Torino, Auditorium RAI “Arturo Toscanini”, Stagione Concertistica 2013-2014
Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI
Direttore Xian Zhang
Pianoforte Daniil Trifonov
Tromba Roberto Rossi
Pëtr Il’ič Čajkovskij : Suite n. 4 in sol maggiore op. 61 “Mozartiana”
Dmitrij Šostakovič : Concerto n. 1 in do minore per pianoforte, tromba e orchestra d’archi op. 35
Sergej Prokof’ev : Romeo e Giulietta, brani scelti dalle due suites del balletto op. 64
Torino, 6 dicembre 2013
Che cosa può succedere quando tre grandi compositori russi fanno di tutto per allontanarsi dalla tradizione nazionale, e – come se nulla fosse – rielaborano Mozart, oppure dissacrano la tradizione del concerto beethoveniano, oppure ancora ricamano su di un balletto di soggetto shakespeariano? Può succedere, per esempio, che i loro esiti diventino il programma di un concerto bene orientato come il n. 9 della stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI a Torino, e che l’ascoltatore abbia modo di riflettere sulla ricchezza di intenti e di prospettive della musica russa tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e i Trenta del Novecento; in un’allure tutta internazionale, visto che russi sono i compositori e il pianista, italiano il solista alla tromba, cinese il direttore, e poi c’è l’OSN, nel cui novero abbondano professori di origine straniera.
La cinese Xian Zhang è da quattro anni Direttore Musicale dell’Orchestra Sinfonica di Milano “Giuseppe Verdi”, e dimostra sia nel gesto sia nell’organizzazione delle sonorità una grande frequentazione del repertorio sinfonico. Nel Čajkovskij iniziale, per esempio, riesce a mantenere quell’atmosfera sonora un po’ posticcia, tipica di un travestimento musicale che dal 1887 guarda allo stile e ai moduli espressivi mozartiani. Preghiera. Andante non tanto, ossia il terzo brano della suite, è trascrizione di una trascrizione, poiché il motivo mozartiano dell’Ave Verum Corpus è ripreso da Čajkovskij in base alla rielaborazione di Liszt, come a dire che non c’è alcun fine di ricostruzione archeologica della musica austriaca di fine Settecento, e tanto meno una velleità di comporre secondo antichi stili, ma semplicemente il gusto di riscrivere una pagina di incantevole bellezza, già riscritta da altri. L’esecuzione, nella consapevolezza dell’insanabile allontanamento tra modello e remake, insiste però sulla pesantezza degli ottoni (sempre in primo piano) o delle percussioni. Il vigore un po’ bolso delle variazioni conclusive (nella sezione Tema e dieci variazioni. Allegro giusto che suggella la suite) cancella ogni levità autenticamente mozartiana, pur tra dinamiche precise e suoni puliti (ma senza anima; persino l’arpa suona in modo un po’ aggressivo). Nelle stesse variazioni si apprezzano precisione e garbatezza del violino di spalla Roberto Ranfaldi, come sempre elegante e discreto. Il finale è un tripudio di trombe e corni, tanto che l’immancabile ascoltatore distratto potrebbe chiedersi: «Qual è il titolo della suite? Wagneriana?»
Se le rielaborazioni da Mozart sono affrontate con uno stile così accademicamente assertivo, che cosa accadrà alla parodia di Šostakovič, il cui concerto è un’ininterrotta allusione sarcastica alla tradizione occidentale? Il sospetto pregiudiziale è del tutto stornato, perché l’esecuzione è perfetta, grazie soprattutto al pianoforte di Daniil Trifonov e alla tromba di Roberto Rossi, ottimamente congiunti sin dalle sornione progressioni del composito I movimento (Allegretto – Allegro vivace – Allegretto – Allegro – Moderato). Il ventiduenne pianista russo non si risparmia di certo, impegnandosi in una galleria di stili differenti e di suoni cangianti, dal vitreo e trasparente del tempo di mezzo al funambolico, selvaggio e martellante del finale; e non si tratta di sola bravura tecnica, perché al virtuosismo si accompagna la giusta sottolineatura interpretativa. Buona, ottima, e sempre di giusto peso anche la tromba di Rossi, delicatissima con la sordina, svettante nel finale, in cui da “spalla” del pianoforte diventa protagonista di una scoppiettante e pirotecnica fanfara. È talmente briosa la coppia dei solisti che nella stretta conclusiva l’orchestra, metronomicamente (e rigidamente) guidata dalla Zhang, fatica a reggere il ritmo.
Agli applausi entusiastici del pubblico torinese risponde soprattutto il pianista, che regala due brani fuori programma davvero sorprendenti e di segno stilistico opposto: il primo è una trascrizione della Danza infernale di Katchei, dall’Oiseau de feu di Stravinskij, in cui Trifonov dimostra una dirompente forza sinfonica; con il carattere inaspettato del bis, e della trascrizione per solo pianoforte di un brano di effetto orchestrale, è certamente il momento più emozionante del concerto. Alle braci ardenti dell’Uccello di fuoco segue una pagina musicale di riconciliazione, forse suggerita dall’iniziale suite “in stile antico”: la gavotte dalla Suite dai tempi di Holberg di Grieg, di cui Trifonov sottolinea la dolcezza del fraseggio, la pacatezza discorsiva, la dolcezza espositiva.
Domina sempre il genere della suite, anche nella seconda parte del concerto, perché la Zhang propone sette brani dal balletto Romeo e Giulietta di Prokof’ev, estrapolati dalle versioni dell’op. 64 e 64 bis, risalenti agli anni 1935-1936: tutte pagine molto celebri, ma accostate in ordine arbitrario (I Montecchi e i Capuleti, La giovane Giulietta – queste dalla suite n. 2, tutte le altre dalla n. 1: Madrigale, Minuetto, Maschere, Il balcone di Giulietta, La morte di Tebaldo). In particolare, decidere di concludere con La morte di Tebaldo è scelta lontana da ogni coerenza interna alla vicenda narrata; l’unica giustificazione è il tono reboante, adattabile come finale drammatico e fragoroso (almeno, per come lo intende la Zhang) di un quadro sinfonico. Sin dall’inizio il volume sonoro è infatti decisamente marcato, anche perché il direttore predilige il protagonismo dei fiati (corni, corno inglese, fagotti). La percezione è quella di una lettura molto chiara, ma a volte soffocante nei confronti delle nuances degli archi; nei momenti più intimistici, in particolare, si rimpiange la mancanza di gradazioni, di palpiti interiori, di emozioni genuine. Perfette, al contrario, le sottolineature circensi, la pienezza dei suoni intagliati in forme geometriche precise, le clausole istrioniche (non a caso Maschere è il brano più convincente dell’intera esecuzione). In tutte le pagine, comunque, la precisione tecnica del direttore è mirabile: si apprezza come l’orchestra, con la sua ormai preclara duttilità, risponda a ogni richiesta della Zhang, specie nel rilevare riprese, simmetrie, corrispondenze interne alla partitura. E il pubblico di Torino apprezza moltissimo, con applausi prolungati e festosi, correttezza, professionalità e studio accurato; anche se i compositori “fanno gli indiani”, con scelte d’avanguardia o di retroguardia, la bellezza della loro musica e la validità di chi la esegue sono sempre premiate, e con gioia.