Teatro Malibran, Stagione Lirica del Teatro La Fenice 2013/14
“LA SCALA DI SETA”
Farsa comica in un atto
Libretto di Giuseppe Foppa dall’opéra comique L’échelle de soie di Eugène de Planard
Musica di Gioachino Rossini
Dormont DAVID FERRI DURÀ
Giulia IRINA DUBROVSKAYA
Lucilla PAOLA GARDINA
Dorvil GIORGIO MISSERI
Blansac CLAUDIO LEVANTINO
Germano OMAR MONTANARI
Direttore Alessandro De Marchi
Regia Bepi Morassi
Scene, costumi e luci Accademia di Belle Arti di Venezia
Venezia, 17 gennaio 2014
Va in scena in questi giorni al Teatro Malibran di Venezia La scala di seta, farsa comica in un atto di Gioachino Rossini su libretto di Giuseppe Foppa, tratto dall’opéra comique L’échelle de soie di Eugène de Planard. Prima rappresentazione: 9 maggio 1812 a Venezia, al Teatro Giustiniani di San Moisè. Terza delle cinque farse composte dal ventenne Rossini per il teatro veneziano tra il 1810 e il 1813, La scala di seta costituisce il quarto appuntamento del progetto «Atelier della Fenice al Teatro Malibran», continuando un’iniziativa volta ad offrire ai migliori giovani allievi dei principali istituti cittadini di formazione artistica – Accademia di Belle Arti e Conservatorio Benedetto Marcello in primis – l’occasione di esprimersi artisticamente e formarsi professionalmente attraverso un lavoro di realizzazione teatrale concreto e di alto livello.
Continua, dunque, il progetto, coordinato da Bepi Morassi, che ha come primo obiettivo la messinscena delle cinque farse giovanili rossiniane, chiamando in causa alcuni importanti registi italiani e affidando la realizzazione di scene, costumi e luci agli studenti della Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. L’allestimento della Scala di seta – che fa seguito a quelli dell’Inganno felice, dell’Occasione fa il ladro e della Cambiale di matrimonio, proposti rispettivamente nel febbraio 2012, nell’ottobre 2012 e nel marzo 2013 – prevede inoltre il coinvolgimento dell’Orchestra e degli studenti delle scuole di canto del Conservatorio Benedetto Marcello, sotto la direzione di Maurizio Dini Ciacci, che si alterneranno in alcune recite all’Orchestra del Teatro La Fenice e alla compagnia di giovani interpreti formata dalla direzione artistica della Fenice nell’ambito dell’Atelier Malibran.
Venendo allo spettacolo, la scena (fissa) realizzata per La scala di seta – costituita da una grande stanza finemente arredata con grandi finestre coperte da pannelli rettangolari semitrasparenti a motivi geometrici, che imitano la struttura di una scala – fa pensare ad una suite di grande albergo americano del periodo degli Anni Ruggenti e allo sfarzo scintillante di Broadway, con tanto di ascensore (che arriva poco realisticamente fin dentro la camera), valletti con la tipica divisa e il cappello cilindrico, giornalisti e paparazzi, oltre a ceste di fiori rossi e bianchi per omaggiare la diva (Giulia). Manco a dirlo, il suo tutore è una sorta di gangster, perennemente attorniato da girl adornate da piume di struzzo. Anche i bei costumi colorati sono tipicamente legati a quel periodo così come le movenze dei personaggi si richiamano al mondo della rivista d’oltreoceano con qualche impertinente roteare di fondoschiena. Una scelta tutto sommato indovinata – per quanto il libretto prescriva un’ambientazione nelle vicinanze di Parigi – che ha avvolto la vicenda, non proprio di sconvolgente originalità, in un’aura da sogno americano.
Sotto il profilo musicale l’opera ha rivelato fin dalle prime battute il fascino e la raffinatezza, che la caratterizzano, grazie ad un’esecuzione attenta e sorvegliata. Nella Sinfonia, piccolo grande capolavoro di freschezza inventiva, basato su una lenta Introduzione seguita da un Allegro bipartito, si è apprezzato il bel suono dei legni e, rispettivamente dei violini, oltre all’incredibile maestria ed originalità di un Rossini – come si è ricordato – appena ventenne, che riesce a riscattare col suo genio precoce quelli che avrebbero potuto essere meri elementi tradizionali del genere buffo, quali ad esempio il canto sillabato. Il direttore Alessandro De Marchi, ha dimostrato, fin da questo brano iniziale, quel senso della misura che, peraltro, ha contrassegnato l’intera esecuzione, nel corso della quale il maestro è riuscito a coniugare la verve che emana da queste pagine con l’attenzione per i particolari e le esigenze del canto, senza mai eccedere in concitazioni ritmiche esasperate. Una lettura che – se ha in qualche modo attenuato la travolgente comicità di certe situazioni – ha messo in rilievo le diffuse raffinatezze timbriche quanto il rigore formale che sottende, ad esempio, il quartetto “Sì che unito a cara sposa”, costituito da un canone all’ottava, in cui convivono mirabilmente stati d’animo contrastanti.
Quanto al cast, Irina Dubrovskaya (Giulia) ha sfoggiato una gradevole voce di soprano leggero, omogenea e sfavillante negli acuti, affrontando il proprio ruolo con intelligenza e sensibilità e risultando ineccepibile quanto a fraseggio e agilità, a delineare un personaggio ricco di sfaccettature: arrogante e, quando occorre, civettuola nei confronti di Germano, suo fido servitore, nonché irriducibile spasimante; dolcemente appassionata pensando all’amato Dorvil, che è segretamente suo marito, nell’aria più pregevole dell’opera, “Il mio ben sospiro e chiamo”, preceduta da un incantevole preludietto, in cui domina il corno inglese dialogante con i flauti, interpretata con dovizia di sfumature ad esprimere lo struggimento amoroso; esagitata e pronta all’azione in quella sorta di cabaletta che segue all’aria appena ricordata, all’arrivo inaspettato di Germano, suggellata da un brillantissimo sopracuto. Perfettamente nella parte di Dorvil è apparso Giorgio Misseri, tenore di grazia dalla voce estesa e robusta negli acuti (il tipico tenore rossiniano), che ha affrontato generalmente con disinvoltura l’inerpicata tessitura che connota il suo ruolo, segnalandosi per sensibilità e fraseggio. Basti citare “Vedrò qual sommo incanto” e “Ah se per te m’accendo”. Omar Montanari (Germano), a sua volta, si è fatto apprezzare per una notevole presenza scenica, oltre che per una voce duttile e timbrata, che gli ha consentito di essere a suo agio nei passaggi d’agilità come nei momenti di lirismo (“Amore dolcemente”, intonata alle prese con il ferro da stiro), interpretando la parte del servo sciocco senza mai degenerare in una comicità men che elegante. Convincente anche Paola Gardina, nei panni di Lucilla, anch’ella in possesso di mezzi vocali di prim’ordine, che si è segnalata per leggerezza e candore in “Sento talor nel core”. Proseguendo, Claudio Levantino ci ha opportunamente regalato un Blansac combattuto tra i buoni propositi di fedeltà e il vagheggiamento di un passato dongiovannesco, tra esibite sicurezze ed evidenti ingenuità, seppur non sempre sorretto da una voce di adeguato peso. Un po’ evanescente il Dormont di David Ferri Durà, soprattutto se pensiamo che, nella visione di Morassi, dovrebbe avere la grinta di un gangster o qualcosa di simile. Caloroso successo di pubblico a conclusione della serata.