Personaggio poliedrico, artista a tuttotondo, Eric Vigié è attualmente il direttore generale dell’Opéra di Losanna e dell’Avenches Opera Festival.
Come si è avvicinato alla musica e al teatro?
La musica è stata sempre presente nella mia vita perché mia madre suonava il piano e il clavicembalo. Ho trascorso parte dell’infanzia a Philadelphia dove mio padre frequentava la Harvard Business School. Là avevamo un cugino francese americanizzato, John De Lancie che suonava come primo oboe nella Philadelphia Orchestra e grazie a lui posso dire di essermi seduto da bambino sulle ginocchia di Stokowsky e di Ormandy! John è diventato in seguito direttore del famoso Curtis Institute. Ricorda le sue prime esperienze da spettatore all’opera?
Quando sono arrivato a Nizza nel ’77 frequentavo degli amici che mi hanno portato all’Opéra ogni venerdì sera per 30 settimane. C’era sempre una produzione differente, ma il livello degli spettacoli, nei quali si riciclava la stessa tela dipinta, era terribile! La qualità dei cantanti invece era eccelsa: ho ascoltato Pavarotti in Bohème nel Dicembre del ‘77 poco dopo l’incidente aereo nel quale aveva rischiato la vita. In cartellone c’erano nomi come Montserrat Caballè, Valentini-Terrani, Carreras, Bonisolli, Ricciarelli. Il pubblico era in delirio! I cantanti arrivavano all’ultimo momento, erano pagati in contanti, passavano 5 giorni al Negresco e Nizza e la vita era bella…Ho approfondito la conoscenza dell’opera con i dischi ma il mio gusto musicale si è formato soprattutto ascoltando questi grandi artisti dal vivo.
Com’è iniziato il suo interesse per la regia?
All’inizio degli anni ottanta sono andato in Scala a vedere una nuova produzione di Lohengrin diretta da Abbado, con Peter Hoffmann e la regia di Strehler. Siamo partiti da Nizza alle 8 di mattina e abbiamo pranzato al Biffi Scala (che all’epoca esisteva ancora). Una volta in teatro ho avuto uno choc terribile: ho visto per la prima volta nella mia vita una vera regia!!! Per caso nel foyer ho incontrato Pierre Médecin che era stato l’unico regista di qualità ad aver lavorato a Bayreuth come assistente di Wieland Wagner. Médecin faceva una o due regie all’anno a Nizza e tornando da Milano sono andato ad incontrarlo all’uscita degli artisti per chiedergli come dovevo fare per diventare regista. Lui ha risposto: “Devi lavorare, studiare la musica e le lingue devi avere un repertorio… apprendere, apprendere, apprendere...”
Nel frattempo studiavo corno, teatro, orchestra, musica da camera e canto Conservatorio Nazionale di Nizza ma sapevo realmente cosa volevo fare nella mia vita, forse l’avvocato penalista o il generale di fanteria… Stavo cercando, mi piaceva il teatro e l’ambiente ma pensare di lavorare con Stehler o in Scala?! Era semplicemente follia!
Quando e come la folle idea si è trasformata in realtà?
Un giorno arrivò a Nizza mio cugino John De Lancie con l’orchestra del Curtis Institute per un concerto che ebbe un enorme successo. Il direttore del conservatorio di Nizza dove ero studente, gli confidò il mio sogno di diventare regista. Mio cugino rimase molto sorpreso perché non gliene avevo mai fatto parola e dopo il mio baccalaureat mi invitò per due mesi a Boston a collaborare con Boris Goldovsky. Goldovsky all’epoca era “Mister Opera“ ovvero colui che seduto al piano, illustrava i programmi del MET. Era una sommità, e mi prese come assistente per organizzare i costumi di Amelia al Ballo di Menotti. Il caso volle che una settimana dopo la prima chiamasse proprio Menotti, (che era stato con Goldowsky al Curtis Institute alla fine degli anni ’20 insieme a Barber, Bernstein, Ives e Copland), chiedendogli aiuto per trovare un assistente per un Evgeny Onegin a Spoleto e all’Opéra di Parigi. Goldowsky gli fece subito il mio nome. Così presi il primo aereo per tornare a Nizza. Da allora Menotti è rimasto un punto di riferimento un poco bizzarro nella mia vita.
Parallelamente alla mia attività di assistente alla regia avevo iniziato la facoltà di Diritto. Nel 1982, fra la generale e la prima di uno spettacolo a cui collaboravo, ebbi la pazza idea di fare un salto al Ministero della Cultura, all’epoca sotto la direzione di Jack Lang e Mitterand desiderosi di rinnovare la realtà musicale francese, per chiedere se avessero mai pensato ad una borsa di studio per i giovani registi d’opera. Fu così che fui il primo ad ottenerla! Dato che ero di Nizza pensarono di affiancarmi come assistente a Pierre Médicin, che nel frattempo era diventato direttore artistico dell’Opéra e stava lavorando duramente per rimettere a posto il teatro ed alzare il livello artistico. Così dividevo le mie giornate fra facoltà di diritto, il Conservatorio e l’Opéra di Nizza dove trascorrevo 8 ore al giorno fino all’una di notte. Médecin ha capito che volevo davvero fare questo mestiere e mi ha aiutato molto. Ho avuto anche fortuna perché ho iniziato in un momento in cui il teatro lirico francese cambiava volto. Fino al quell’epoca si facevano produzioni di prestigio solo a Parigi mentre nel resto della Francia gli allestimenti erano piuttosto poveri. Poco a poco negli anni ’80 la qualità e la professionalità sono cresciute sempre più. Intanto apprendevo il mio mestiere di organizzatore teatrale e di regista.
Quindi l’esperienza artistica ed amministrativa sono cresciute insieme?
Si. A partire dal 1986 a Nizza si era formato un ensemble di giovani cantanti alle dipendenze del Ministero e Pierre Medicin mi ha incaricato di gestirlo organizzando piccole produzioni (tipo Serva padrona, Così fan tutte, Le pauvre Matelot, il Matrimonio segreto) da promuovere e portare in tournée nei villaggi francesi. I sindaci erano molto disponibili ed entusiasti di accogliere una produzione dell’opera di Nizza! Inoltre a Nizza sono stato il primo assistente regista ad allestire un Ring del quale poi ho curato la ripresa al Theatre di Champs Elysées. Facevo 12 produzioni all’anno fra Aix en Provence, e l’Opéra di Nizza oltre alle prove per la Wallmann, Médicin e in seguito per Nicolas Joel. Questo mi ha dato grande visibilità.
Lei ha collaborato a lungo con Nicolas Joel cos’ha imparato e cosa deve a questo maestro? Siamo arrivati entrambi molto giovani al Theatre du Capitole. Io avevo 26 anni quando lui è stato nominato e stavo curando la ripresa di una bellissima produzione di Manon dell’Opéra di Nice, sono andato ad incontrarlo e lui sapeva esattamente chi fossi. Nicolas era molto sospettoso nei confronti della generazione successiva. Era davvero la star fra i registi e poco dopo è diventato anche l’organizzatore più importante nella provincia francese. Abbiamo avuto un rapporto molto professionale ma anche molto simpatico. Sono stato l’unico regista francese a fare 5 produzioni (comprese scene e costumi) a Toulouse, oltre alle riprese degli allestimenti di Nicolas e questo mi ha messo ad un livello molto alto in Francia permettendomi di lavorare un po’ in tutti i teatri francesi e anche all’estero. Se ho fatto la Carmen con Gergiev al White Night Festival è stato grazie a Nicolas che ha suggerito il mio nome. Siamo stati molto vicini per 10 anni, e da quando lui è all’Opéra di Parigi non ci vediamo molto a causa dei reciproci impegni ma ci sentiamo spesso.
In ocasione del Fesival all’arena di Avenches ho avuto modo di conoscere le sue qualità di poliglotta. Quante lingue parla?
Cinque. Quasi sei perché ho fatto un corso intensivo di russo per 2 anni per lavorare con Ljubimov che nel 1988 avrebbe dovuto allestire un Ring a Nizza. Purtroppo il progetto non è andato in porto perché Ljubimov è stato richiamato in patria da Gorbaciov per dirigere la Taganka. Le 500 parole di russo che avevo memorizzato mi sono comunque servite per comunicare col coro e coi solisti quando ho lavorato a San Pietroburgo. Penso che sia normale, quando si è fatta una carriera nel mondo della lirica, parlare 3 o 4 lingue. Io non parlavo spagnolo e Margarita Wallmann mi diceva sempre “Eric tu devi imparare lo spagnolo perché metà del mondo lo parla ed è una lingua importante” . Io le rispondevo che non c’era molto repertorio spagnolo e che il tedesco mi sarebbe servito di più. Anni più tardi sono stato chiamato come coordinatore artistico al Teatro Real di Madrid e mentre attraversavo la frontiera in macchina ho ripensato tutto il tempo alle parole della Wallmann!
La Spagna è stata una pagina importante nella sua carriera?
Ha completamente cambiato la mia vita perché ho dovuto abbandonare la regia, con ancora delle produzioni in sospeso e passare dall’altro lato della barricata approfondendo una parte del lavoro che mi interessa ancora di più. Sentivo che un giorno avrei diretto un teatro ma non pensavo che sarebbe successo così in fretta! Avevo solo 33 anni quando sono arrivato a Madrid ed essere chiamato in un teatro come questo, senza conoscere la città e il direttore generale che mi aveva convocato, senza parlare spagnolo era quasi follia! Il teatro riapriva dopo 6-7 anni di ristrutturazione e in soli 3 mesi abbiamo allestito la prima stagione per la quale mancavano ancora 6 produzioni. Abbiamo lavorato giorno e notte per 6 mesi per riaprire il teatro Real!
Adesso lei è Direttore Generale dell’Opéra de Lausanne e dal 2011 del Festival di Avenches. In cosa differisce la sfida della programmazione di un festival all’aperto rispetto ad una regolare stagione teatrale?
Sono due cose totalmente differenti. L’Opéra de Lausanne è un’istituzione che vive anzitutto con le sovvenzioni pubbliche e per questo c’è un quadro di controllo politico molto rigido sulle finanze e sulla programmazione. Il Festival di Avenches invece ha un budget di 5.500.000 Franchi svizzeri, dei quali solo 80.000 sono di provenienza pubblica. E’ un festival liberale all’americana, vive della vendita dei biglietti e delle donazioni degli sponsor. L’unico punto di contatto che ho voluto è stato quello di rendere il Festival di Avenches una sorta di stagione estiva dell’Opéra de Lausanne. Abbiamo un’orchestra di qualità che viene da Fribourg ma il 70% del coro appartiene all’Opéra de Lausanne, le scene sono state costruite nei nostri laboratori, e da Lausanne provengono anche i tecnici, gli impianti di illuminazione e di alta definizione oltre naturalmente alla mia direzione artistica. Quest’anno il Festival di Avenches ha presentato un allestimento di Nabucco firmato da Marco Carniti che introduceva per la prima volta nella storia del Festival l’uso di giganteschi schermi a led. Dall’alto della sua esperienza di direttore artistico e regista ritiene che il pubblico venga coinvolto maggiormente da allestimenti tradizionali o d’avanguardia?
Il nostro è un Festival popolare dobbiamo trovare 5.000 spettatori ogni sera, quindi l’idea era quella di fare un Nabucco tradizionale ma un po’ differente. Ho imposto i led per dare un taglio più moderno e tecnologico pur rimanendo in un contesto narrativo tradizionale. Il risultato è stato buono anche se alle volte i video, specie per chi sedeva nelle prime file, tendevano a fagocitare tutto il resto. Da lontano il campo visivo era più interessante. Leggendo la rassegna stampa il 70% dei critici ha trovato lo spettacolo geniale, il 20% ha ritenuto le immagini troppo presenti. La prossima volta faremo un bilancio diverso utilizzando una quantità minore di video.
Nell’anno del bicentenario verdiano anche il Festival di Avenches ha avuto un suo personale festeggiamento in quanto compiva 20 anni di attività. La scelta di un titolo verdiano è stata quanto mai indicata ma come mai ha pensato proprio a Nabucco?
Nabucco mancava da 10 anni, avremmo potuto fare Aida, ma non la amo molto. Trovo più interessante Nabucco e penso che richiami più pubblico. Ci voleva un Verdi popolare, in questo contesto un’opera come Don Carlo non avrebbe funzionato.
La Svizzera nel generale contesto di crisi delle istituzioni musicali rimane un’isola felice?
Si, perché c’è un sistema fiscale che la rende tale. Nei consigli d’amministrazione dei teatri sono presenti i politici ma non ne hanno la presidenza e questo separa il potere politico dal denaro pubblico. In Svizzera c’è una mentalità improntata al buon funzionamento delle istituzioni e ad un’oculata distribuzione del denaro pubblico. Inoltre si cercano attivamente sponsor privati. A Losanna riceviamo donazioni per un ammontare di 1.250.000 euro l’anno perché c’è una situazione fiscale che permette anche ai privati di donare fino a 10.000 Franchi alle istituzioni culturali o sociali portandoli in detrazione. A Lausanne possiamo contare su di un club di mecenati con 140 membri che funziona benissimo e che apporta alle casse del teatro più di 200.000 franchi svizzeri all’anno.
Lei è stato direttore artistico del Teatro Verdi di Trieste in tempi non sospetti, durante la sua esperienza in Italia ha potuto vedere degli errori di gestione dei teatri italiani che possono aver contribuito alla pesante crisi attuale?
Certo, ho sempre lavorato in fondazioni private e ritengo che sia un grave errore che il sindaco abbia il ruolo di presidente del CDA del teatro. Questo apre la porta a tutta una serie di problemi. Ad esempio ci sono agenti che chiedono l’appoggio del sindaco per fare pressione sul direttore artistico. In questo modo non è il talento ad essere premiato ma i contatti. I soldi pubblici non possono andare ad amici di amici privi di talento.
Sempre a Trieste uno degli apporti più originali della sua gestione è stata la formazione di un ensemble sul modello tedesco. Ci può spiegare del perché sia così difficile introdurre questo sistema in Italia?
A Trieste avevo insieme un ensemble di cantanti italiani ed ho ricevuto una lettera dall’Associazione Artistici Lirici Italiani che mi accusava di togliere il lavoro ai vecchi comprimari e di darlo solo ai giovani. Italiani! Non stranieri! Tutto perché avevo scelto i giovani e non gli anziani che non hanno più voce e passano il tempo a lagnarsi col sindacato. Situazioni come questa fanno sì che i teatri e la cultura italiana siano in una situazione terribile. Quando penso che negli anni ’70 l’Italia era il paese in cui c’erano i più grandi cineasti, compositori, attori, cantanti, direttori d’orchestra, mi chiedo: dov’è finita tutta questa gente? Non c’è stato un ricambio generazionale, ho paura che i talenti siano ormai altrove.
Guardando ai cartelloni dei teatri italiani oggigiorno si nota un certo consumismo vocale, con continue infornate di nuove proposte che dopo poco cadono nel dimenticatoio. Le sembra ancora possibile oggigiorno costruire carriere solide e incredibilmente longeve come quella di Domingo, Mirella Freni e Pavarotti per citare alcuni esempi?
Il problema è che gli artisti se ne vanno dall’Italia! Se prendiamo l’esempio dei grandi direttori d’orchestra italiani, non ce ne è uno che abbia una posizione stabile in teatro italiano. Si possono ancora costruire delle belle carriere ma piuttosto all’estero. C’è bisogno di tempo, lavoro, non si può aspettare che arrivi qualcuno a darti una mano. Io sono francese e la mia carriera negli ultimi 15 anni si è svolta interamente all’estero e sono sicuro che non dirigerò mai un teatro in Francia perché i criteri di nomina sono totalmente differenti da quelli della Svizzera.
Qual è stato il titolo operistico che l’ha impegnata maggiormente come regista e perché?
Tutti…il Ring in particolare, ma anche un piccolo spettacolo con 2 cantanti come la Serva Padrona mi impegna tantissimo. Per allestire uno spettacolo in maniera originale, entrando nella ricchezza del testo e della musica, e far sì che tutto sia coerente e funzioni, ho bisogno di lavorarci sopra per un anno, considerando che curo anche scene e costumi.
Qual’è stata la sua più grande soddisfazione artistica?
Aver contribuito a rendere l’Opéra de Lausanne uno dei migliori teatri dell’area francofona.
Lei che ha vissuto in almeno 3 paesi dove si sente o si è sentito più a casa?
In Svizzera. Ho vissuto 8 anni a Ginevra da ragazzo. Lausanne è la mia casa. Ma amo molto anche Madrid.
Con tutti i suoi impegni riesce a trovare il tempo per una vacanza? Qual è la sua meta ideale?
Per me vacanza significa sole e mare. Che sia in Francia, ai Caraibi, a Bali o in Tailandia, mi bastano il mare, una spiaggia, la qualità di vita e la tranquillità, che per me ormai è diventata un lusso totale!
In chiusura appellandomi alle sue origini francesi le vorrei chiedere: qual è il suo champagne preferito?
E’ uno champagne che non si trova facilmente in commercio, prodotto dalla mia amica Alexandra Pereyre de Nonancourt, proprietaria della Laurent Perrier. Lei e il marito vivono a Lausanne e sono grandi amici e sponsor dell’Opéra. Ogni due anni producono un pregiatissimo cuvée che prende il nome da lei e costa 250 euro a bottiglia. Ho la fortuna di poterne acquistare una o due bottiglie all’anno ad un prezzo di favore ed è veramente il miglior champagne rosé del mondo!