Bologna, Teatro Comunale, Stagione lirica 2014
“PARSIFAL”
Dramma sacro in tre atti
Libretto e musica di Richard Wagner
Amfortas DETLEF ROTH
Titurel ARUTJUN KOTCHINIAN
Gurnemanz GÁBOR BRETZ
Parsifal ANDREW RICHARDS
Klingsor LUCIO GALLO
Kundry ANNA LARSSON
Gralsritter SAVERIO BAMBI, ALEXEY YAKIMOV
Knappen PAOLA FRANCESCA NATALE, ALENA SAUTIER, FILIPPO PINA CASTIGLIONI, PAOLO ANTOGNETTI
Blumenmädchen – 1°gruppo HELENA ORCOYEN, ANNA CORVINO, ALENA SAUTIER
2° gruppo DILETTA RIZZO MARIN, MARIA ROSARIA LOPALCO, ARIANNA RINALDI
Eine Stimme ANNA LARSSON
Danzatrici Tamara Bacci, Gloria Dorliguzzo, Francesca Ruggerini, Roberta De Rosa, Martina La Ragione, Francesca Cerati, Angela Russo
Shibari / bondage Dasniya Sommer, Frances D’Ath, Bonnie Paskas, Georgios Fokianos
Contorsioniste Anna Pons, Valentina Giolo, Ferewoyni Berhe Argaw
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Roberto Abbado
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Maestro del Coro Voci Bianche Alhambra Superchi
Regia, scene, costumi e luci Romeo Castellucci
Regista collaboratore Silvia Costa
Movimenti coreografici Cindy Van Acker
Coreografia bondage Dasniya Sommer
Drammaturgia Piersandra Di Matteo
Ballerina solista Tamara Bacci (Gref)
Assistente alle luci Daniele Naldi
Video 3D Apparati Effimeri
Allestimento Théâtre de la Monnaie Bruxelles
Bologna, 14 gennaio 2014
Un mondo ormai incapace di creare il nuovo sopravvive solo grazie a sacre reliquie ricevute in eredità dal passato. Ma in realtà queste reliquie vorrebbe poterle dimenticare, così da poter morire, una volta per tutte. Questo mondo ha ormai perso fiducia in sé stesso. La salvezza può arrivare solo dall’esterno: solo un individuo che non sappia nulla, che non capisca nulla e che dall’alto della sua completa ignoranza abbia compassione di questo mondo corrotto e moribondo, solo un “puro folle” può portare la redenzione. Questo è il soggetto del Parsifal di Wagner, espressione potente di quel tipico ripiegamento fin-de-siècle della cultura occidentale, di quello stesso complesso di colpa e di cupio dissolvi e quella stessa speranza di rinnovamento nell’oblio e nella follia, che ha partorito il decadentismo e l’avanguardie, gli anti-eroi di Thomas Mann e Kafka come il superuomo nietzschiano, Il tramonto dell’Occidente di Spengler come il dadaismo e il surrealismo.
Ed è anche una metafora perfetta del mondo dell’opera lirica oggi. È un tipico segno di senilità (e figura ricorrente dell’immaginario decadente) quello di cercare l’illusione di una nuova vita facendosi strapazzare da qualche giovane ninfetto/a. Questo è appunto l’atteggiamento della vecchia signora per eccellenza della cultura, l’opera lirica, che invece che accettare i propri anni e condividere con il mondo la sua esperienza, cerca di dimenticare il passato e si rende ridicola in folli nottate in discoteca insieme a “giovani registi d’avanguardia” (che non sono poi quasi mai giovani e non possono essere d’avanguardia perché il concetto stesso di “avanguardia” è ormai morto e sepolto da un pezzo), la cui certificazione di autenticità deriva appunto dall’essere totalmente estranei al proprio mondo e di non sapere e non capire nulla, precisamente come Parsifal. Che cosa dovrebbe fare colui che ama l’opera? Condannare questa follia temendo che la nonna sperperi in questa folle unione tutta la sua eredità o essere grato al brutale giovinetto per quegli improbabili attimi di ebbrezza che avrà potuto regalare all’ava moritura? La risposta dipende anche dalla diagnosi che si fa dello stato di salute dell’opera lirica. Sono i titoli scritti nel Sette-Otte e Novecento che hanno bisogno di redenzione? O non è piuttosto la forma dell’opera lirica che ha bisogno di guarire dalla sua sterilità? Il “regista d’avanguardia” è invocato come un redentore che risusciti e imbelletti manufatti del passato, indecenti nella loro vecchiezza, per adattarli al gusto odierno, come i peni di plastilina fatti applicare da Berlusconi sulle statue romane. Ma ci si guarda bene invece dal creare opere nuove, che siano integralmente moderne. Come per Klingsor, non è forse la sua auto-castrazione, l’incapacità e la riluttanza di creare nuove opere la vera causa della decadenza? Se le avessimo prodotto dei nipotini, forse la vecchia signora avrebbe qualcosa di più gratificante da fare che non fingere grottescamente di essere una ragazzina.
Abbandoniamo la bizzarra metafora e lasciamo alla riflessione del lettore questi interrogativi sulla decadenza e redenzione del melodramma in generale. Concentriamoci sul Parsifal, opera appunto decadente sulla decadenza e sulla redenzione (ma redenzione di che? dell’individuo? dell’Occidente? della razza? del cristianesimo? del sacro?). Ha bisogno essa stessa di essere redenta? Come messianico redentore si propone senza alcuna ritrosia il regista (che firma anche scene, costumi e soprattutto luci) di questo spettacolo creato per La Monnaie di Bruxelles e ripreso a Bologna per celebrare il centenario dalla prima rappresentazione italiana, avvenuta in contemporanea a Bologna e Venezia il 1 gennaio 1914. Romeo Castellucci, guida dello storico gruppo d’avanguardia degli anni ’80-’90, la Socìetas Raffaello Sanzio, idolatrato in tutti i festival di teatro contemporaneo d’Europa, esordisce così nella sue note di regia sul programma di sala: “Ho cercato di dimenticare tutto quello che si sapeva. Mi sono posto nelle condizioni di chi non sa nulla. Allora ho chiuso gli occhi e ho ascoltato una volta, venti volte e poi cento volte questa musica, questa cosa. E poi ancora. Ho dormito. Ho rifatto tutto il Parsifal in una mente di amnesia, dall’inizio alla fine.” Magari a qualche miscredente verrà fatto di chiedersi: “Perché dimenticare? Perché rifare?”. Naturalmente la vera risposta è che, essendo regista d’avanguardia, questo è quello che il mercato si aspetta da lui. Ma Castellucci prova a darne una ragione più profonda: “Un titolo come questo richiede una visione che nasce dal profondo, che si prende tutto, non una strategia illustrativa. In un certo senso posso dire che per essere fedeli [corsivo di Castellucci] bisogna prima dimenticare [corsivo dell’autore del presente articolo]. Dimenticarsi di Parsifal, perderlo, e poi infine ritrovarlo. Nuovo.”.
A prescindere da considerazioni sul teatro di regia in generale, ognuno dovrà ammettere che Parsifal è un dramma un po’ diverso dagli altri, sia da quelli ad esempio di Verdi che dagli altri dello stesso Wagner. Innanzi tutto non è precisamente un “dramma” nel senso che l’azione vi fa molto difetto. I personaggi sono inconsistenti in sé stessi e non si presentano come psicologie a tutto tondo ma piuttosto come misteriose allegorie di qualcosa che ci sfugge. Come è stato scritto spesso, Parsifal è più affine ad una messa cantata che ad un’opera ed infatti Wagner stesso la chiamò “ein Bühnenweihfestspiel” (“azione scenica sacra” o anche “rappresentazione per la consacrazione della scena”) . Ma quale religione si sta celebrando? Ci sono simboli cristiani (il Graal, la lancia di Longino e la memoria di Cristo stesso), ma sono da prendere sul serio?
Si dà il caso che Wagner, oltre ad avere scritto i testi dei suoi drammi (inclusi alcuni non musicati come il Gesù di Nazareth e l’opera buddhista I vincitori), abbia scritto una mole impressionante di saggi teorici, che si situano a metà fra le note di regia dei registi moderni e libelli politico-filosofici, nelle quali si espongono spesso tesi deliranti che fanno apparire un Casaleggio perfettamente sano di mente. In particolare, negli anni della gestazione di Parsifal, Wagner redasse il saggio “Religione e arte” nel quale si sostiene che l’Arte ha il dovere di riscattare il simboli della Religione, ormai corrotta, per rivelarne le profonde verità nascoste. La decadenza della religione cristiana deriverebbe dall’indebita “infiltrazione” nel messaggio evangelico di elementi della religione giudaica, provenienti dall’Antico Testamento, con cui il cristianesimo vero non avrebbe nulla a che spartire. (Peraltro sarebbe una calunnia che Gesù stesso fosse ebreo.) Oltre a ciò, principale causa della corruzione dell’umanità sarebbe l’allontanamento dalla vera dieta vegetariana. (Secondo Wagner, d’altronde, anche gli animali carnivori lo sarebbero diventati a causa dell’indisponibilità di cibo vegetale in certi periodi della preistoria.) Inoltre, anche se si può sopravvivere benissimo anche al freddo senza mangiare carne, dovremmo tutti trasferirci in climi più temperati, ad esempio il Sudamerica. Eccetera eccetera… Non parliamo poi dell’antisemitismo vero e proprio di Wagner (teorizzato esplicitamente nel saggio Il giudaismo nella musica ed evocato indirettamente in numerosi personaggi dei suoi drammi musicali: Mime, Beckmesser, Klingsor). E questi impotenti Cavalieri del Graal, che non alzano un dito per salvare Amfortas e maltrattano Kundry, l’unica figura che cerca di rendersi utile, e si lasciano poi redimere da questo troglodita uomo della provvidenza che si fa incoronare re del Graal… come scacciare dalla mente l’analogia con la ricca borghesia che si disfece delle “pastoie della democrazia parlamentare” e si affidò irrazionalmente a Mussolini e Hitler, nonostante il disgusto che ne provavano?
Nessuno vorrebbe privarsi della geniale musica di Wagner, ma è possibile scindere i suoi libretti dalle sue teorie? In un saggio teorico si può cercare di ricostruire la totalità del pensiero di Wagner nella sua giusta luce, come un interessanti documento storico, e vedere che cosa ci sia di condivisibile e che cosa ci sia di inaccettabile. Ma sulla scena possiamo presentare documenti storici? O non dovremmo forse, come Wagner col cristianesimo, rinnovare questi simboli ed estrarre quella che in essi è la profonda “verità per noi”? Questo è per l’appunto quello che si è cercato di fare in Germania dal secondo dopoguerra ad oggi. Motivati dal giusto senso di colpa storico, i tedeschi sono stati i primi a guidare questo movimento di “teatro di regia”, volto a trasformare o almeno nascondere le simbologie wagneriane e le loro imbarazzanti associazioni, a principiare dall’allestimento di Wieland Wagner alla riapertura del Festival di Bayreuth nel 1951. (È famoso l’aneddoto: il direttore d’orchestra Hans Knapperbusch aveva fortemente protestato contro l’assenza della colomba bianca prevista dal libretto sulla testa di Parsifal alla fine dell’opera e Wieland Wagner ne aveva fatta scendere una con un filo lungo abbastanza perché fosse vista dal direttore ma non dal pubblico.) I tanti critici del “teatro di regia” imperante nei teatri tedeschi (che si è poi esteso anche agli altri autori) dovrebbero almeno tenere a mente il nobile senso di espiazione che ne è alla base.
Se si accetta quindi che non ci siano colombe e reliquie sacre, allora bisogna convenire con Castellucci che tanto vale creare una nuova visione con nuovi simboli che sia organica e coerente in sé stessa. E chi può farlo meglio di Castellucci, i cui spettacoli sono una continua idiosincratica messa laica? (Ricordiamo ad esempio Sul concetto di volto nel figlio di Dio reso famoso dai teo-con perché, come aveva preconizzato la traduzione italiana di Io e Annie di Woody Allen, aveva unito dissenso e teosoteria creando la dissenteria e vi si lanciavano escrementi sulla proiezione di un Cristo di Antonello da Messina) Chi meglio di Castellucci, abituato a rivolgersi ad un settario gruppo di fedelissimi invasati che conoscono a memoria i suoi spettacoli precedenti, può ricreare la magia rituale di Bayreuth? Armato del suo scudo di snobismo e superbia, Castellucci risogna il Parsifal, sostituendo nuove immagini alle vecchie, ma anche introducendone di nuove e cancellandone completamente altre. Lo spettatore si trova così davanti al sogno di un sogno. Si potrebbe obiettare che un regista dovrebbe chiarire, non complicare. Ma che cosa diventa un opera misterica e simbolista come il Parsifal senza misteri e simboli? Si potrebbe obiettare che se psicanalizzare i simboli di Wagner può essere un esercizio interessante, psicanalizzare i simboli di Castellucci sembra una perdita di tempo. Ma d’altra parte la messinscena moderna ci spinge a rileggere il libretto di Wagner e in questa frizione il senso critico dello spettatore ne viene vivificato. Certo, non c’è nulla di immediato: è un’esperienza alla seconda. Ma, date le considerazioni di cui sopra, come può non esserlo un Parsifal oggi?
Naturalmente tutto questo non avrebbe senso se le immagini di Castellucci non funzionassero. E invece, sorprendentemente, per lo più funzionano, un po’ per intuito, un po’ per studio.
Si comincia dal pedantesco. Durante il Preludio, proiettata su un tulle campeggia una foto di profilo di Nietzsche, il quale, da ex-wagneriano, privatamente aveva detto che Parsifal era la composizione musicale più sublime di Wagner e in pubblico aveva più volte dichiarato che era un’opera velenosa che avrebbe ammorbato l’Europa e gridato il suo disgusto per “l’inginocchiamento ai piedi della croce” rappresentato dai suoi simboli cristiani (peraltro molto più cattolici che luterani) e per la sua sessuofobia rappresentata dal rifiuto di Parsifal di Kundry. Per Nietzsche, con Parsifal Wagner era diventato definitivamente tutto ciò contro cui ci si doveva battere: era diventato un tedesco. Anche supponendo che lo spettatore sappia queste cose, messo lì, Nietzsche che dice? Annuncia che questa sarà una regia critica verso Wagner? O che sarà un atto di riconciliazione fra i due? Sotto ad un orecchio della gigantografica proiezione si attorciglia come un pendente liberty il famoso pitone albino, star di questa produzione. A dirci che il veleno wagneriano si insinua per via auricolare? A ricordarci il travestitismo di Wagner, che amava indossare in privato lingerie femminile, e il fondamentale tema dell’androginia del suo teatro e dei suoi personaggi? Quale che sia la risposta, la pedante immagine cozza penosamente col sublime Preludio orchestrale. È pur vero che barba e baffi sono ritornati di gran moda, ma prima che il pubblico odierno possa non trovare ridicoli i baffoni da tricheco di Nietzsche ci vorrà ancora un po’.
Dopo questa falsa partenza, la regia prende il volo con una serie di immagini memorabili che soggiogano il pubblico con il loro virtuosismo tecnico. Vero è che i maggiori successi Castellucci li ottiene quando i suoi sogni coincidono con quelli di Wagner. Mi limito qui a segnalare alcuni tratti al lettore: un’analisi completa di questo spettacolo riempirebbe tranquillamente due ampi volumi. Il famoso cambio di scena a vista previsto nel primo atto tra la foresta e la sala del Graal, dove “il tempo diventa spazio”, come annuncia Gurnemanz, è realizzato nella maniera più spettacolare di tutti i tempi: la lussureggiante foresta (più affine a quella profana che dovrebbe apparire nel secondo atto, in verità, che a quella sacra del primo) si scioglie e, in un tripudio di sceno- e illumino-tecnica finalmente all’altezza della futuribile immaginazione di Wagner, si trasforma in una nebulosa pulsante e rotante intorno ad un buco nero. Purtroppo la fine di questo cambio di scena delude le aspettative: l’idea di Castellucci è che ovviamente il rito sacro sia una messinscena, quindi il teatro si mostra in tutto il suo squallore. Peccato che le decine e decine di figuranti facciano un fracasso d’inferno nel portare via tutti quegli alberelli e che il coro sia relegato (come quasi sempre in questo allestimento) fuori scena, ridotto a mero accompagnamento. Ma quando, al momento dello svelamento del Graal, la scena viene velata da un pio sipario bianco che invita lo spettatore a immaginarsi il rito secondo il proprio senso del sacro, e quando la forma del buco nero viene ripresa dalla ferita di Amfortas che, grazie ad un brillante espediente di luce, si trasforma in un’ombra scura che inghiotte tutto il palcoscenico, non si può non inginocchiarsi al regista. La forma concava e circolare sarà poi quella dello schermo-specchio attraverso cui Parsifal osserva la scena e quindi quella della gigantesca ostia trasparente che scende dopo l’agape sacra.
Dato che la scenografia del secondo atto era già stata utilizzata per il primo, Castellucci sceglie invece per il giardino di Klingsor un ambiente bianco che fa tanto contemporaneo, innaturale, sterile e scientifico, reso ancora più asettico e mortuario da due fregi neoclassici sul fondo. Klingsor è un direttore d’orchestra su un podio, in smoking ma con un grembiule bianco tipo macellaio, intento ad appendere alcune figuranti specializzate nello shibari, pratica sado-maso giapponese che consiste nel legare qualcuno con delle corde di canapa e lasciarlo penzolare in posizioni bizzarre. Evidentemente, poiché è incapace di godere in un modo normale, a Klingsor non rimane che “farlo strano” e distruggere il corpo in pezzi senza senso. L’immagine è trita ma funziona. In tutto l’atto il corpo umano e la sessualità vengono presentati in modo assolutamente non sensuale e terrificante. Il punto di vista è quello allucinato di Klingsor autocastratosi alla ricerca di castità e quello infantile dell’innocente Parsifal. Decisamente non si tratta di una finzione che potrebbe corrompere qualcuno. Le fanciulle-fiore, relegate ancora una volta fuori scena, sono incarnate (si fa per dire) da alcune ballerine piuttosto anoressiche tutte uguali con parruccone ossigenate, che fanno un ballettino totalmente meccanico. Ovviamente Parsifal non se le fila neanche per un istante. Peccato che la musica di Wagner in questo punto voglia invece essere esplicitamente sensuale e seducente. Ancora più mortuaria l’immagine della vagina esibita in stile Courbet da una figurante senza volto sul fondo della scena, fino a quando le sue gambe non vengono richiuse e annodate col filo rosso che già dal primo atto abbiamo associato con il senso di colpa e con la lancia di Longino, strumento che può essere insieme sacro e profano, impiegato da Klingsor per ferire Amfortas e per castrarsi. La concavità della ferita del sesso femminile è poi ripresa dallo scudo-specchio di Parsifal-Perseo che dapprima lo usa per osservare Kundry-Medusa (armata di pitone albino) e infine, acquisita nello specchio l’auto-coscienza, trova il coraggio di fissare il volto della Gorgone senza schermi, immagine questa assai nietzschiana. In questo momento, quando Parsifal rifiuta le avances di Kundry, lo spettacolo tocca il suo culmine di complessità (o confusione?). Si rompe la finzione scenica e l’interprete di Kundry scrive sulla bianca parete di fondo il proprio nome: “ANNA”. È un gesto molto forte. Il rifiuto di Parsifal di congiungersi carnalmente a lei ha offeso personalmente la femminilità di Anna Larsson, che sente il bisogno di affermarsi? La scritta poi viene completata e diventa “ANNA, ME, NOW, TIED”. La scritta se ne sta lì a ossessionare lo spettatore come “Mené, Mené, Techel, U-Parsin” alla festa di Baldassarre. Misteriosa la scelta dell’inglese anziché il tedesco, lo svedese (la lingua madre di Anna Larsson) o l’italiano. Forse Anna Larsson dentro al personaggio di Kundry sta tentando di comunicare con l’americano Andrew Richards dentro il personaggio di Parsifal? La lingua e la sua apparenza telegrafica e sconnessa potrebbe far pensare che si tratti di un anagramma, ma nessuno degli anagrammi che ho scritto sul programma di sala sembra avere un particolare senso. Tra i più interessanti e vagamente congruenti alla situazione: in tedesco “Wotan man dienen”, “Wotan: damen, nein” e in inglese “Dame Antinea won” (un riferimento alla più efficiente eroina dell’Atlandide di Benoit), “Dine, woman, eat” (esortazione alle ballerine anoressiche), “Not new idea, man” (esortazione al regista). Ma a quanto pare, in una prima versione la frase era “Anna, Alone, Now, Tied”, quindi l’ipotesi decade. Perché “Tied”? Un richiamo ai corpi legati da Klingsor? Imprigionata nel personaggio? Sul tulle in proscenio che vela la scena (l’immaginaria parete opposta) viene proiettata l’immagine del brutale amplesso che sarebbe potuto avvenire tra i due, che invece se ne stanno immobili. Ma quale di queste due immagini è la realtà? E quale è la realtà poi? Kundry o Anna Larsson? Insomma, non ci si capisce un accidente. Alla fine l’ostia semitrasparente viene posizionata a coprire il nome di Anna, che viene anche cancellato con la vernice nera.
L’ultimo atto è interamente dominato dall’immagine socialista di una folla in stile Quarto stato di Pellizza da Volpedo, incessantemente in cammino su un tapis roulant. Castellucci comprensibilmente trova fascista l’idea che la redenzione avvenga attraverso un singolo eletto dal signore. La ricerca deve essere collettiva. Anzi, nel momento in cui Parsifal dovrebbe sanare la ferita di Amfortas con la sacra lancia, gli attori sul palco si fermano e si accendono le luci di sala, come a dire che la redenzione il pubblico se la deve trovare da solo. Aiutati che il ciel t’aiuta, come si suol dire. Mentre la musica di Wagner ci dice che l’utopica redenzione avviene, Castellucci che non ha utopie lascia il finale sospeso e insoddisfacente. Sullo sfondo appare l’immagine rovesciata dei brutti grattacieli di una brutta periferia qualunque. La folla si dilegua e Parsifal resta solo in scena a contemplare il rametto verde (l’unico rimasto dal disboscamento del primo atto) che gli è servito da corona. “Lo sguardo tragico sulla bruttezza della città può trasformare l’orrore nell’epifania di una nuovissima bellezza” si legge sul programma di sala. Come dire: dire sì alla vita è possibile, basta avere il gusto dell’orrido. Messaggio condivisibile, ma fortemente dissonante con la musica di Wagner. Conquistato da questa immagine del Quarto stato (che però dopo dieci minuti diventa assai tediosa per lo spettatore) o assalito dalla pigrizia, purtroppo il regista dimentica di mettere in scena il funerale del santo antenato, Titurel, che sarebbe invece molto importante, e ignora il rituale di purificazione di Parsifal. Quanto a Kundry, non sembra essere stata particolarmente annientata dall’esperienza del secondo atto e in quest’ultimo atto compare con una brutta camicia a quadretti da boscaiolo, forse segno che è diventata lesbica. Di certo non si abbassa a lavare i piedi di nessuno. Alla fine guarda Parsifal ma non viene liberata dalla sua estenuante serie di reincarnazioni con la morte. Semplicemente esce di scena insieme agli altri.
Chi ha avuto la costanza di leggere fin qui si dovrebbe essere reso conto che l’opinione sulla riuscita di questa regia dipende molto dalle convinzioni personali di ognuno. Quanto a me, nonostante le numerose asperità e lacune, alcune delle quali segnalate qui sopra, posso dire di avere molto apprezzato e ammirato il lavoro di Castellucci. Con mia grande sorpresa, ne sono stato affascinato. Ha fatto lavorare il mio cervello e mi ha portato ad approfondire ed infine forse ad amare quest’opera al di là della mia diffidenza. Non si può dire che sia stato un successo. Per uno spettacolo come questo, Castellucci o il Comunale di Bologna avrebbero dovuto pagare una claque agguerrita che lo fischiasse sonoramente. Invece al pubblico bolognese, indubbiamente per l’alto magistero scenotecnico e la piacevolezza visiva, questo spettacolo sembra essere piaciuto molto. Poco hanno potuto i “buh” di un paio di contestatori. Niente succès de scandale questa volta. Peccato! Facezie a parte, la cosa preoccupante è che ora Castellucci sarà sempre più richiesto come regista d’opera. A primavera debutterà a Vienna il suo Orfeo ed Euridice di Gluck. Bisogna solo sperare che abbia l’accortezza di guadagnare soldi solo con quelle opere che possono piegarsi alla sua poetica (Flauto magico?) e rifiutare quelle (molte) altre che invece non possono farlo.
Da un punto di vista musicale, l’esecuzione è stata complessivamente buona, anche se non eccezionale. L’orchestra, guidata con prudenza e qualche lentezza di troppo da Roberto Abbado, nipote del compianto Claudio Abbado, non ha esibito un’intonazione inappuntabile in molti accordi (tra cui purtroppo quello finale) e anche il coro, relegato un po’ troppo spesso fuori scena, non è riuscito sempre a trovare un compromesso bilanciato tra potenza e purezza del suono, specie le sezioni maschili. Il cast vocale era guidato dall’eccezionale Gurnemanz del giovane basso ungherese Gábor Bretz, dalla voce autorevole, ma morbida e naturale. Ottima anche la voce di Titurel, il basso armeno Arutjun Kotchinian. Buono il Parsifal del tenore americano Andrew Richards, che è non è impeccabile ma è un tenore normale con un suo normale squillo tenorile, non un qualche finto-baritono con la voce indietro come purtroppo sembra andare di moda oggi tra i “wagneriani”. L’italiano Lucio Gallo è stato un efficace Klingsor, molto aiutato da questa regia, che, come ho espresso sopra, ha ignorato una possibile visione psicologica dei personaggi salvo che nel suo caso. Inspiegabile la scelta di affidare Kundry ad Anna Larsson, mezzosoprano svedese dalla voce chiara ma comunque chiaramente mezzosopranile, famosa per la Erda. I direttori artistici pensano di essere molto intelligenti quanto affidano qualche ruolo da soprano drammatico ricco di note basse ad un mezzosoprano. Ma è inspiegabile che la Larsson abbia accettato una volta a Bruxelles e ancora più inspiegabile che abbia accettato di riprendere il ruolo a Bologna. Nelle parti più liriche e centrali, come il racconto della morte della madre di Parsifal, Herzeleide, la voce è piacevole, ma nei momenti più concitati la voce si sfoca e quando si tratta di ascendere agli acuti come avviene insistentemente nella fine del secondo atto, i La e i Si bemolli sono sbiancati e striduli. Ma vera piaga (se mi si concede il giuoco di parole) di questo cast è stato l’Amfortas del baritono tedesco Detlef Roth, una voce tenorile, priva di note basse e sforzata negli acuti e afflitta da un costante traballamento quale solitamente si osserva nei soprani settuagenari, decisamente non all’altezza del ruolo, nonostante lo abbia interpretate diverse volte a Bayreuth. Senza infamia e senza lode gli scudieri e i cavalieri. Piacevolissime le Fanciulle-fiore (Helena Orcoyen, Anna Corvino e Alena Sautier il primo gruppo e Diletta Rizzo Marin, Maria Rosaria Lopalco e Arianna Rinaldi il secondo gruppo), peraltro tutte belle ragazze che avrebbero ben meritato di comparire in scena. P.V.Montanari Foto Rocco Casaluci