Dopo il grandissimo successo ottenuto a Sassari e a Jesi con la sua regia di Falstaff verdiano, Marco Spada ci racconta il suo percorso artistico e umano.
Maestro Spada è la sua prima volta qui nelle Marche?
In verità è la mia prima volta che sono qui in veste di regista. Le Marche le conosco abbastanza bene perché è una regione alla quale sono legato professionalmente sin dagli esordi della mia carriera. Ho iniziato alla Fondazione Rossini dove ho collaborato come ricercatore in tutti gli ambiti in cui la Fondazione opera. Successivamente ho avuto il piacere di lavorare come Capo Ufficio Stampa a Macerata presso lo Sferisterio, nel triennio 1995-1997. Poi come critico musicale ho avuto la piacevolissima opportunità di visitare tutto il territorio ed ero già abbastanza di casa a Jesi, Macerata, Fano, Fermo e a Pesaro. Per i suoi molteplici aspetti artistici e di tradizione è una regione che amo moltissimo, dove si mangia benissimo tra l’altro!
E Ancona non è nella lista…
E’ vero. Ad Ancona, in veste di regista, per il momento non sono mai stato. In verità, anni fa sono stato candidato alla direzione artistica del Teatro Delle Muse Corelli, poi le cose hanno preso un’altra strada e io sono andato a Sassari.
Ma Lei, Maestro Spada, ricopre in verità più “vesti professionali”…
Ha ragione. Sono prima di tutto Direttore Artistico dell’Ente Concerti di Sassari che, invece di essere un’istituzione concertistica, è un teatro di tradizione dal 1967 e produce spettacoli di Opera. Io ricopro questo ruolo dal 1998 e quindi ormai sono quasi sedici anni.
Ma il suo approccio come regista è assai diverso…
Ma certamente ci si espone maggiormente al giudizio del pubblico con uno spettacolo proprio. La mia veste professionale è, questa volta, assai differente.
Il lavoro come regista e quello di direttore artistico sono due attività che riesce a gestire compatibilmente?
Direi che in Italia ci meravigliamo ancora che due figure professionali si fondano in un unica persona. In verità, in Europa è la regola. I direttori artistici o gli entendant, i sovrintendenti dei teatri in Germania, Francia e Spagna, provengono quasi tutti dalla regia. Il mio è stato un cammino professionale diverso, provenendo dalla musicologia, dalla critica musicale, dalla direzione artistica fino ad approdare, dieci anni fa, alla regia di Opera. E’ un percorso che è nato dal mio desiderio di approfondire l’aspetto teatrale e drammaturgico delle opere, nel quale certamente ho portato la mia formazione.
Come affronta un lavoro registico?
Per me è sempre importante quando affronto un testo, come nel caso di Falstaff, di percorrerne gli aspetti letterari, musicologici ed inquadrarlo in un panorama storico più ampio. Entro assolutamente nella regia, ma sempre con un approccio analitico, che è il frutto della mia formazione ed è assolutamente alla base del mio lavoro.
Cosa intende per approccio analitico?
L’approccio analitico è la cucina del regista, il pensatoio e, in quanto tale, fucina di pensiero. Per me, la regia è assolutamente il pensiero. Da questo segue il momento della poesia. Dall’analisi può partire la poesia, ma la poesia senza analisi, a mio modesto avviso, non può sussistere: è vuota, è priva di produttività, superficiale. In un impianto, dunque, come quello registico, che è complesso, questi due elementi creano livelli, “stratificazioni” di lettura e fanno sì che lo spettatore, con la propria sensibilità, la propria intelligenza, le proprie conoscenze, si nutra di ciò che più desidera.
Sembra un percorso estremamente strutturato…
Assolutamente si. L’opera lirica, senza una struttura, non ha nessun tipo di fondamento.
Eppure c’è una tendenza, in molti suoi colleghi, a destrutturare l’opera e basare l’idea, il pensiero registico su altro…
Ma io non sono un giovane regista di trent’anni che deve dimostrare di essere moderno. Io sono semplicemente una persona di mezza età con il suo background e che considera l’opera non un esperienza di psicoanalisi personale in cui infondere i propri tic. Io amo scavare dentro l’opera, per farne uscire le motivazioni. Chiaramente tutto questo è possibile farlo in una maniera esteticamente interessante, sfrondando dal vecchiume, ma senza aggiungere per forza dei significati inutili e assolutamente poco pertinenti. Quello che c’è in scena viene certamente da me, ma da come io interpreto il compositore, il librettista, l’autore della fonte letteraria.
Mi sembra di intuire che c’è un grande rispetto verso le fonti…
C’ è infatti sempre un grande rispetto ed aggiungerei un grande amore. Ho fatto, ad esempio, tre opere di Donizetti, due delle quali rare: “Il Marino Faliero” e il “Poliuto”. Analizzando queste opere, lavorandoci, mi sono accorto che il “Marino Faliero” è un grande capolavoro disconosciuto e perciò ho cercato di portarne all’esterno tutte le motivazioni ed è stato uno spettacolo assolutamente riuscito. Il “Poliuto”, che viene considerato un capolavoro, in realtà non lo è, a mio avviso. E’ un’opera azzoppata per motivi storici ed è evidente nella sua struttura dove troviamo sia dei momenti musicalmente buoni, sia dei momenti drammaturgicamente fallaci. Io ne ho visto l’aspetto ironico, che non a tutti è piaciuto. Ma, mi ripeto, non ho interpretato, ma ho solo reso evidenti in scena certi aspetti dell’opera. E’ questa che ti da le indicazioni su come farla.
Non si lascia mai condizionare dalla tradizione?
Io affronto un testo senza pensare che dietro di esso ci sia una storia di rappresentazioni, di tradizioni in senso stretto. Questo non vuol dire che non la consideri, ma non è un aspetto imprescindibile del mio percorso creativo. Parto dal testo come se non lo avessi mai fatto. Io, per esempio, non ho mai fatto un’“Aida”, ma è ovvio che, qualora dovessi metterla in scena, non potrei non tenere conto dello storico delle rappresentazioni, per poi arrivare a una visione personale. Quindi non è detto che debba per forza mettere in scena gli elefanti e le piramidi.
La regia, vista anche come studio filologico, sembra essere un percorso faticoso…
Per me non lo è affatto. Anzi è l’aspetto più interessante e divertente e creativo. Chiaramente segue la messa in opera, che riserva anche delle sorprese per il regista. Quando si progetta una produzione, bisogna poi affrontare i cantanti, un direttore d’orchestra ed è allora che il progetto prende vita e che comincia a “sfuggire”, come accade, in verità, anche in letteratura quando si scrive un libro. Ma questo è esaltante ed emozionante.
Come riesce a comunicare tutto questo suo modo di fare opera ai suo collaboratori?
Lavorando… lavorando tanto, spiegando il progetto, facendo loro comprendere le mie motivazioni, lavorando, ad esempio, coi cantanti anche fisicamente, spostandoli, quando è necessario, sul palcoscenico, toccandoli. L’opera è fisicità.
E’ raro trovare un regista che comunica un impegno così totalizzante, faticoso,elaborato…
E’ un tipo di professione che nasce dall’amore e, proprio per questo, appunto, totalizzante.
Ma non trova delle resistenze magari dai cantanti?
Io ho lavorato spesso con persone che debuttavano in un ruolo. Ma anche quando ho avuto cantanti importanti, già strutturati è stato veramente bello vederli partecipi poco a poco del tuo progetto, facendosene carico e spogliandosi dell’idea personale che avevo del personaggio e vestendo abiti differenti.
Un’esperienza registica interessante…
Un’esperienza che ricordo tra le più interessanti è stata lavorare con Giorgio Surjan al personaggio di “Marino Faliero”. Surjan è un artista molto serio e conosciuto, ma si è fatto carico di questo personaggio gigantesco con estrema naturalezza, rivedendo completamente la sua precedente visone del carattere. Anche con Ivan Inverardi, che ha debuttato nel ruolo di Falstaff, è stato un lavoro di approccio spesso tortuoso e contrastato: Inverardi aveva paura di questo personaggio e non riusciva a renderlo più intimo come io desideravo ed era assai diverso da quelle che erano le sue aspettative: il solito ciccione, volgare e anche un po’ antipatico. Invece, per me, è stato sempre il contrario: in questa produzione è un uomo dolce e simpatico ed è lui, in fin dei conti, il vero grande protagonista dell’opera. Risulta, a mio avviso, una spanna sopra tutto il suo entourage di basso livello di questa cittadina che si suppone sia Windsor.Questo Falstaff cade nel centenario verdiano, quindi ho pensato di ambientare l’opera nel 1893, l’anno in cui è stato rappresentata alla Scala. Partendo da questo presupposto è cambiato tutto, in rapporto ai costumi. I costumi sono esattamente di quell’anno, neppure d’epoca. L’ambientazione è un teatro dove Falstaff e Quicly, alla quale io ho dato un’importanza superiore rispetto a quella che solitamente le si dà all’interno delle quattro comari, sono due attori /artisti che interpretano i loro ruoli e nei loro rispettivi camerini si preparano ad affrontare questa sorta di scontro tra titani nel quale uno dovrà convincere e l’altro dovrà resistere. Perchè tutto ciò? Perchè Falstaff è l’ultima opera di Verdi ed è scritta come stratificazioni di diversi significati. Tutte citazioni delle precedenti composizioni di cui è pienissima quest’opera, da “Otello” a “La Traviata”, a “Un Ballo in Maschera”… ma c’è anche la citazione di Wagner e questo fa di Verdi quella grande mente superiore che è stata capace di far suoi e di rendere in commedia, come forma di omaggio a Wagner, certi tic del compositore dell’avvenire. Un ‘opera così divertita e divertente, frutto di una mente così geniale, deve essere resa con il rispetto e l’ironia che merita. In questo caso, ambientandola in una situazione metateatrale, escono fuori molto bene i caratteri dei personaggi e Quiqly, nella mia visione, è, per esempio, giovane e bella e quindi non è più la comare vecchia e brutta che funge solo da messaggero, ma anzi è un vero Cupido in veste femminile, del quale Falstaff è quasi innamorato e, forse, pensa che potrebbe essere lei, invece che Alice e Meg, la sua vera conquista. Secondo me, Verdi vede in Falstaff l’artista con la A maiuscola. L’artista è colui che ha molto vissuto e che ha molto capito del mondo e che si può divertire a vederne i difetti ed i tic, ma dentro di sé, pur avendo tutti i vizi ed essendo profondamente umano, rimane puro, un bambino. Per questo è un personaggio simpatico e, pur prestandosi a questa burla, in realtà, lo squallore “comico” ricade sui personaggi dell’entourage.
Giuseppe Verdi ha creato dei personaggi straordinari, che bisogna tirar fuori. Il dottor Cajus solitamente è un personaggio secondario, mentre io l’ho valorizzato, dandogli una caratteristica che viene da Shakespeare. Per il bardo, il personaggio è uno straniero, un forestiero, un medico francese e quindi non è propriamente integrato nella comunità, ma è possidente e quindi è appetibile per la figlia di un borghese arricchito come Ford. Proprio per questo ho voluto dargli un accento francese ed è diventato, figurativamente parlando, un po’ l’immagine di Arrigo Boito, il librettista di Falstaff, poeta della scapigliatura molto vicino al naturalismo francese, che insieme a Verdi ha creato quest’opera ricca di preziosismi. Così come è stratificato il significato musicale della partitura, anche la lingua che usa Boito è piena di stratificazioni culturali. Questa è un opera colta e, nella mia visione, è quasi l’antenata della commedia musicale che arriverà con “Gianni Schicchi” e, subito dopo, con Nino Rota e il suo “Il Cappello di paglia di Firenze” e, se vogliamo, con la commedia musicale più leggera. La grandezza di questo capolavoro è tale che Verdi non poteva scrivere altro dopo Falstaff. Ci troviamo di fronte ad un’opera che chiude una carriera e non la inizia.
Come sceglie i suoi collaboratori? Chi è il regista all’interno di un progetto?
Prima di tutto per la stima che provo nei loro confronti e per la conoscenza delle loro attitudini tecniche ed estetiche. Naturalmente sento la necessità di ricordare una cosa che è abbastanza ovvia, ma in Italia va, a mio avviso, sempre ribadita: il regista è colui che progetta la produzione. L’idea parte dal regista e lui è il responsabile ultimo del progetto. In Italia, per tradizione storica, si è partiti sempre dall’immagine figurativa, dalla scena e dai costumi e poi veniva la regia, che muove i personaggi sulla scena. Ma non è così: l’Europa ci insegna che è il contrario. Dalla nascita dalla regia in Russia sino a tutte le elaborazioni europee, il regista è il responsabile del progetto. Questo poi sceglie un costumista, uno scenografo, un tecnico luci che si facciano carico dell’idea registica. E’ senza dubbio un lavoro di squadra che parte da un’idea che deve essere comunicata e spiegata. Il regista ha il controllo dell’immagine figurativa e anche dei costumi.
Nel suo caso, maestro, all’interno del suo teatro da direttore artistico ha la possibilità di scegliere non solo i suoi collaboratori, ma anche i cantanti, il che porta, per la sua visione, a minori limiti creativi…
Certo, questo è vero ed è anche l’optimum che non sempre si può avere. E’ comunque una sfida adattare un progetto ad altre personalità, come nel caso di Jesi dove, rispetto alla produzione di Sassari, abbiamo cambiato il direttore d’orchestra ed il personaggio di Meg, pur mantenendo la base del cast. Questi cambiamenti, che sembrano di poca importanza, sono rilevanti. Il direttore d’orchestra cambia l’approccio al progetto ed in qualche modo la parte registica ha una sua ridefinizione. Avere un’altra cantante significa rimodulare il rapporto tra questa ed i colleghi sul palco.
Quando pensa ad un progetto registico pensa mai al pubblico?
Il pubblico ha una sua intelligenza e capisce di uno spettacolo il senso ultimo anche se non individua questa citazione o quell’analisi: questo non importa. Quello che vede è sempre un progetto organico, coerente. Se si crea un spettacolo ben costruito, il pubblico lo percepisce. Quello che non accetta il pubblico è essere preso in giro.
…quando se ne accorge…
Appunto. Io ho affrontato il mio lavoro di direttore artistico in una visione maieutica nei confronti del pubblico e nella regia cerco di fare altrettanto. Il mio rispetto per la musica è così sentito che penso che si debba comunicare nella maniera più sana e più giusta fuori da un narcisismo di autore che a tutti i costi si sovrappone al significato dell’opera.
Un progetto nel cassetto?
Come regista ci sono tanti titoli che vorrei mettere in scena: per esempio, non ho mai affrontato Puccini e mi piacerebbe fare una Butterfly, una Turandot e anche un Trittico. Puccini è un compositore intellettuale nonostante quello che sembra e cioè solo emotivo. Chiaramente c’è anche quella componente, ma l’emotività di Puccini è estremamente costruita a tavolino. Trovo molto più emotivo Donizetti . Mi piacerebbe fare l‘Aida, perché la considero la mia opera – feticcio, ed un altro Rossini serio dopo il “Mose in Egitto”, così come un’“Armida”. E non ti nascondo che attendo con trepidazione di poter fare “Les dialogues des Carmélites“ di Poulenc perché in quel compositore io vedo molte cose di me. In quest’opera c’è tutta la parte spirituale, profonda, drammatica e malinconica che io ho dentro e che nelle opere comiche rovescio in ironia. Un ringraziamento particolare all’Ufficio Stampa dell’Ente Concerti di Sassari “Marialisa De Carolis”.