persona, era scritto fra l’altro ch’io ero abituato a trattar male il mio prossimo, e che ero facile, da quel perfetto livornese ch’io mi ero, alla più volgare bestemmia; si diceva inoltre che, nell’intimo di casa mia, vestivo sempre di rosso. L’articolo era di D’Annunzio; naturalmente io risposi, controbattendo le sue insinuazioni, e tra l’altro ebbi cura di affermare che ancora non avevo avuto il piacere di conoscere il poeta, ma che solo allora egli mi si rivelava per quel che effettivamente era. «Egli – scrivevo – non veste come me di rosso, ma di elegantissimi abiti alla moda, perché ha la ventura di servirsi di un sarto di Cerignola (Petroni) che paga con cambiali». […]Il dissidio tra il Poeta e me durò alquanto tra la diffidenza, e le reciproche insinuazioni; ma un bel giorno, anche per i buoni uffizi di comuni amici, si cangiò in cordialissima amicizia. Fu quando D’Annunzio mi fece sapere che si sarebbe riconciliato con me ad un pranzo fra amici. Io aderii alla proposta e ci abbracciammo; anzi, la pace fu perfetta anche se, durante il simposio, corsero tra noi alcuni strali intinti nella più frizzante ironia” (Mascagni Parla, cit., p. 100).
Così lo stesso Mascagni raccontò, riportando, con una certa sincerità, offese e battute francamente di cattivo gusto, il difficile e contrastato inizio della sua amicizia con D’Annunzio che, almeno in questa fase, non avrebbe mai fatto presagire una futura collaborazione. Come ricordato dallo stesso Mascagni, il pomo della discordia, che aveva generato il dissidio con D’Annunzio, era stato un articolo del Vate pubblicato sul numero del 2-3 settembre 1892 del «Mattino» di Napoli, nel quale il compositore era definito, in modo offensivo, un musicante che stava attento soltanto alle esigenze del pubblico e si occupava solo di affari. Dopo questo scambio di offese i rapporti rimasero tesi per circa sette anni; la riconciliazione avvenne, infatti, all’indomani della prima rappresentazione di Iris al San Carlo di Napoli il 23 marzo 1899, ma perché i due collaborassero bisognerà attendere ancora circa 12 anni. L’occasione fu data da Parisina, tragedia scritta nel 1902 che l’editore Ricordi aveva proposto a Puccini e a Franchetti perché la mettessero in musica, ricevendo dai due dei rifiuti più o meno secchi. Mascagni, invece, accettò immediatamente la proposta di scrivere quest’opera avanzatagli da un amico comune, come egli stesso ricordò sempre nei colloqui intercorsi con De Carlo:
“Finalmente un amico comune propose che io musicassi un dramma di d’Annunzio e la proposta mi piacque. Il dramma fu Parisina. Era allora il tempo, triste per il poeta, della vendita giudiziaria della Capponcina, e d’Annunzio si trovava in Francia, ad Arcachon. Mi incontrai con lui a Parigi, durante un mio ritorno da Londra, e cercammo di accordarci subito sul lavoro che si sarebbe svolto in comune. Mia prima cura fu quella di ricordare al Poeta ch’io ero per natura alquanto esigente e che non potevo fare a meno, come lo Spontini, di acqua tersa e fresca. Parigi, come altre città del mondo, difettava di acqua, ma d’Annunzio pensò di raccomandarmi a Potin che mi forniva di quanto mi occorreva. Era inverno e per questo mi preoccupai del riscaldamento chiedendone all’amico. Lui, col suo fare trasognato ed ingenuo, mi rispose: «Ci sono le pigne»; ed io di rimando: «Le pigne le hai nella testa». (Ivi, p. 101)
Per lavorare a stretto contatto con D’Annunzio Mascagni prese alloggio in incognito a Parigi, dove si era recato insieme alla figlia Emi; qui nella sua camera, come ricordò lo stesso compositore, c’erano due letti: “uno dei quali serviva ai miei riposi, l’altro a quelli del Poeta quando non avesse potuto recarsi all’albergo, dove aveva preso provvisorio alloggio. E si cominciò a lavorare di buona lena, entrambi alquanto ispirati dal suggestivo paesaggio e dall’atmosfera di tranquillità che ci circondava. D’Annunzio era contento di me ed io di lui. Lui ebbe a confessare un giorno che riuscivo eccellentemente a musicare i suoi versi con lo stesso ritmo con cui egli li recitava. Questa è la miglior prova del suo innato spirito poetico e della musicalità della sua anima. […] D’Annunzio aveva di già composto la sua Parisina qualche tempo prima, ma doveva perfezionarla e terminarla. Aveva voluto, però, che fosse chiamata: libretto in 4 atti” (Ivi, p. 102).
Sempre come ricordato da Mascagni, i due trascorsero dei giorni veramente deliziosi nonostante qualche divergenza di vedute sorta a proposito dei tagli imposti da considerazioni drammaturgico-musicali. D’Annunzio, infatti:
“Non voleva fare tagli perché diceva che l’autore non deve mai tagliare. Ma io tagliai lo stesso e lui se ne ebbe a male; disse che non avrebbe permesso altri tagli, scoppiò un putiferio. Ma intanto lui capiva – perché aveva un finissimo intuito – che io interpretavo alla perfezione le sue creazioni. C’eravamo, anzi, intesi, di chiamare la mia musica «Saggio di espressione musicale della poesia italiana», però lui, di musica, non capiva un’ette. […] A proposito della Parisina, Fraccaroli scrisse un articolo per il «Corriere della sera» accusando il testo dannunziano di eccessiva prolissità, ma, se ben ricordo, io avevo detto a D’Annunzio che la sua tragedia era troppo lunga; così non mi veniva bene. Presi dunque lo spunto dalle osservazioni di Fraccaroli per tornare all’attacco. Ma D’Annunzio duro; anzi un giorno mi invitò a bella posta ad un pranzo al Ristorante degli Italiani per dirmi ancora «Non ti dimenticare che tu mi hai dato la parola d’onore di non tagliare nulla al mio libretto». Un bel giorno venne da me Fraccaroli. In verità era stato mandato da Albertini, per vedere di rendere la Parisina più agile. Gli feci vedere un pacco di telegrammi di D’Annunzio con i quali lui mi proibiva di tagliare. Ma finalmente mi riuscì di spuntarla e tagliai tutto il quarto atto. Questo taglio, da me suggerito, raccolse l’unanime approvazione. Naturalmente più tardi Fraccaroli si vantò di essere stato lui a convincere d’Annunzio e me di sopprimere questo quarto atto”. (Ivi, pp. 103-104). La composizione dell’opera occupò complessivamente 134 intensi giorni e, l’8 dicembre 1912, finalmente il compositore poté lasciare la Francia; l’orchestrazione, alla quale Mascagni attese dal mese di maggio del 1813 ai primi giorni di novembre, si rivelò più lunga e complessa del previsto. L’opera, il 15 dicembre 1913, vide le scene al Teatro alla Scala sotto la direzione dello stesso compositore con un cast costituito da Ernestina Poli-Randaccio (Parisina Malatesta), Luisa Garibaldi (Stella Tolomei), Giuseppina Bertazzoli (Verde), Hipólito Lázaro (Ugo), Carlo Galeffi (Nicolò d’Este), Italo Picchi (Aldobrandino). Per l’occasione il teatro scaligero era gremito di grandi personalità del mondo musicale, tra cui Franco Alfano, Arrigo Boito, Alberto Franchetti, Umberto Giordano, Italo Montemezzi, Riccardo Zandonai e Giacomo Puccini che avrebbe esclamato: «Dicono che io sia finito, ma Mascagni allora è addirittura morto». Se non si può stabilire la veridicità dell’affermazione di Puccini, si può dire che la prima di Parisina non fu salutata da un successo strepitoso; l’eccessiva lunghezza dell’opera, circa 3 ore e 40 minuti che con gli intervalli aveva fatto protrarre lo spettacolo, iniziato alle 20:30, fino all’1:40 di notte, avevano certo nuociuto alla sua ricezione. L’autorevole critico Giovanni Pozza scrisse:“Smodata lunghezza: se questo difetto non è impostato bene, non poteva che pesare sul suono di Parisina. Indipendentemente dal giudizio sul valore intrinseco della nuova opera, anche il più fanatico sostenitore del Maestro non può che esprimere una speranza: tagliare, tagliare, tagliare! “Lo stesso Mascagni, resosi conto della lunghezza, apportò già dalla seconda recita in poi numerosi tagli tra cui l’intero ultimo atto, il postludio del secondo, il preludio del terzo, l’incontro Parisina-Verde e la scena dell’usignolo del terzo. Da quel momento il verbo «tagliare» guida le scelte interpretative nelle moderne riprese dell’opera.
L’opera – Atto primo
L’opera si apre con una breve introduzione strumentale e vocale al tempo stesso che contribuisce ad ambientarla in un contesto rinascimentale. Il palazzo degli Estensi sull’isola del Po è, infatti, il teatro di questo primo atto che, dopo una breve introduzione strumentale, si apre con il lamento della Verde, dama di compagnia di Parisina. Subito dopo quattro cori a cappella, che, entrando prima per contrasto l’uno dopo l’altro e, poi, unendosi in una raffinata scrittura contrappuntistica, intonano uno strambotto sull’amore nel quale l’elemento rinascimentale, caratteristico di questa forma musicale, si carica di simbologie decadenti facendo intuire l’essenza del dramma, costituita dalla sintesi di amore e morte. Ugo d’Este è impegnato in una sessione di tiro con l’arco, ma sbaglia facilmente il colpo, perché probabilmente turbato, come rilevato dal disegno dell’accompagnamento orchestrale in 5/4 estremamente insinuante. Mentre si sente un coro in lontananza, Aldobrandino ed Ugo restano soli sul proscenio discutendo sul turbamento che sembra agitare il secondo e che, a suo dire, è l’espressione della gioia che percorre la sua anima. Anche la madre di Ugo, Stella dell’Assassino, nota nel comportamento del figlio questo stesso turbamento e in un lungo colloquio-duetto, che spesso viene tagliato in alcune parti dai direttori, cerca di comprenderne la ragione. La donna vorrebbe, inoltre, trovare nel figlio un alleato contro Parisina, rea di averle sottratto, per farsi sposare, il suo amante Nicolò d’Este, padre di Ugo. Il coro delle Fanti introduce l’ingresso di Parisina producendo un immediato turbamento in Ugo che vorrebbe fuggire di fronte alla matrigna dalla quale si sente irresistibilmente attratto. Da parte sua, Stella, lungi dall’idea di fuggire, prorompe in una violenta invettiva contro Parisina (Parisina Malatesta). Un Villereccio strumentale e una Pastorale vocale, intonata da un coro a cappella, introducono Nicolò d’Este che, del tutto ignaro di quanto sta avvenendo, si rivolge alla donna amata, che lamenta il comportamento ostile di Stella, e ad Ugo che, ancora visibilmente turbato, decide di andar via da quella famiglia in cerca di pace. Un malinconico coro di Fanti, a cui risponde un violoncello solista, conclude l’atto.
Atto secondo
Nel secondo atto la scena si sposta all’interno del Santuario di Loreto, dove il suono dell’organo introduce una semplice Ave Maria intonata da Tre Donzelle alle quali, poco dopo, risponde un coro maschile che, accompagnato dall’organo, si produce in una Laus virginis in latino. Al coro si uniscono dei marinai che si rivolgono alla Madonna chiamandola Stella del mare dando origine a un passo che, oltre a distinguersi per la raffinata scrittura contrappuntistica, si segnala per l’accurata ricerca timbrica nella parte orchestrale. Nel Santuario Parisina, alla ricerca di conforto nella fede e di aiuto da parte della Madonna, alla quale offre dei doni, mostra, invece, il turbamento della sua anima attraverso una scrittura che indugia nel registro medio-grave della sua tessitura esprimendo così il peso che l’opprime interiormente. In questo momento non è capace dello slancio con cui La Verde, con lei nel Santuario, inneggia all’amore accompagnata dall’arpa, mentre la ripresa dell’Ave Maria, da parte delle 3 donzelle, produce un contrasto stridente tra il luogo di culto e Parisina presa da pensieri mondani e soprattutto da quello della morte per amore. Il suono di alcune buccine annuncia l’ingresso di Aldobrandino ed Ugo d’Este, il quale, da vero tenore eroico e reduce dalla battaglia che lo ha visto vincitore contro i corsari, si presenta con un grido di Vittoria. Nel frattempo un coro intona in latino una Salve Regina ricordando il luogo in cui si sta svolgendo l’azione. Nel lungo duetto, del quale sono tagliati alcuni passi nell’edizione in ascolto, si apprende che Ugo, le cui ferite reali simboleggiano quelle d’amore che hanno piagato anche Parisina, avrebbe fatto un voto alla Madonna, in base al quale avrebbe combattuto in suo nome per avere in cambio l’amore della sua matrigna; costei, attratta prima dall’eroismo dell’uomo, nel momento in cui questi racconta l’infuriare della battaglia (Ho cobattutto), lo respinge, poi, in un passo concitato chiedendogli di combattere contro l’insana passione identificata, secondo un’espressione tipica dannunziana, con il Nemico, personificazione di una forza che invade l’uomo. In stridente contrasto con l’infuriare delle passioni un coro riprende la Salve Regina cercando di riportare la situazione scenica all’innocenza che il luogo sacro dovrebbe ispirare, ma il concitato intervento di Parisina, a cui Ugo risponde con presagi di morte, impone di nuovo il dramma. Nonostante il luogo sacro i due si abbracciano e si baciano appassionatamente e come recita la didascalia: L’uno accanto all’altra, senza disgiungere le labbra e le braccia, s’allungano nel letto dell’ombra per giacersi e morire. Mentre i due si amano, l’orchestra riprende alcuni temi caratteristici dell’atto in una commistione di sacro e profano che assume contorni misteriosi grazie all’accordo di settima di quarta specie irrisolto con cui si conclude in pianissimo l’atto.
Atto terzo
Nella sua stanza, all’interno del palazzo Belfiore, Parisina è ormai completamente sconvolta e, nella sua mente non più lucida, immagina, in una lunga scena tagliata in alcuni punti, di rivivere la tragedia di storiche amanti infelici, come Isotta o Francesca da Rimini. Qui nella parte orchestrale un tema ascendente con intervalli cromatici di vaga ispirazione wagneriana rappresenta la passione che sconvolge la donna. Giunge Ugo visibilmente tormentato (Parisina, Parisina) che dà vita insieme alla donna a un lungo duetto, di cui vengono tagliati alcuni punti nell’edizione in ascolto. Parisina, ormai sconvolta dall’amore, intona, come una novella Isotta, un inno alla notte e subito dopo in una pagina estremamente tenera (Prendimi sulla tua spalla) chiede al suo Ugo di rapirla e di condurla nella foresta come Isotta la Bionda con la quale la donna sembra ormai totalmente essersi identificata. Su alcuni accordi dell’arpa Parisina intona un canto adatto all’atmosfera medievale evocata dalla leggenda di Isotta, mentre il flauto solista sembra dar voce all’usignolo il cui verso la donna immagina di ascoltare nella foresta dove spera di essere trasportata dall’uomo amato il quale risponde con tutta la sua passione. Un inquietante accordo di mi bemolle minore infrange, però, il sogno che i due amanti stanno vivendo. La Verde, infatti, annuncia che sta per arrivare Nicolò il quale, insospettito dal comportamento della dama di compagnia, entra senza indugi nella stanza alla ricerca dell’amante di Parisina. Dopo una ricerca concitata Nicolò scopre l’identità dell’uomo che si intratteneva con la propria moglie e resta talmente sorpreso, nel riconoscere Ugo, che, inizialmente, non riesce quasi più a cantare (Se raccattai) indugiando su una scrittura piena di ribattuti. Solo dopo, nel colmo della disperazione, dà sfogo ai suoi sentimenti attraverso un lirismo franto e angoscioso. Non più tremante Parisina, in una pagina piena di calore, attribuisce a se stessa la colpa di quanto avvenuto cercando di scagionare Ugo il quale, da parte sua, con gli empiti tipici del tenore eroico, si assume la responsabilità del tradimento. Per i due amanti la condanna è già scritta e viene pronunciata in tono oracolare da Nicolò (Abbian l’istesso ceppo), mentre i due amanti si chiamano reciprocamente in un indissolubile legame di amore e morte.
Atto quarto
Nelle tetre segrete della Torre del Leone, dove sono rinchiusi Parisina e Ugo, cupi violoncelli sembrano disegnare quel luogo pieno di dolore. I due, che hanno quasi perduto la cognizione del tempo, si producono in un romantico duetto Non odo più nel quale i suoni acuti degli strumenti proiettano Parisina ed Ugo in un mondo spirituale lontano dalla triste materialità che sembra imprigionarli ancor più delle segrete estensi. Un lirico tema, che sembra rappresentare l’amore che lega ormai Parisina e Ugo, conclude il duetto. Nelle segrete, per confortare il figlio, giunge la madre, Stella dell’Assassino, che, non ricevendo risposta da Ugo, disperata e in preda a una profonda agitazione, prima si scaglia contro Parisina, poi, la prega perché glielo renda per un momento affinché possa piangere su di lui. Parisina, da parte sua, risponde serena (Vedi, non io lo serro), in una scrittura intrisa di tenero lirismo su un semplice accompagnamento accordale che sembra mettere a nudo l’animo della donna, dicendo che non è lei ad avvincerlo. Parisina, alla fine, chiama Ugo perché egli risponda alla madre, ma l’uomo, che sembra ormai distaccato da tutto, sente solo le sue sofferenze. Ormai è giunto il momento dell’esecuzione per Ugo che muore gridando il nome di Parisina.