Opera di Roma:”Ernani” (cast alternativo)

Teatro dell’Opera di Roma, Stagione  di Opere e Balletti 2013/2014 – Spettacolo inaugurale
“ERNANI”
Dramma lirico in quattro atti, libretto di Francesco Maria Piave da Hernani di Victor Hugo
Musica di Giuseppe Verdi
Ernani (don Giovanni D’Aragona), il bandito  FRANCESCO MELI
Don Carlo, re di Spagna  LUCA SALSI
Don Ruy Gomez de Silva, Grande di Spagna ILDAR ABDRAZAKOV
Elvira, sua nipote e fidanzata ANNA PIROZZI
Giovanna, di lei nutrice SIMGE BÜYÜKEDES
Don Riccardo, scudiero del re ANTONELLO CERON
Jago, scudiero di Don Ruy Gomez GIANFRANCO MONTRESOR
Coro e Orchestra del Teatro dell’Opera
Direttore Riccardo Muti
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia scene e costumi Hugo de Ana
Luci Vinicio Cheli
Movimenti mimici Leda Lojodice
nuovo allestimento in coproduzione con la Sydney Opera House
Roma, 12 dicembre 2013

Come spettacolo inaugurale della stagione operistica 2013-2014 del Teatro dell’Opera di Roma, Riccardo Muti presceglie Ernani di Giuseppe Verdi: continua, dunque, imperterrito nella sua decisione di dirigere e approfondire le partiture verdiane, come dimostrano gli ultimi tre anni della sua attività a Roma, dove ha portato in scena esclusivamente opere del bussetano. E l’Ernani ha forse un posto particolare nel suo cuore, vista la sacrale dedizione che gli dedica: una direzione magnifica, accorta, vigile, tirando fuori tutte le gamme sonore dall’orchestra (il preludio all’atto I o quello al III ne sono gli esempi migliori). Muti è innegabilmente il miglior direttore in vita della prima produzione verdiana; in particolare, lo è anche e soprattutto per questioni di sintonia tecnico-stilistica: infatti, Muti si sente particolarmente a suo agio nelle sezioni della partitura ricche di materiale orchestrale e vocale (cori e concertati) – di cui Ernani abbonda –, riuscendo a sfrenare l’orchestra con maestria, con un gusto inimitabile. Sensibile concertatore di voci, concede – come spesso negli ultimi anni – qualche parca variazione negli ‘a capo’ delle cabalette. Ma una di queste cabalette, in particolare, impresse un segno indelebile nella sua carriera, quando aprì la stagione 1982-1983 della Scala proprio con l’Ernani: “Infin che un brando vindice”, la cabaletta di Silva, che decise, contro la tradizione, di omettere, con ampi proclami di correttezza filologica. In effetti, quando Verdi mise in scena Ernani (Teatro La Fenice, 9-03-1844), non contemplò la presenza di una cabaletta per Silva, su cui oggigiorno pesa inoltre la macchia di inautenticità (Degrada e Budden); «Muti pose un dubbio legittimo e operò una scelta artistica del tutto plausibile» (Philip Gossett): come allora, anche in quest’ultima produzione romana Muti opta per l’omissione e, forte di una partitura realmente più accurata (la nuova edizione critica Ricordi ad opera di Claudio Gallico, edita da The University of Chicago Press), la novella Ernani romana può tentare un ulteriore passetto di avvicinamento all’idea originale di Verdi.    Protagonista assoluto della serata è il tenore Francesco Meli, nel ruolo principale. La voce di Meli è un mellifluo torrente di melodiosità: sempre intonato, con una dizione perfetta, una tecnica adamantina e un timbro portentoso, riesce a trovare una sconcertante varietà di soluzioni. Non c’è un momento dell’opera dove viene meno: brilla nella cavatina (I atto) “Mercé, diletti amici”; è fiero nel terzetto (I atto) “Tu se’ Ernani!… mel dice lo sdegno”; è risoluto nell’arioso (precedente il terzetto del II atto) “Oro, quant’oro ogni avido”; riesce sublime nel successivo duettino con Elvira “Tu, perfida!”; e infine magnifico nella grande scena e terzetto-finale IV (“Tutto ora tace d’intorno”). Un Ernani, il suo, che entrerà di diritto nel novero dei grandissimi, nella sfilza di nomi del calibro di Del Monaco, Corelli, Bergonzi o Domingo; e tutto il merito va a una voce che si fregia di un’emissione sempre squillante, uniforme, in maschera, tersa, gradevolmente elegante, il tutto unito alla sua qualità di cesellatore, intagliatore della parola. Don Carlo viene cantato da Luca Salsi, baritono la cui carriera sta felicemente impennandosi. La sua voce, che ha il pregio dello squillo e della brunitura autenticamente baritonale, riesce in acuti potenti, nel canto più sostenuto, come pure in quello sul fiato (lo ha mostrato sulla frase “Vedi come il buon vegliardo”, nel concertato-finale I), risultando anche abile fraseggiatore. La sua performance, un Don Carlo virilmente giovane, è costellata di momenti indimenticabili: l’aria del II atto “Lo vedremo, o veglio audace” (dove arriva più d’una volta, a voce piena, al mi naturale e al fa diesis sovracuti), con la cabaletta “Vieni meco, sol di rose” – perlata melodia verdiana –; la cavatina del III atto, “Oh, de’ verd’anni miei”, tra le più intense scritte dal compositore; e il successivo assolo nell’adagio del finale III (“Oh sommo Carlo, più del tuo nome”). Un eccellente Silva presenta Ildar Abdrazakov: un basso pieno, dagli armonici complessi e torniti, risulta perfetto in un ruolo senile, ma travolgente. Oltre alla bellissima cavatina, “Infelice! E tu credevi”, si fa piacere nel duetto e nei due terzetti, di cui quello del finale IV lo vede rabbiosamente partecipe. Se la produzione si fregia di un trittico di voci maschili di prim’ordine, ciò non può dirsi dell’unica femminile: l’Elvira di Anna Pirozzi. La cantante, al debutto in un ruolo oggettivamente difficile, probabilmente non in serata, perde spesso l’abbrivio, è costretta a rallentare, con problemi anche nella fascia acuta dove, seppur non risultando ingolata, non tornisce adeguatamente il suono. Tali difficoltà emergono soprattutto nella cavatina, “Ernani! Ernani…involami”, pezzo tra i più difficili della produzione verdiana, dove almeno riesce a trovare un fraseggio, evitando esiti di autentico dubbio gusto cui giunge, nelle altre recite, la collega Serjan. Ma il solo fraseggiare non le fa tirar fuori dal cilindro le troppe difficoltà tecniche che un ruolo come Elvira richiede: esempi lampanti sono quella serie di la e si naturali acuti in fortissimo (stretta del finale I) che escono stridulamente indecisi. A onor del vero, si deve segnalare un netto miglioramento nell’atto IV, dove canta decisamente meglio il duetto con Ernani e il terzetto-finale. Tutti i comprimari sono eccellenti: Antonello Ceron, Simge Büyükedes e Gianfranco Montresor. Il coro è fantastico: sapientemente diretto da Muti, riesce a creare atmosfere sublimi, come nell’imeneo a inizio dell’atto IV (Oh, come felici gioiscon gli sposi!”), e soprattutto nel pezzo forte, il corale della congiura, “Si ridesti il Leon di Castiglia” (III atto), bissato alla première sotto uno scroscio di applausi.    Regia, scene e costumi sono a firma dell’argentino Hugo de Ana. Per quasi tutta l’opera (tre atti) l’ambientazione è data da un immaginario esterno circondato da palazzi nobiliari (nel I atto s’intende trattarsi del palazzo di Silva), ricchi di bugnati e varie decorazioni, come lesene e aperture dal gusto neoclassico, che si riflettono su un pavimento a specchio: la scenografia rimanda senz’ombra di dubbio all’architettura figurativa spagnola in stile manierista che si può ammirare nel celebre Palazzo di Carlo V a Granada. Nel I e II atto tutta la scena è gremita di mobilia alla rinfusa; non si spiegano perfettamente dei lastroni adagiati sul proscenio – già visti nella sua scenografia del Rienzi qualche mese fa – se non come lato riferimento al potere imperiale. Nel III atto finalmente la monotonia scenografica iniziale (che sacrifica le possibilità dell’interno nel II) si smuove, spostando dei grossi blocchi dalle quinte e creando un andito dov’è presente la tomba di Carlo Magno, peraltro molto poco pomposa, con un enorme crocifisso aureo. Il IV atto, visivamente il più efficace assieme al I, vede sul fondale un’enorme gelosia a grata, tipicamente spagnola, evocativa di un immaginario salone del palazzo di Don Giovanni. Una scenografia bella, particolare, ma che ha il difetto di una stantia monotonia: una spinta ottica fortemente dinamica è offerta dallo sconfinato campionario dei costumi storici, tutti di foggia eccellente, policromi, che hanno l’effetto, sullo sfondo scenico prevalentemente sulle tonalità del grigio, di un quadro macchiaiolo. La regia dei movimenti, non particolarmente curata, scopre il fianco a qualche naïveté di troppo; si fanno apprezzare alcuni piccoli gesti, che spesso passano quasi inosservati e che creano una sorta di trama tra i vari quadri: lettere, un anello, un guanto raccolto, un monile che attesta la regalità di Carlo ecc. Apprezzabili anche i vari tableaux vivants (soprattutto il dispiegamento delle varie guardie), con danze rinascimentali (per esempio all’incipit dell’atto IV); mi hanno francamente lasciato interdetto i vari incappucciati in nero che seguono Silva nella scena in cui esige l’adempimento del voto di Ernani: foss’anche una metafora, non se ne capisce la ragione. Molto curata la scena dell’incoronazione di Carlo V a imperatore: una luce quasi divina lo inonda, mentre gli vengono portati un enorme mantello porporino, scettro e corona (i primi due riciclati dalle recite di Rienzi).
Una degna apertura di stagione, insomma, di alto livello, in linea con quelle cui si assiste ormai da anni al Teatro dell’Opera di Roma. Uno spettacolo caratterizzato anche da un diretto messaggio politico di Muti, che si prende molto a cuore i vertiginosi baratri in cui sta sprofondando inesorabilmente la cultura italiana: e sembra di rileggere quelle celebri parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quando nel Gattopardo definiva Verdi una “sempiterna pomata curativa delle piaghe nazionali”. Foto Lelli & Masotti